il sole 24 ore

La vera riforma dell’articolo 18

La vera riforma dell’articolo 18

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari. Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.

È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali. Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

Infatti nella via di un’impresa sono rari i casi in cui per sopravvivere deve licenziare, delocalizzare, oppure ridurre l’occupazione (fini per cui tra l’altro si possono attivare già altri strumenti). Rari i casi di disoccupazione tecnologica: già Sismondi, due secoli fa, ironizzava con chi teme que le roi, demeuré tout seul dans l’ile, en tournant constamment une manivelle, fasse accomplir, par des automates, tout l’ouvrage de l’Angleterre. Rari sono anche i casi opposti, in cui l’azienda aumenta gli organici perché è riuscita a invadere nuovi mercati, oppure perché ha sbaragliato la concorrenza con un’innovazione. La gran parte delle aziende, per la massima parte della loro vita, procede per variazioni incrementali, una nuova filiale di vendita, una macchina più veloce, un’organizzazione del lavoro più efficiente: la metodica, incessante, noiosa ricerca di fare le cose in modo più produttivo. Rare sono le inaugurazioni di nuovi capannoni, rare per fortuna le chiusure, la normalità è migliorare marginalmente ogni fase di ogni attività: e questo significa anche trovare persone marginalmente più capaci di svolgerle.

Fare squadra non è soltanto la qualità mitizzata di leader mitizzati, lo fanno tutte le cellule delle organizzazioni: e nessun allenatore riesce a fare squadra se la sola soluzione di cui dispone è allungare la panchina. Per questo, i miglioramenti marginali di efficienza sono «giustificato motivo economico» per licenziamenti individuali: se anche ci fosse ricorso al giudice e questo ordinasse il reintegro, l’azienda deve potere optare per l’indennizzo. È vero, l’azienda è, per storica definizione, luogo dello scontro di classe; è anche, per umane ragioni, luogo di abrasioni caratteriali: dietro il licenziamento disciplinare ci può essere una meschina ripicca, una stupida vendetta. Ma la fabbrica è anche il luogo in cui ognuno è nodo di un reticolo complesso di relazioni, verticali e orizzontali, anche i rapporti gerarchici sono trasformati dalla generale disintermediazione: sarebbe proprio stupido rischiare di danneggiare un ambiente sociale con una palese ingiustizia.

Recuperare produttività è il cuore del problema italiano. Molto dipende dai servizi erogati dallo Stato, quindi dal funzionamento dello Stato stesso, molto dalla produttività delle singole aziende. Per le poche che sono leader mondiali nei loro settori, per le tante che cercano di tenere il mare, l’aumento della produttività è un processo incrementale, che si basa sulla continua ottimizzazione delle funzioni e sulla selezione di chi meglio le sa svolgere. La produttività dell’Italia ristagna da 15-20 anni, rispetto ad aumenti molto più congrui dei paesi concorrenti: eppure il governo sembra voler lasciare a questo proposito le cose come stanno, non far nulla per facilitare questo processo di miglioramento interno.

Le nuove norme, e quindi anche il considerare «giustificato motivo economico» i miglioramenti marginali di efficienza, non si applicheranno a chi oggi ha un contratto a tempo indeterminato. E nella nostra cultura giuslavoristica rimarrà per anni il principio della job property, che la riforma avrebbe dovuto sradicare. Se per i casi di licenziamento disciplinare non si desse all’azienda la possibilità di procedere per l’indennizzo in luogo del reintegro, e se questa comunque non valesse per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato fino alla loro pensione, ci sarebbe veramente da interrogarsi sul perché di tanta contestazione a una legge che estende diritti a molti (dipendenti di aziende con meno di 15 persone, lavoratori non a tempo indeterminato, contratto di reinserimento per tutti) e non ne leva a nessuno. Verrebbe da dire che questa è stata una finta battaglia, ingaggiata soltanto per poter dire di averla vinta.

