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Ma più di così sarà difficile

Ma più di così sarà difficile

Danilo Taino – Corriere della Sera

Ieri sera, un importante banchiere svizzero diceva che Matteo Renzi è un ragazzo fortunato. Le misure di politica monetaria annunciate da Mario Draghi, in effetti, sono il massimo che ci si potesse aspettare: anzi, vanno al di là delle aspettative della gran parte degli economisti. Attraverso misure convenzionali e non convenzionali – cioè ordinarie e straordinarie – e anche dividendosi al proprio interno, la Banca centrale europea ha ridotto al minimo possibile i tassi d’interesse; si prepara a comprare debiti degli operatori economici (raccolti in pacchetti) per liberarne i bilanci e spingerli a chiedere credito; fornirà denaro alle banche a costi che più bassi non potranno mai essere in modo che li prestino a imprese e famiglie. È lo stimolo monetario più poderoso che i Paesi dell’Eurozona abbiano mai avuto: quel Quantitative Easing (allentamento monetario) teso a spingere la crescita, a creare inflazione e a indebolire il cambio dell’euro.

Renzi è un ragazzo fortunato nel senso che nessun presidente del Consiglio ha mai avuto un aiuto del genere dalla Bce. Questo però significa che non potrà chiedere più nulla a Draghi: il governatore è arrivato al limite estremo (salvo un difficile, eventuale programma di acquisto di titoli di Stato) a cui poteva arrivare. D’ora in poi, tutto è nelle mani dei governi. E, anche da questo punto di vista, Draghi è stato esplicito nel chiarire il suo pensiero su cosa occorre fare, pensiero in una certa misura distorto dalle letture che del suo discorso al seminario dei banchieri di Jackson Hole (Wyoming), a fine agosto, avevano dato alcuni media (ad esempio il Financial Times ) e alcuni leader europei (ad esempio il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble).

Il governatore ieri ha chiarito ancora una volta che dei tre strumenti per rafforzare la crescita – politica monetaria, politica di bilancio, riforme strutturali finalizzate a liberare l’offerta – «il primo e prioritario» è quello delle riforme strutturali. Senza un’economia efficiente, ogni stimolo finisce nella sabbia. In più, ha precisato di non avere mai messo in discussione il Patto di stabilità europeo, che anzi ritiene «l’àncora per la fiducia» economica. Le flessibilità di cui ha parlato – ha detto – sono interne al Patto, non ne devono «danneggiare l’essenza» e, affermazione non secondaria, ha spiegato che nella politica di bilancio il taglio delle tasse stimola (sempre mantenendo i conti in ordine) l’economia più di quanto non faccia l’aumento della spesa pubblica. «Il punto chiave – ha ribadito – sono le riforme strutturali», che devono essere «ambiziose, importanti e forti». Inoltre, ha voluto fare un’aggiunta che va inevitabilmente letta come indirizzata all’Italia: dal momento che le basse aspettative sul futuro e sulle prospettive dell’economia limitano le possibilità di ripresa, sarebbe bene recuperare la fiducia con «prima una discussione molto seria sulle riforme strutturali e dopo sulla flessibilità».

Draghi e la Bce hanno dunque preso tutte le decisioni di politica monetaria possibili. Ora, le scelte cadono sui governi nazionali. In Italia, significa che Renzi e il governo devono realizzare riforme economiche vere e serie; almeno una, ad esempio quella del mercato del lavoro, in fretta, prima del vertice europeo sulla crescita del 7 ottobre. Non può essere come nella canzone di Jovanotti, dove al «ragazzo fortunato» di dieci cose fatte (o dette) ne è «riuscita mezza».

Ultima chiamata

Ultima chiamata

Paolo Giacomin – La Nazione

Fedele alla linea del fare «tutto ciò che occorra» per salvare l’euro, Mario Draghi ha sostanzialmente dato un po’ di liquidità al mercato tagliando i tassi al minimo storico e un po’ di sostegno (teorico) alla crescita annunciando l’acquisto dalle banche di pacchetti di crediti deteriorati contratti da famiglie e imprese. Solo un mezzo colpo di bazooka, dice la pattuglia di quanti aspettavano un’ondata di quattrini dall’elicottero in stile Fed di cui la Bce ha solo discusso per rinviare qualunque decisione a data imprecisato. Un colpo di bazooka ben assestato, invece, guardando la reazione dei mercati: Borse in festa e spread in picchiata, da un lato. Euro in decisa discesa sul dollaro a beneficio dell’export e a danno del costo del petrolio e dell’energia.

Draghi poteva fare di piu? No, ha fatto tutto quello che poteva: un colpo anche più duro di quello atteso e al costo di una rottura – ammessa esplicitamente – del board della banca centrale con i tedeschi della Bundesbank e non solo, schierati molto probabilmente contro sia al taglio dei tassi sia all’acquisto dei crediti. Sono gli stessi banchieri che Draghi dovrebbe convincere che è cosa buona e giusta inondare di soldi il vecchio continente a uso e consumo degli stati spreconi e in barba ai trattati. Missione impossibile, o quasi.

Insomma, Draghi ha fatto molto. Difficilmente potrà dare di più e, al dunque, tocca ai governi mettersi al passo necessario per uscire dalla crisi: è l’ultima chiamata per le riforme perché, ha rimarcato lo stesso presidente della Bce, ciascuno deve fare il proprio mestiere: all’Eurotower oneri e onori della politica monetaria per togliere l’eurozona dai rischi di deflazione e dalle sacche della recessione. Ai governi spetta la responsabilità di riforme tanto note quanto rinviate e sempre più inevitabili perché, e non ci sono dubbi di interpretazione, non esiste crescita senza riforme. Alla politica spettano le scelte che possano cambiare verso all’Europa e, di conseguenza, alle regole di ingaggio e consentire alla Bce di alzarsi in volo con l’elicottero degli euro. Aspettarsi qualcosa di diverso è come sperare che cada la manna dal cielo. Ma quello fu un miracolo, non cosa di questo mondo.

Draghi batte un colpo. Era ora

Draghi batte un colpo. Era ora

Gaetano Pedullà – La Notizia

Finalmente la Banca centrale europea si è mossa. Niente a che vedere con le vagonate di doping monetario di Stati Uniti e Giappone, ma perlomeno qualcosa si muove. L’azione che conta non è ovviamente il taglio dei tassi al minimo storico, da 0,15 a 0,05%. Se in banca i soldi non te li danno, è irrilevante che il tasso sia un po’ più alto o un po’ più basso. Tra interessi e commissioni, tra l’altro, il costo del denaro resta distantissimo dai livelli fissati a Francoforte.

Ci sono invece due importanti novità. La prima è che la Bce acquisterà nel tempo crediti cartolarizzati di famiglie e imprese (anche del settore real estate) per 500 miliardi. Si libereranno così altrettante risorse che le banche potrebbero (ma lo faranno davvero?) reinvestire in nuovi crediti all’economia reale. La seconda novità è che la Germania come al solito ha tentato di impedire queste misure, ma la stragrande maggioranza dei banchieri centrali dei singoli paesi Ue questa volta ha messo Berlino in minoranza. Un esito che lascia sperare.

Non solo perché l’effetto delle misure di ieri ha fatto scendere il valore dell’euro rispetto al dollaro, aiutando così le imprese manifatturiere e l’export, ma anche perché lo spread ha continuato a scendere fino al suo livello più corretto (in Italia 138 punti il differenziale tra i nostri Btp e i Bund tedeschi) e si è aperto un qualche spiraglio per dare respiro a Stati ridotti alla fame. Il caso italiano qui è esemplare. Per la prima volta nella storia della Repubblica, dall’esercito alla polizia ai vigili del fuoco vogliono tutti scioperare. Hanno stipendi da fame. E davvero nessun torto.

Ma adesso tocca ai governi

Ma adesso tocca ai governi

Stefano Lepri – La Stampa

Ora dipende davvero da François Hollande e da Matteo Renzi se l’Europa si rimetterà in movimento. Non soltanto perché Italia e Francia hanno entrambe un gran bisogno di riformarsi per uscire dalle attuali difficoltà economiche: anche perché non c’è altro modo di rompere una altrettanto deleteria immobilità, quella della Germania. Mario Draghi con la sua mossa a sorpresa di ieri ha fatto tutto quello che poteva, nella situazione data. I mercati temevano che non fosse in grado di tradurre in atti le parole del suo discorso del 22 agosto in America; discorso che era parso al mondo (tranne che a molti tedeschi) innovativo e all’altezza della gravità della crisi. Invece ci è riuscito.

Ma proprio a Jackson Hole sulle Montagne Rocciose il presidente della Bce aveva anche detto chiaro e tondo che per far ripartire l’economia del nostro continente non bastano gli strumenti a sua disposizione. L’attuale circolo vizioso di inflazione troppo bassa e di ristagno produttivo, lo ha ripetuto anche ieri, richiede azioni di tipo nuovo da parte dei governi. Occorrono sia riforme incisive sia cambiamenti nelle politiche di bilancio. In Francia e in Italia sono prioritarie le prime; la Germania potrebbe procedere senza rischi a misure espansive dato che hai conti pubblici in ordine. Mentre a Roma e a Parigi si esita o si procede a fatica, dando a parole ragione a Draghi, Berlino per la parte propria resta del tutto ferma. Il suggerimento del capo della Bce è ora di discutere prima le riforme e poi una maggiore flessibilità delle politiche di bilancio per tutti i Paesi euro; logico da parte di un economista abituato ad analizzare come si formano le decisioni dei governi (senza buoni incentivi è facile sbagliare). Se si vuole, è anche politicamente astuto, perché in caso contrario – occorre essere realisti – non si andrebbe avanti.

La Bce non ha compiti politici, dunque è sbagliato raccontare le sue mosse con termini da cronaca politica, come si fa solo in Italia (Draghi ieri ha dovuto ovviamente smentire di aver proposto un «grande patto» ai governi). Tuttavia, far funzionare meglio l’economia europea è uno scopo comune per il quale bisogna interagire, ed è politico in senso alto. La Germania non vuole muoversi perché da un decennio il suo modello economico funziona meglio; le ha fatto finora attraversare la crisi con pochi danni, attorno ad esso si è consolidato un equilibrio politico interno. Dunque squadra che vince non si cambia. Ma è un brutto segno che da lì ora vengano molte reazioni scandalizzate alle novità di Draghi, scarse proposte alternative; insomma povertà di idee sul futuro.

Un ripensamento sta iniziando, a partire anche da esponenti di rilievo del mondo industriale e bancario tedesco: perché mai non investire di più in scuole e strade, perché mai non compiere passi avanti nella solidarietà europea. Incontra molte resistenze. Si bloccherà se continuerà a valere la scusa che in Francia e in Italia non cambia nulla.