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Quasi certamente il terzo vertice europeo sul lavoro, che si terrà domani a Milano, non sarà diverso da quelli di Berlino e Parigi che l’hanno preceduto. Parole, impegni vaghi e poi silenzio più o meno pneumatico. Liturgie pubblicitarie utili a chi le celebra: che sia Matteo Renzi, Angela Merkel o François Hollande poco cambia e cambierà per i 26 milioni di disoccupati europei, giovani e non. La soluzione dei loro problemi, infatti, per ora non potrà che essere nazionale e solo in misura marginale targata Ue: anche perché le risorse del bilancio comunitario sono scarse e sempre più insufficienti a coprire il divario tra presunte politiche comuni e risorse disponibili.

Per questo il vero vertice di Milano si giocherà sull’ennesimo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della crescita, tra Germania e nordici da una parte, Francia e Italia dall’altra. La tensione della vigilia è altissima: la Merkel richiama all’ordine i renitenti ai sacrifici, Hollande le risponde picche sull’impegno a portare dal 4,3% attuale al 3% il deficit nel 2015 ma per questo rischia di vedersi bocciata a Bruxelles la legge di bilancio. E Renzi denuncia la vetustà delle regole vigenti pur affermando che non intende violarle, anche se a sua volta difficilmente riuscirà a far fronte alla tabella di marcia europea su conti pubblici e riforme strutturali.

Il tutto mentre si fa sempre più pressante e preoccupato l’allarme della Bce di Mario Draghi sulla crescita europea sempre più fragile e la deflazione che non passa. I dati congiunturali continuano purtroppo a dargli ragione. Ieri il turno degli ordini tedeschi all’industria, crollati in agosto del 5,7% su base mensile, il peggior scivolone dal 2009, con punte del 9,9% fuori dall’Eurozona e una caduta del 2% in Germania. Naturalmente le crisi russo-ucraina e mediorientale hanno dato il loro contributo negativo ma è soprattutto la debolezza dei partner euro a frenare la locomotiva tedesca. Se il buon senso prevalesse sulle profonde diffidenze reciproche e se tutti i protagonisti della partita facessero seriamente la loro parte, la soluzione dei malanni europei sarebbe possibile e anche a portata di mano.

Con un surplus dei conti correnti che supera ampiamente il tetto del 6% massimo previsto dalle regole Ue, Berlino oggi dispone dei margini finanziari per aumentare la spesa e rilanciare la domanda interna ed europea ma non intende usarli: ufficialmente perché conta di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015, nella realtà perché convinta che, allentando la pressione sui Paesi recalcitranti, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato, inducendoli a fare ancora meno del poco o niente che oggi sono disposti a fare. Malfidenza eccessiva e ingiustificata? È difficile considerare Francia e Italia dei campioni di affidabilità: troppe promesse non mantenute, troppi immobilismi e competitività perduta, troppe divergenze economiche accumulate in un’unione monetaria che non può permettersene più di tanto se non vuole diventare ingovernabile.

Detto questo nessuno oggi, nemmeno la nuova Commissione Juncker che si insedierà il 1° novembre, sembra in grado di aiutare a uscire dal pericoloso impasse nel quale l’Eurozona senza crescita rischia di affondare. Ad ascoltare la pantomima delle audizioni parlamentari dei commissari che si susseguono in questi giorni, più che la generale consapevolezza della grande emergenza economico-sociale da affrontare e risolvere al più presto, si percepisce il solito gioco degli equivoci, degli equilibrismi impossibili, delle ambiguità europee senza fine. Non si capirebbe altrimenti come mai Pierre Moscovici, il socialista francese che fino a poco tempo fa prometteva di impugnare le bandiere della crescita e dell’occupazione a nome di tutta la sinistra europea, tenti ora di accreditarsi come il convinto paladino del rigore e delle regole Ue, come se da ministro delle Finanze non fosse stato proprio lui a ignorarli a ripetizione, con i noti risultati. Né si capirebbe Valdis Dombrovskis, il vice-presidente e falco collaudato che comunque ne controllerà da vicino le mosse, il quale sia pure con gran fatica prova a “colombeggiare” chiosando sulla futura dimensione sociale dell’Europa pur ripetendo che la crescita sarà il prodotto delle riforme e che comunque «nessuna legge impedisce agli Stati membri di uscire dall’euro». Cosa attendersi del resto dal premier lettone che ha portato il suo Paese nella moneta unica tagliando il Pil del 20% in 3 anni, i salari pubblici della stessa percentuale e le pensioni del 10%? Non si capirebbe nemmeno come mai il presidente Jean-Claude Juncker abbia promesso in luglio un piano europeo per la crescita da 300 miliardi che però, a quanto pare, punterà su capitali privati, niente fondi nazionali freschi e risorse “riciclate” tra quelle già allocate al bilancio Ue?