Le decisioni di ieri adattano all’Europa, dove la finanza e centrata sulle banche, ricette sperimentate dalla Federal Reserve, dalla Banca d`Inghilterra, dalla Banca del Giappone. Uscite da un compromesso nel consiglio riunito al trentaseiesimo piano dell’Eurotower, paiono in Germania rischiose, a taluni eccessive; nel resto del mondo ci si chiede se saranno sufficienti. Ora le banche avranno molti più soldi da prestare, ai tassi di interesse più bassi della storia: basterà a convincere le imprese ad investire? Può darsi che la Bce si sia mossa tardi. In ogni caso non ce la farà da sola a stimolare la ripresa. È inevitabile seguire lo schema in due tempi proposto da Draghi. Occorre che i due tempi siano i più ravvicinati possibile.

La recessione ‘salva’ l’Italia, si allontana l’ipotesi della manovra

La recessione ‘salva’ l’Italia, si allontana l’ipotesi della manovra

Marco Zatterin – La Stampa

C’è la recessione, ma c’era anche di peggio. L’azienda Italia poteva produrre qualche magro decimo di punto di crescita e allora, salvo brusche correzioni di spesa e entrate, avrebbe corso il serissimo rischio di sentirsi chiedere altri «sforzi aggiuntivi» per realizzare gli impegni di bilancio presi coi partner europei. Invece no, il copione ora è un altro. Più fonti notano che due trimestri col Pil in rosso possono essere «fattori mitiganti» nella valutazione della contabilità nazionale e dunque che, qualora si arrivi agli esami autunnali senza le carte in regola, Bruxelles potrebbe fermarsi ai rimbrotti. Così, almeno per la competenza 2014, una manovra correttiva costretta dal rispetto degli eurovincoli potrebbe essere in buona sostanza scongiurata.

Sono sensazioni e non verdetti. Il dibattito sulle correzioni possibili a cui potrebbe essere costretto il governo Renzi ha animato l’estate, coi palazzi romani attenti a smentire l’esigenza di tagli improvvisi o tassazioni impopolari. La stessa Commissione non ha in questa fase un vero potere cogente, si limita a misurare la pressione e poi a dire la sua sulle condizioni di salute del paziente. Ci sono però dei percorsi su cui ci si è accordati nei palazzi a dodici stelle. Tradirli minaccia la credibilità e, allo stesso tempo, può comportare un costo secco se la sfiducia dei mercati si traduce in un più oneroso servizio del debito.

L’Italia corre sull’orlo del crepaccio. Da tempo. Bruxelles ha avuto parole di apprezzamento per il programma di riforme di Matteo Renzi e ne chiede una rapida attuazione. Roma punta molto sugli investimenti e la crescita, e sembra aver allentato sulla flessibilità, consapevole che l’ossigeno ottenibile da questa fonte è minore di quello che si potrà avere dal piano da 300 miliardi che la Commissione Ue ha promesso entro metà febbraio. Il problema è arrivarci senza inciampi. E il nodo centrale è il saldo di bilancio strutturale. La tabella originale prevedeva il raggiungimento del pareggio nel 2014. Roma ha chiesto il 2016, l’Ue le ha concesso il 2015. L’ultimo dato nazionale sul deficit strutturale (senza spesa per interessi e una tantum) è di 0,6% del Pil quest’anno che si scontra con lo 0,8 della stima ufficiale della Commissione (circa 3 miliardi di differenza secondo le previsioni di maggio). Il divario per l’anno prossimo è dello 0,5 (0,2 dicono i nostri; 0,7 afferma Bruxelles), cioè 7,5 miliardi, che salgono a 10 se vuole davvero il pareggio.

Ancora. Il Patto di Stabilità richiede un aggiustamento del debito in eccesso ad un passo di un ventesimo l’anno dal 2016, ma anche che per i paesi in fase di transizione perché usciti dalla procedura di deficit eccessivo (come l’Italia) vi sia un percorso cifra di rientro anche prima. Per il 2014, Bruxelles ha richiesto una correzione di 0,7 punti di Pil contro lo 0,1 promesso dall’Italia (cioè 9 miliardi); per il 2015 siamo a 1,4 contro lo 0,1 suggerito da Roma, son quasi 20 miliardi di divario. «Occhio che sono numeri diventati puramente indicativi», avverte una fonte Ue. Vero. Negli ultimi mesi è saltata ogni previsione, la crescita s’è rivelata più fiacca per tutti, per l’Italia soprattutto, ma anche per la Germania. I calcoli per il Bel Paese sono basati su una ripresina dell’0,6% nel 2014 e un’inflazione allo 0,9, dati di giugno, già irrealistici. Fra un mese ci saranno i nuovi e allora – si spera – maggiore sarà la chiarezza.

Il commissario per l’Economia Katainen (destinato a rimanere capo di fila anche con Juncker, pare) attende le leggi di bilancio il 15 ottobre. A dicembre il nuovo esecutivo avrà un quadro preciso di quanto avviene nelle capitali e di come va la congiuntura. Solo allora capiremo cosa l’Ue pensa dell’Italia, quali sono le distanze e i margini di dialogo. Pochi si aspettano che Roma abbia i conti compatibili con gli impegni. Se così fosse, la recessione potrebbe salvarci da azioni correttive per il deficit strutturale in vista dell’azzeramento, partita che si rigiocherebbe in primavera per il 2015. Se pure il terzo trimestre fosse pure negativo, sarebbe una pessima storia con un aspetto roseo. Ci regalerebbe «un fattore mitigante» utile a salvarci da manovre extra. Una ragione di sollievo parziale, forse. Ma che, dicono a Bruxelles, «non implica in alcun modo che si possa frenare sull’attuazione di riforme che non vanno ritardate se si vuole tornare a crescere e a creare occupazione».

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

Maximilian Cellino – Il Sole 24 Ore

Un nuovo taglio dei tassi, l’avvio di un piano di riacquisti di Abs o il tanto agognato quantitative easing in salsa europea. Il toto-Bce impazza fra operatori e analisti in vista dell’appuntamento di domani a Francoforte, con il concreto rischio che il mercato si sia forse spinto troppo in là con l’immaginazione nelle ultime settimane. Qualcosa di certo pero l’Eurotower lo ha già sulla rampa di lancio: il nuovo piano di finanziamenti a lungo termine finalizzato alla concessione di credito (T-Ltro), che prenderà il via con l’ormai prossima asta del 18 settembre e che avrà una seconda puntata a dicembre.

Da qui a fine anno sul piatto ci sono 400 miliardi, che le banche europee dovrebbero girare alle imprese e che potrebbero diventare anche mille, secondo quanto ipotizzato dallo stesso Mario Draghi, da qui al 2016 se il piano dovesse funzionare. Il punto in questione, in sostanza, è proprio questo: quanti fondi chiederanno gli istituti di credito? E soprattutto, riuscirà questo denaro a raggiungere materialmente le aziende in difficoltà per il credit crunch?

Sul primo aspetto, un recente studio di Barclays ha stimato in quasi 270 miliardi le richieste che potranno pervenire nelle prime due operazioni T-Ltro, con una preferenza per l’appuntamento di dicembre in modo da gestire in modo migliore la concomitante scadenza delle Ltro varate ormai anni fa: una cifra questa che riscuote consenso anche fra le altre banche d’affari, così come l’ipotesi che a farsi avanti siano soprattutto gli istituti della «periferia» europea, italiani e spagnoli in testa.

Obiettivamente più complicato è capire se effettivamente questa liquidità (che poi è nuova soltanto in parte, perche va a rimpiazzare raccolta già esistente, Ltro in primis) prenderà la strada dell’economia reale e servirà davvero ad aiutare migliaia di piccole imprese in affanno. Qui i dubbi sono più che legittimi, se si pensa all’utilizzo che è stato fatto degli oltre mille miliardi ottenuti attraverso le più volte citate Ltro e anche ai risultati (scarsi per ora) raggiunti dal «funding for lending» della Banca d’Inghilterra, il piano che più si avvicina ai finanziamenti vincolati che la Bce si prepara a erogare.

Alcuni sondaggi condotti nelle ultime settimane da Morgan Stanley mostra che un certo scetticismo aleggia anche fra le banche stesse, e non soltanto per la debolezza della domanda di prestiti (che spiegherebbe, secondo gli analisti, per 2/3 la contrazione del credito). C’è infatti il pericolo che quel denaro sia riutilizzato essenzialmente per rifinanziare aziende con il merito di credito più elevato (tipicamente, le più grandi) ignorando invece le Pmi che poi sono il vero obiettivo del piano.

La stessa Morgan Stanley si spinge però a stimare una possibile riduzione del costo del finanziamento per una piccola o media impresa spagnola compreso fra 30 e 80 punti base (cioè 30-80 centesimi), mentre in Italia l’impatto sarebbe più limitato (20-40 centesimi) perché la redditività inferiore delle banche di casa nostra tenderebbe di fatto a limitare il trasferimento dei benefici alla clientela. L’intervento Bce andrebbe in sostanza nella direzione giusta, servirebbe cioè a ridurre la frammentazione esistente sui mercati del credito nell’Eurozona. Non riuscirebbe tuttavia a colmare il divario esistente. Perché se è vero che in base ai dati pubblicati dalle Banche nazionali un’azienda italiana ha ottenuto a giugno un nuovo finanziamento a un tasso medio del 3,09% e una spagnola al 3,48%, è innegabile che le francesi e le tedesche paghino ancora molto meno (rispettivamente il 1,23% e 11,93%). E per i prestiti di importo inferiore al milione (3,96%) e quelli sotto i 250mila euro (4,54%), sicuramente più indicativi per le Pmi, il solco è addirittura più netto.

Per le aziende italiane qualche risparmio però ci sarebbe: ipotizzando una dinamica dei prestiti simile a quella recente (dal luglio 2013 al giugno 2014 in Italia sono stati erogati nuovi finanziamenti per quasi 385 miliardi) le T-Ltro targate Bce potrebbero comportare una minor spesa complessiva in termini di interessi compresa fra 770 milioni e 1,54 miliardi di euro. Benefici che sarebbero ovviamente più limitati sul complesso dei prestiti inferiore al milione di euro (477 milioni) e ai 250mila euro (264 milioni): non sarà forse la panacea che molti si auguravano dalle T-Ltro, ma si tratta pur sempre di un passo avanti.

La sveglia di Draghi per la politica

La sveglia di Draghi per la politica

Jean Pisani Ferry – Il Sole 24 Ore

I banchieri centrali vanno spesso fieri di essere noiosi. A eccezione di Mario Draghi. Due anni fa, a luglio 2012, il presidente della Banca centrale europea colse tutti di sorpresa annunciando che avrebbe fatto «whatever it takes», ovvero qualsiasi cosa, per salvare l’euro. L’impatto fu grande. In questi giorni Mario Draghi ha approfittato del simposio annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole, nel Wyoming, per lanciare un’altra bomba. Il suo discorso stavolta è stato più analitico, ma non meno ardito.