Le smentite a questi dubbi e confusioni di intenti naturalmente saranno più che benvenute, se ci saranno come si spera. L’Europa non può permettersi di ignorare ancora a lungo i suoi problemi. L’impatto con la realtà, troppo a lungo snobbata e travisata, potrebbe infatti riservarle, prima o poi, pessime sorprese.

Politiche attive, rilancio urgente

Politiche attive, rilancio urgente

Michele Tiraboschi – Il Sole 24 Ore

Superare la vecchia idea del posto fisso e l’articolo 18. È questo il progetto di Matteo Renzi e del Jobs Act per portare l’Italia nella modernità. Operazione certamente possibile. A condizione, tuttavia, di garantire a chi perde un lavoro un’efficiente rete di servizi al lavoro e adeguati programmi di riqualificazione professionale. Solo così si potrà realizzare il più volte annunciato passaggio da un sistema passivo di welfare, ormai alle corde, alle politiche attive e di ricollocazione del celebrato modello nordico.

Di politiche attive, invero, si parla da almeno vent’anni, a partire dalla legge Treu e, a seguire, dalla legge Biagi. Ma nulla è stato fatto. Anzi, la situazione si è non poco complicata con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha contribuito a una profonda frammentazione delle politiche del lavoro oggi gestite, con differenziali di efficienza preoccupanti quanto evidenti, su scala regionale. Si spiega così una delle novità più importanti contenuta nel progetto di Jobs Act: l’istituzione di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, alla quale si intendono attribuite competenze gestionali in materia di servizi al lavoro, politiche attive e indennità di disoccupazione. Alle Regioni verrebbe garantito il mantenimento della definizione delle politiche attive del lavoro e anche un loro coinvolgimento nella costituzione dell’Agenzia nazionale. Quanto all’indennità di disoccupazione, poiché è una competenza dell’Inps, si prevede il raccordo tra l’Agenzia nazionale e l’Istituto, sia a livello centrale che a livello territoriale.

Pur con le difficoltà di coordinamento con i vari enti competenti di servizi e funzioni che essa dovrebbe gestire, ci si attende che l’Agenzia possa realizzare diversi obiettivi. Innanzitutto, superare la sostanziale mancanza di indirizzo e coordinamento a livello nazionale delle politiche attive e dei servizi per il lavoro dell’attuale regime. Inoltre, si spera che possa finalmente realizzare un più efficace raccordo tra politiche attive e passive e una vera condizionalità dei sussidi con un’effettiva attivazione dei lavoratori disoccupati, in particolare percettori di indennità di disoccupazione, pena la perdita del sostegno al reddito.

La realizzazione di tale obiettivo di collegamento di misure di sostegno al reddito e misure volte al reinserimento del disoccupato nel mercato del lavoro è attuata anche attraverso la grande novità degli accordi di ricollocazione stipulati tra agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati e i percettori di un sostegno al reddito. Gli operatori privati sarebbero incentivati alla presa in carico dei lavoratori disoccupati per la loro ricollocazione mediante una remunerazione a fronte dell’effettivo inserimento nel mercato del lavoro per un periodo minimo e proporzionata alla difficoltà di collocamento del soggetto reinserito al lavoro.