1) Il governatore della Bce ha preso posizione nel dibattito in corso sulla risposta politica più adeguata per far fronte all’attuale stagnazione dell’eurozona. Draghi ha sottolineato che, oltre alle riforme strutturali, bisogna sostenere la domanda aggregata e che il rischio di fare «troppo poco», supera quello di fare «troppo».
2) Draghi ha confermato che la Banca centrale europea è pronta a fare la sua parte per stimolare la domanda aggregata e ha parlato del quantitative easing, la politica di acquisto di bond, come strumento necessario in un contesto in cui le aspettative inflazionistiche sono scese sotto l’obiettivo ufficiale del 2 per cento.
3) Suscitando la sorpresa dei più, Draghi ha aggiunto che c’è spazio per una posizione fiscale più espansionistica nell’eurozona in generale. Per la prima volta, il governatore ha affermato che l’eurozona ha sofferto per l’insufficienza e l’inefficacia delle politiche fiscali di Usa, Regno Unito e Giappone attribuendolo non agli elevati deficit pubblici preesistenti, ma al fatto che la Bce non potesse fare da cuscinetto finanziario ai governi e risparmiare alle autorità fiscali la perdita della fiducia del mercato. Inoltre, ha auspicato un dibattito fra i membri dell’euro su una politica fiscale unitaria dell’eurozona.

Draghi ha infranto tre tabù in un colpo solo: 1) Ha fondato il suo ragionamento sul concetto eterodosso di un mix politico che combina misure monetarie e misure fiscali. 2) Ha parlato esplicitamente di una politica fiscale comune quando l’Europa ha sempre ragionato solo su base nazionale. 3) La sua affermazione secondo la quale impedire alla Bce di agire come prestatore di ultima istanza comporta uno scotto elevato – rendendo vulnerabili i governi e riducendo il loro spazio fiscale – contraddice il principio secondo il quale la Banca centrale non deve sostenere il prestito ai governi.

Il fatto che Draghi abbia scelto di sfidare l’ortodossia, in un momento in cui la Bce ha bisogno di sostegno per le proprie iniziative, fa capire quanto sia preoccupato per la situazione economica dell’eurozona. Il suo messaggio è che il sistema politico, così come funziona attualmente, non è adatto alle sfide che si prospettano all’Europa, e che sono necessari ulteriori cambiamenti politici e istituzionali. Ora resta da vedere se – ed eventualmente come – questo coraggio a parole si tradurrà in un’azione politica. Ci sono sempre meno dubbi sui benefici del quantitative easing da parte della Bce, quella misura che è stata a lungo considerata come troppo “non convenzionale” per essere contemplata, ha gradualmente guadagnato consensi. A livello operativo sarà difficile da attuare perché la Bce, a differenza della Federal Reserve, non può contare su un mercato obbligazionario unificato e liquido, e la sua efficacia resta incerta. Ma con buona probabilità si farà.

Al tempo stesso ci sono pochi dubbi sul fatto che la politica fiscale non soddisferà le aspettative di Draghi. In Europa manca una visione comune su una politica fiscale e il cuscinetto che la Bce potrebbe offrire agli Stati sovrani può essere concesso solo ai Paesi che s’impegnano ad adottare una serie di politiche negoziate. Persino questo sostegno condizionato nel quadro del programma di Outright monetary transactions (Omt) della Bce è stato osteggiato dalla Bundesbank e dalla Corte costituzionale tedesche. L’iniziativa di Draghi su questo fronte andrebbe così interpretata non solo come un’esortazione a passare all’azione, ma anche e forse ancora di più, come un’esortazione a riflettere sull’approccio futuro della politica europea. La questione è la seguente: come può l’eurozona definire e attuare una politica fiscale comune senza avere una politica di bilancio comune?

L’esperienza internazionale mostra che il coordinamento volontario serve a poco. Quanto è accaduto nel 2009 è stata una rara eccezione; crolli come quello seguito alla bancarotta di Lehman Brothers – così improvvisi, nefasti e fortemente simmetrici – si verificano una volta in decine e decine di anni. All’epoca, tutti i Paesi si sono trovati praticamente nella stessa situazione e tutti hanno condiviso la stessa preoccupazione che l’economia globale potesse scivolare in una depressione. Oggi il problema dell’Europa, per quanto serio, è diverso: un significativo sottogruppo di Paesi non ha uno spazio fiscale in cui muoversi e non sarebbe così in grado di sostenere la domanda. E, anche se la Germania sta andando molto meglio di tutti ed è dotata di uno spazio fiscale, non intende usarlo a beneficio dei suoi vicini di casa. Se deve essere intrapresa un’azione fiscale congiunta, occorre mettere in atto un meccanismo specifico per farla partire. Si potrebbe pensare a una procedura decisionale congiunta che, in alcune condizioni, prevedesse l’approvazione del Parlamento nazionale e di una maggioranza di Paesi membri (o dal Parlamento europeo) per le normative sul bilancio.

Oppure si potrebbe pensare a un meccanismo ispirato ai permessi di deficit negoziabili immaginati da Alessandra Casella della Columbia University: ai Paesi verrebbe concesso un permesso sul debito, ma sarebbero liberi di negoziarlo. Un Paese che mira a registrare un deficit minore potrebbe così decidere di cedere il suo permesso a un altro che intende registrarne uno più elevato. In questo modo sarebbe raggiunta la soglia comune prevista pur venendo incontro alle preferenze nazionali. Qualsiasi meccanismo del genere pone una serie di domande, ma il fatto che sia l’autorità responsabile dell’euro a sollevare la questione fa capire come l’architettura della moneta comune sia ancora in divenire. Pochi mesi orsono, erano tutti d’accordo sul fatto che fosse ormai superato il momento di ripensare l’euro e che l’eurozona avrebbe dovuto convivere con l’architettura ereditata dalle riforme attuate con la crisi. Ora non è più così. Potrebbe volerci del tempo prima di raggiungere un accordo e prendere delle decisioni, ma il dibattito riprenderà. E questa è una buona notizia.