Il rapporto tra servizi pubblici e privati per l’impiego si inquadra in un doppio canale. Accanto alla competizione per il ricollocamento di disoccupati e in particolare percettori di sostegno al reddito, si rilancia la promozione della collaborazione e la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati per il lavoro, con l’obiettivo di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Con questo obiettivo paiono volersi ridefinire i criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro, nonché i livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego.

Dopo il fallimento della Borsa nazionale del lavoro, la delega del Jobs Act intende anche rilanciare i sistemi informatici esistenti per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni sociali erogate. Sarebbe questo uno strumento fondamentale, che dovrebbe essere a disposizione di tutti gli operatori del mercato del lavoro per garantire un efficace collegamento delle politiche attive e passive. Per rendere più efficace il sistema informativo del mercato del lavoro si prevede l’istituzione del fascicolo elettronico unico comprensivo di tutti gli elementi riferibili alla vita attiva della persona, dai percorsi educativi e formativi a quelli lavorativi, alle transizioni e ai relativi sussidi, fino al conto corrente previdenziale.

Tutto questo è condivisibile. La domanda, tuttavia, è se vi sono oggi le condizioni per realizzare progetti da tempo noti e presenti nelle riforme del lavoro che via via si sono succedute. La credibilità del Jobs Act si gioca, del resto, tutta qui: nella ragionevole aspettativa che il lavoratore che perde il posto non sarà lasciato solo e che una moderna rete di servizi al lavoro, pubblici o privati poco importa, lo accompagnerà verso la ricerca di un nuovo impiego.

Su questo fronte, la recente esperienza di Garanzia Giovani non lascia invero ben sperare. A fronte di uno stanziamento di 1,5 miliardi si è capito, dopo i primi mesi di sperimentazione, che per il nostro Paese il vero problema non tanto sono le risorse quanto la capacità di utilizzarle bene attraverso un’amministrazione pubblica in grado davvero di costruire le premesse dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Ebbene, nonostante la “garanzia” della presa in carico e del diritto a ottenere, entro quattro mesi, una proposta di lavoro o di stage o, in alternativa, un percorso di riqualificazione professionale, meno di un quarto dei 200mila giovani italiani registrati al programma Garanzia Giovani è stato convocato per un colloquio preliminare e poco altro. Tutti gli altri sono fermi davanti a una porta, quella delle politiche attive, che rimane incomprensibilmente chiusa anche quando le dotazioni finanziarie ci sono. Una prova ulteriore che le riforme del lavoro non passano necessariamente dalle leggi e dalla loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, quanto dalla capacità della nostra politica di attuarle giorno dopo giorno.

Sul lavoro le idee – come gli annunci e i convegni – non mancano. Ma se non vogliamo attendere il fallimento della quinta riforma del lavoro negli ultimi cinque anni è necessario un cambio di prospettiva che porti a prestare maggiore attenzione, più che alle regole, alla loro effettiva implementazione. Queste sono, del resto, le politiche attive. E non saremmo ancora oggi a parlare di introdurre una condizionalità dei sussidi, chiave di volta di un equo e moderno sistema di welfare, se avessimo dato attuazione a leggi vigenti da oltre un decennio.

L’Italia non attrae lo straniero con la laurea

L’Italia non attrae lo straniero con la laurea

Rossella Cadeo – Il Sole 24 Ore

Italia poco attraente per gli stranieri qualificati: meno di uno su dieci tra quelli residenti nel nostro Paese può sfoggiare un grado di studio alto (tipo laurea). La metà ha un’istruzione bassa e quattro su dieci non sono andati oltre le superiori. In altri Paesi europei (si veda la tabella sotto), invece, la quota di immigrati laureati è decisamente più cospicua, fino a picchi del 50% nel Regno Unito e del 37% in Svezia. È questa la fotografia che emerge dalla ricerca della Fondazione Moressa, che ha analizzato i livelli di istruzione nel nostro Paese e in Europa per verificare se l’Italia sia in grado di richiamare anche profili qualificati, non solo i lavoratori cui si pensa quando si parla di immigrati.

È vero che il momento è critico da anni per tutti – almeno dal 2008 –, che il 2014 ha raggiunto le cadute più allarmanti sul fronte occupazionale, che talvolta avere un buon titolo di studio non aiuta a trovare un impiego remunerativo, ma le conclusioni alle quali giunge la ricerca non sono confortanti. «Del resto, le dinamiche migratorie generalmente riflettono la situazione interna – osserva Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione –. I Paesi dove i residenti autoctoni hanno alti livelli di istruzione presentano anche una popolazione straniera maggiormente qualificata, come è appunto il caso di Regno Unito e Svezia. In Italia, invece, si rileva una quota molto esigua di laureati sia tra gli immigrati sia tra gli italiani stessi. Lo studio conferma dunque la scarsa capacità del Paese di attrarre stranieri altamente qualificati. Inoltre rispetto al 2007 la percentuale di immigrati laureati è calata a differenza di altri Paesi europei».

In effetti, anche limitando il confronto agli “autoctoni”, l’Italia non è messa bene: insieme alla Spagna ha la più alta percentuale di soggetti dotati solo di licenza media inferiore (oltre il 40%, contro una media Ue del 27%). La Spagna però ha uno scatto nella fascia dei laureati (il 32,4%), mentre l’Italia resta in coda alla classifica: in media (con scostamenti poco significativi sul territorio) meno del 15% degli italiani ha concluso un corso universitario, quando la media Ue supera il 25 per cento. Speculare il ritardo se si guarda la popolazione immigrata: nella Ue a 28 uno straniero residente su quattro ha in tasca un diploma di laurea (con i picchi, appunto, di Regno Unito e Svezia, dove la quota di chi ha conseguito un degree supera persino quella degli autoctoni), mentre in Italia non si arriva al 10% (siamo alle spalle della Grecia, che si ferma all’11%, e ben lontani anche da altri Paesi sotto la media, come Germania, Austria o Spagna).

Nel nostro Paese la situazione – rileva ancora la ricerca – è andata peggiorando. Dal 2007 al 2013 in Italia la quota di stranieri laureati è calata di oltre un punto, mentre nella Ue è aumentata: circa cinque punti in più sia tra gli stranieri sia tra gli autoctoni, per non parlare del Regno Unito dove tra gli immigrati è cresciuta di ben 20 punti. E un ulteriore doppio primato (negativo) spetta all’Italia: abbiamo le percentuali più alte di Neet (15-24enni che non studiano né lavorano), il 21,2% fra gli italiani (il doppio che nei dieci Paesi considerati) e il 31% fra gli stranieri.

Bruxelles faccia rotta sull’unione fiscale

Bruxelles faccia rotta sull’unione fiscale

Lugi Zingales – Il Sole 24 Ore

Tra le polemiche su chi si arroga (ingiustamente) il diritto di salire in cattedra e chi dovrebbe fare i compiti a casa prima di protestare, l’eurozona sta sprofondando nella deflazione senza un serio dibattito politico. Il conflitto che contrappone Mario Draghi ai falchi tedeschi, da Hans Werner Sinn ad Axel Weber, non è un dibattito tra italiani e tedeschi o tra buoni e (presunti) cattivi, non è neppure solo un dibattito economico, è principalmente un dibattito politico su quale Europa vogliamo. È un dibattito che non dovrebbe essere lasciato in mano solo ai banchieri centrali (passati, presenti o futuri), ma dovrebbe avvenire ai massimi livelli di governo, perché ne dipende la sopravvivenza stessa dell’eurozona.