I dilemmi Bce e i rischi di inerzia europea

I dilemmi Bce e i rischi di inerzia europea

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Fino a che le riforme saranno vissute come un suicidio politico dai governi che ancora non le hanno fatte (Francia e Italia) e il rilancio della crescita economica europea sarà sentito come un vero e proprio “harakiri” dai governi che la crescita, poca, ancora ce l’hanno (Germania e nordici), l’eurozona non cesserà di ballare ai bordi di un vulcano a costante rischio di eruzione.

Non è un caso che subito dopo un vertice Ue, che sabato a Bruxelles ha rafforzato il controllo tedesco sui principali gangli istituzionali europei, e alla vigilia della riunione della Bce giovedì a Francoforte siano riesplose le polemiche tra i due fronti contrapposti. Al centro anche Mario Draghi e la sua giacca, strattonata con malagrazia da entrambi.

Sullo sfondo l’economia reale, in bilico tra recessione e deflazione, moltiplica i segnali negativi: ieri il turno della produzione manifatturiera, ai minimi da 13 mesi e a ritroso in Germania, Francia e Italia, cioè nei due terzi dell’Eurozona. Come nell’estate del 2012 aveva evitato l’implosione dell’euro annunciando che la Bce avrebbe preso «tutte le misure necessarie» per impedirla, così quest’estate Draghi ha lanciato un doppio messaggio per battere la duplice emergenza europea: il ricorso da un lato a tutti i mezzi, quantitative easing incluso se necessario, per fermare la deflazione e dall’altro, «visto che la politica monetaria da sola non può rilanciare l’economia», l’invito ai Governi a fare le riforme creando spazi per una politica fiscale più morbida.

Come nel 2012 i mercati hanno accolto bene il segnale. I Governi no. E per ragioni opposte. La Germania teme una svolta americana nella politica della Bce, il ripudio dell’ortodossia dei Trattati. «I paesi che hanno seguito politiche di rigore, in cambio degli aiuti al loro salvataggio, stanno facendo molto meglio di tutti altri in Europa: a volte le medicine sono amare ma fanno bene. La crescita carburata dai deficit, invece, porta al declino economico» ha tuonato il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. Richiamo diretto a Parigi, Roma e… Francoforte.

Sul fronte opposto della barricata, invece, l’Italia di Matteo Renzi, presidente di turno dell’Ue, ha convocato per il 7 ottobre un vertice europeo straordinario su crescita e occupazione mentre la Francia di François Hollande insiste ad alta voce sulla flessibilità delle regole di stabilità in tempi di crisi e invoca una maggiore spinta alla crescita da parte della Bce, compreso un ritocco al ribasso del valore dell’euro rispetto al dollaro.

Con la sua visita ieri a Parigi, Draghi ha provato a ricucire con tutti sottolineando, insieme a Hollande, che gli strumenti per il rilancio della sviluppo «dovranno sempre rispettare i patti europei». Parole ovvie, prevedibili e scontate. Termometro evidente però delle crescenti tensioni che bollono nell’Eurozona. E che potrebbero indurre la Bce a una maggiore cautela rispetto agli annunci di agosto e alle aspettative dei mercati, con possibili effetti boomerang sui tassi e sui costi di finanziamento dei debiti sovrani.

Nessuno nega l’urgenza delle riforme strutturali che in Paesi come l’Italia e la Francia oggi appaiono prioritarie rispetto al ripianamento di debiti e deficit: non solo per rimettere in moto una crescita solida e sostenibile ma per evitare che eccessive divergenze nell’Eurozona provochino lo strabismo della politica monetaria unica, alla lunga insostenibile.

Nessuno però può ignorare le difficoltà politiche della sterzata: a Sud come a Nord. Con la popolarità al 17%, più di tanto Hollande non può remare contro il Paese, soprattutto non può farlo in fretta. Con Alternativa per la Germania, il partito nazionalista e anti-euro che ha ottenuto il 10% dei voti in Sassonia entrando per la prima volta in un parlamento regionale, nemmeno Angela Merkel ha larghi margini di manovra per solidarizzare sulla crescita europea, anche se il riequilibrio del super-attivo dei conti correnti sarebbe un atto dovuto secondo i patti europei. Il cui rispetto vale per tutti.

La politica del surplace, l’ortodossia immobilista, la mancanza di coraggio politico oggi avrebbero effetti disastrosi per tutti. La lezione greca dice che una crisi marginale, 2% del Pil dell’euro e 3% del debito, si è trasformata in crisi totale per la rigidità mentale e la miopia di chi in Europa l’ha gestita. L’emergenza crescita, da anni relegata in frigorifero, non può attendere oltre. Per dare risultati le riforme richiedono anni. Un’inerzia prolungata su azioni di sostegno finirebbe per travolgere l’Europa proprio quando ha un disperato bisogno di unità e coesione di fronte alla Russia di Putin che la sbeffeggia.

Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Renato Brunetta  – Il Giornale

Dopo la riunione del Consiglio europeo di sabato, che ha in parte definito l’assetto della Commissione europea a guida Juncker, e dopo il pre-vertice all’Eliseo del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il presidente francese, Francois Hollande, sempre sabato, il prossimo appuntamento in cui i capi di Stato e di governo dell’Unione europea si troveranno a parlare di economia e di crescita sarà quello del 7 ottobre a Milano. Il governo italiano, cui spetta la presidenza di turno dell’Ue, oltre ad avere l’onore dell’ospitalità ha il dovere della verità e della

trasparenza, e in apertura di sessione dovrà fornire ai leader dei partner europei una ricostruzione sintetica, ma di grande chiarezza storico-scientifica, dell’origine della crisi che dall’estate-autunno 2011 ha travolto i paesi dell’eurozona. Come base da cui partire per le scelte da fare, avendo compreso la natura speculativa dell’ultima crisi, dovuta soprattutto alla mancanza di strumenti della Banca centrale europea, bloccata per Statuto ai Quantitative easing all’americana, nonché all’architettura asimmetrica dell’euro, incapace di risolvere gli squilibri strutturali che il suo stesso successo ha prodotto.

Senza un’analisi seria e approfondita che, a oggi, non è mai stata fatta, i governi, sull’onda degli eventi e delle emergenze, hanno sempre finito per adottare come risposta agli attacchi speculativi, in particolare tra il 2011 e il 2013, la ricetta tedesca del sangue, sudore e lacrime; in maniera acritica, senza mai valutare ipotesi alternative, come potevano essere i provvedimenti presi, in circostanze simili, in America o in Giappone. Risultato: recessione, deflazione, allargamento del divario tra paesi del nord (odiose formiche) e paesi del sud (irresponsabili cicale).

Secondo punto dell’operazione verità che il governo dovrà compiere in preparazione del vertice di ottobre: chiarezza sul ruolo della Banca centrale europea e sui limiti della politica monetaria. Nella banalità teutonica della Commissione europea negli anni della crisi, unico spiraglio di luce ha rappresentato l’assunzione, da parte di Mario Draghi, della presidenza della Bce, che fino ad agosto 2011 era apparsa del tutto impreparata alla crisi, brancolava nel buio e non aveva alcun piano che potesse porre un freno agli attacchi speculativi che i debiti sovrani dei paesi dell’eurozona stavano subendo. Inadeguatezza nella fase iniziale della crisi e impotenza della banca centrale che traspare dalla lettera che proprio ad agosto 2011 la Bce ha inviato all’Italia. Lettera dai contenuti senz’altro giusti, ma irrituale. Sicuramente non uno strumento di politica monetaria.

Solo dopo il parziale fallimento delle due aste di finanziamento agevolato a breve termine alle banche dell’eurozona, a dicembre 2011 e a febbraio 2012, per 1.000 miliardi (di cui da settembre dovrebbe partire una seconda edizione, opportunamente e inevitabilmente riveduta e corretta) e in risposta al susseguirsi di ondate speculative che a luglio 2012 interessavano in particolare la Grecia, con l’impegno a “fare di tutto per salvare l’euro” e il conseguente annuncio di un articolato piano di acquisto di titoli di Stato, la Bce ha finalmente avuto cognizione del proprio ruolo e ha cominciato a esercitarlo nel migliore dei modi. Debellando, in parte, la speculazione finanziaria che stava travolgendo l’Europa, fino a far temere l’implosione della moneta unica. È così che abbiamo tutti apprezzato le misure non convenzionali di politica monetaria adottate da Mario Draghi, ed è, parimenti, a questo punto che ci siamo resi conto che la politica monetaria da sola non basta a risolvere i problemi dell’eurozona. Anche i governi devono fare la propria parte, perché è attraverso la buona politica economica che la politica monetaria si trasmette all’economia reale. E le riforme strutturali che, ripetiamo, creano le condizioni per la buona riuscita delle decisioni di politica monetaria, devono essere simultanee e coordinate in tutti i paesi dell’area euro (ognuno secondo le proprie specificità e necessità), per far sì che ciascuno di essi possa beneficiare degli effetti positivi delle riforme messe in atto dai paesi limitrofi. Motivo per cui Mario Draghi, con l’onestà intellettuale che lo caratterizza, ha auspicato la creazione di una “governance europea delle riforme”.

Riforme strutturali sincroniche, da realizzare attraverso lo strumento dei Contractual arrangements, già in discussione presso la Commissione europea e per la definizione puntuale dei quali sarà decisiva proprio la riunione del Consiglio europeo di ottobre, come ha ricordato più volte l’ex ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero Milanesi, che aveva avviato questo percorso nell’ambito del suo mandato di governo con gli esecutivi Monti e Letta. È così che si utilizzerà veramente quella flessibilità tanto agognata e sbandierata, ma in realtà già prevista dai Trattati. Si definisca secondo le specificità del singolo Paese l’incentivo da riconoscere, di natura finanziaria o non finanziaria, a chi attua le riforme strutturali, anche per scongiurare comportamenti opportunistici post-contrattuali (il famoso “azzardo morale”). Potremmo definirlo, pertanto: il piano Draghi-Moavero. E soprattutto l’Italia, nel semestre di presidenza dell’Unione, proponga questo modello a tutti gli Stati, per coordinare il processo riformatore nell’intera area dell’euro. Su questo punto anche il ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, si è detto favorevole in numerose dichiarazioni pubbliche.

Presidente Renzi, inutile perdere tempo con noiose disquisizioni giuridiche sulla modifica dei Trattati, che richiede un processo troppo lungo e troppo costoso dal punto di vista politico. Non se ne caverà nulla di buono. Dopo l’analisi, che abbiamo auspicato in precedenza, sulle cause della crisi, fatti portatore in Europa di un’operazione non di modifica, bensì di interpretazione dei Trattati e dei regolamenti, nell’ambito della flessibilità che essi già implicano. Con i contenuti scritti nella risoluzione presentata da Forza Italia prima del Consiglio europeo dello scorso 28 giugno, che tu hai bocciato, ma che probabilmente non hai neanche letto. Soprattutto, parla chiaro alla testa e al cuore degli europei. Fa’ vedere loro una via d’uscita. Regala loro una visione strategica di lungo periodo. Cose possibili, fattibili, concrete, e non astratti ragionamenti, esoterici, su astrusi parametri: deficit strutturale, deficit nominale, avanzi, disavanzi, rinvii, che la gente non comprende.