Il problema fondamentale dell’area euro oggi è la deflazione. Draghi lo ha sicuramente capito, Hans Werner Sinn meno. Come ho scritto in agosto, però, per combattere la deflazione in Europa non basta il quantitative easing (Qe). Soprattutto non basta il quantitative che la Bce è in grado di fare. Giovedì lo hanno capito anche i mercati, che hanno reagito molto negativamente alle parole di Draghi. Quello che stupisce non è tanto il pessimismo, quanto il ritardo. Gli unici titoli che la Bce può comprare sono i titoli che in condizione normale la Bce può prendere a garanzia per operazioni di finanziamento. Proprio perché facilmente riscontrabili, questi titoli avevano già sul mercato un valore vicino alla pari prima dell’annuncio del Qe. Quindi il Qe non può funzionare aumentando il valore di questi titoli in portafoglio alle banche. Ma non può neppure funzionare aumentando la liquidità in mano alle banche, perché questi titoli erano già impegnati presso la Bce in operazioni di pronti contro termine. Trasformare un pronti contro termine in un acquisto dei titoli da parte della Bce aumenta la liquidità delle banche solo per l’ammontare dell’haircut, ovvero per il margine che la Bce richiedeva in queste operazioni. Presumibilmente questo margine è molto limitato, perché la Bce già da tempo sta cercando di pompare liquidità nel sistema. Ergo l’impatto sarà limitato.

Ma allora perché Draghi si ostina a spingere questa strategia? Perché non ha altre armi nel suo arsenale. Anzi, perfino queste armi spuntate generano l’opposizione da parte dei tedeschi, che le vedono come illegali secondo i trattati. Non sono un giurista, ma da un punto di vista economico non ho dubbio che i tedeschi abbiano ragione sul fatto che queste manovre violino lo spirito dei trattati costitutivi. La Bce è stata creata con un divieto assoluto di operare manovre fiscali, quali la monetizzazione del debito (quello che faceva Banca d’Italia prima del “divorzio” del 1981). Per quanto limitati, gli acquisti di titoli con del rischio di credito (come proposto da Draghi) hanno una componente fiscale. Se le società emittenti quei titoli fanno default, la Bce non può rivendere sul mercato i titoli e quindi ha di fatto monetizzato parte del debito. Date le restrizioni in termini di qualità di credito imposte dalla Bce, questa è una possibilità alquanto remota. Ma agli economisti tedeschi questo non importa: è il principio. Combattono questa battaglia sapendo di perdere, per vincere la guerra: bloccare qualsiasi mossa futura della Bce. L’eurozona è un’unione monetaria, non fiscale e non permetteranno mai che lo diventi attraverso manovre surrettizie.

Anche qui i tedeschi hanno ragione. Le decisioni fiscali sono di competenza dell’autorità fiscale in cui i cittadini sono rappresentati, non di un’autorità monetaria, per lo più un’autorità monetaria disegnata per essere totalmente indipendente dal potere politico. Dove non sono d’accordo con i tedeschi è sulla soluzione. La loro strategia è quella di trascinare il problema il più a lungo possibile, perché questa situazione di stallo beneficia il loro Paese. Per l’Italia e tutto il sud d’Europa questo stallo è devastante. O si procede rapidamente verso un’unione fiscale, o è meglio riconoscere che l’unione monetaria da sola non funziona e procedere a un divorzio consensuale, cercando di minimizzarne gli inevitabili danni collaterali. Rimandare il problema non aiuta a risolverlo e ci costa in termini di disoccupazione e desertificazione industriale. È questo il dibattito politico che vorremmo veder oggi in Europa.

La grande vittoria elettorale alle Europee proprio alla vigilia dell’inizio del semestre di presidenza italiana della Ue aveva offerto a Matteo Renzi un’occasione unica per aprire e condurre questo dibattito. Purtroppo già metà di questo semestre è passata senza un’iniziativa significativa. Tanto meno un dibattito serio su questi problemi. L’interesse di Renzi per l’Europa sembra essersi esaurito dopo la nomina di Federica Mogherini ad Alta rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza. Sicuramente una posizione prestigiosa. Ma procedendo in questo modo Mogherini rischia di trovarsi ministro degli Esteri di un’Unione che non esiste più.