E al piano Draghi-Moavero, esposto sopra, va in contemporanea aggiunta la novità proposta, sia pure nel silenzio di tutti, dal nuovo presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, vale a dire investimenti comunitari per 300 miliardi di euro. Presidente Renzi, riempiamo di contenuti, insieme, il piano Juncker, e presentiamo la nostra proposta ai partner europei che sotto la presidenza di turno italiana si riuniranno a ottobre a Milano. Mettiamo insieme da subito, contemporaneamente e con l’appoggio di tutti i paesi, la linea Draghi e la proposta Juncker. Chiamiamolo piano Draghi-Juncker, o New deal, purché riesca a combinare le riforme sincroniche nei singoli Stati, per consentire la trasmissione della politica monetaria, da un lato e gli investimenti dall’altro. Con riferimento a questi ultimi, facciamo qui qualche esempio di misure concrete, per una maggiore integrazione del mercato interno (in particolare nel settore dei servizi); per migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; per costruire nuove infrastrutture; per migliorare i piani di approvvigionamento energetico; per dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. Chi ha una rete ha un tesoro. Come le reti infrastrutturali sono state i catalizzatori della nascita degli Stati nazionali nell’800, così le reti europee dovranno essere i catalizzatori della nuova Europa.

Con quali risorse fare tutto ciò? Attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei), per finanziare investimenti in infrastrutture, in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. La capacità di intervento della Bei verrebbe potenziata attraverso l’istituzione di un Fondo di garanzia ad hoc, la cui capitalizzazione sarebbe a carico dei singoli paesi secondo diverse formule, con un punto fisso: i fondi trasferiti dagli Stati membri alla Bei non rientrano nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil. In alternativa, il Fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Questo pacchetto non comporta modifiche ai Trattati, mentre consente di utilizzare, rispettando le regole, la flessibilità già prevista. E soprattutto parla chiaro al popolo europeo, per uscire dalla crisi, dalla recessione, dalla deflazione, dalla disoccupazione. Riforme e reti europee, quindi, per una nuova idea di Europa, oltre l’egoismo tedesco. New deal, contro e dopo la grande depressione europea, come messaggio di pace e di coesione geopolitica. Crescita e sviluppo, come esito finale. Per dirla con Marchionne: non possiamo più sopportare gente con barchette e gelati.

Una commedia degli equivoci

Una commedia degli equivoci

Danilo Taino – Corriere della Sera

Certe volte, sempre più spesso, l’Europa è il palcoscenico di una commedia degli equivoci. Di fronte alla disoccupazione alta, alla stagnazione dell’economia, al pericolo della deflazione, gli equivoci non dovrebbero però essere ammessi: l’eurozona è tornata a vivere una stagione di crisi e le ambiguità politiche e interpretative la rendono drammatica. 

La telefonata di ieri di Angela Merkel a Mario Draghi andrebbe catalogata tra gli scambi di valutazioni tra leader di fronte all’emergenza – non diversamente dall’incontro in Umbria di Matteo Renzi con il presidente della Bce una decina di giorni fa. La famosa frase di Draghi che bloccò la crisi del 2012 – la Banca centrale avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per evitare la rottura dell‘euro – fu, per dire, preceduta da una conversazione tra il presidente della Bce e la cancelliera tedesca. Invece, oggi, si tende a verdere ovunque scontro e divisione. Non dovrebbe essere così. 

La gravità della situazione nell’area euro – l’unica al mondo che non riesce a togliersi di dosso i postumi della crisi e sembra immobilizzata –  è chiara a tutti. E i governi sanno che vanno messe in opera tutte le azioni – riforme, politiche di bilancio, politiche monetarie – capaci di scuotere la situazione, di dare una svolta. Significa che i governi nazionali devono fare quelle riforme finalizzate a rendere efficienti le economie: erano il presupposto della creazione della moneta unica europea, 15 anni fa, e molti Paesi non le hanno fatte. Significa che spese produttive e riduzioni del peso fiscale vanno messe in campo per stimolare le economie. Significa che la Banca centrale europea deve fare tutto ciò che può per evitare la spirale della deflazione e per favorire il credito all’economia. Il fatto è che tutto è chiaro, non ci sono misteri. Ma ci sono gli equivoci. 

Al seminario dei banchieri centrali di fine agosto a Jackson Hole, Wyoming, Draghi ha sostenuto che «nessuna quantità di aggiustamenti fiscali o monetari può sostituire la necessità di riforme strutturali: la disoccupazione strutturale era già molto alta nella zona euro prima della crisi». Senza riforme strutturali, più spesa pubblica e una politica monetaria espansiva semplicemente non funzionano, perché si perdono nelle sabbie di economie inefficienti. Qualche media internazionale ha invece dato una lettura del discorso di Draghi a Jackson Hole come un ripudio delle politiche seguite finora dall’eurozona, volute soprattutto dalla Germania. Commentatori e mercati sono entrati in confusione e, probabilmente, così qualche governante. In realtà, la posizione di Draghi – nota non da ora – è che si tratta di fare riforme che mettano i Paesi in grado di beneficiare di ogni azione espansiva possibile, di spesa o monetaria che sia. Non c’è equivoco, se non lo si crea.