Prima i tagli fiscali, poi quelli alla spesa

Prima i tagli fiscali, poi quelli alla spesa

Jean Pisani-Ferry – Il Sole 24 Ore

Mentre l’eurozona discute di come sfuggire alla trappola della stagnazione, c’è una domanda che sta diventando sempre più importante: i governi saranno in grado di ridurre in modo credibile la spesa pubblica in futuro evitando tagli immediati? Per fortuna la risposta è senz’altro affermativa: i modi per garantire che un accomodamento fiscale venga poi seguito da un consolidamento ci sono sempre. La crescita e l’inflazione nell’eurozona continuano a essere troppo deboli. Il quadro che la Bce ha fatto di recente è avvilente e il presidente della Bce Mario Draghi ha ammesso chiaramente che i rischi permangono. È il tipo di situazione in cui la politica fiscale dovrebbe venire in aiuto.

In un recente articolo Francesco Giavazzi e Guido Tabellini dell’Università Bocconi hanno proposto tagli fiscali permanenti seguiti da tagli graduali alla spesa. Se accompagnato da riforme pro-crescita dei prodotti e dei mercati del lavoro, un programma del genere potrebbe generare vantaggi a lungo termine sul fronte dell’offerta (grazie a una pressione fiscale minore) e uno stimolo temporaneo alla domanda che contribuirebbe a rilanciare la crescita dell’eurozona. Ci sono due obiezioni a questo approccio. La prima è che un’azione del genere violerebbe i requisiti stabiliti dal fiscal compact dell’Ue. Cosa che non è del tutto vera. Dei diciotto membri dell’eurozona, dieci non hanno più deficit considerati eccessivi e anche per quelli sotto stretta sorveglianza, come Francia e Spagna, esistono delle clausole scappatoia: in caso di “un prolungato periodo di bassissima crescita annua del Pil” l’Ue può concedere un’esenzione dall’aggiustamento annuale previsto. La seconda obiezione è che i governi non riusciranno a mantenere le loro promesse. Per rispondere a Giavazzi e Tabellini, Roberto Perotti (sempre della Bocconi) ha osservato che la strategia graduale non sarebbe semplicemente credibile. I tagli alla spesa sono decisioni politiche difficili e i governi non possono impegnarsi ad adottarle con certezza, perciò Perotti dice che la combinazione “tagli fiscali adesso e alla spesa poi” comporterebbe un rischio morale enorme. Perotti non ha torto. Il commissario italiano per la spending review, Carlo Cottarelli, ha notato di recente che ancora prima di essere attuati, i tagli alla spesa venivano utilizzati per finanziare nuove spese. L’economia politica della riforma della spesa pubblica è delicata e i programmi macroeconomici ben congeniati rischiano di venire strumentalizzati da politiche elettorali.

Tuttavia una soluzione a questo problema c’è: i governi e i parlamenti possono procrastinare l’azione senza ritardare le decisioni. Nulla impedisce loro di decidere adesso che le pensioni verranno ridotte nel giro di tre anni o che un dato sussidio industriale non ci sarà più a partire dal primo gennaio 2017. Se i parlamenti vogliono legarsi le mani da soli, possono farlo semplicemente varando una legge. Inoltre, l’Europa ha gli strumenti per verificare che gli impegni presi mantengano il loro valore sul lungo periodo. Una strategia “tagli fiscali adesso e alla spesa poi” è dunque praticabile. Anche se sarebbe impegnativa da realizzare e far osservare, potrebbe essere credibile ed essere compatibile con la responsabilità fiscale se venisse accompagnata da forti meccanismi vincolanti a livello nazionale ed europeo. Naturalmente non tutti pensano che questa strategia, per quanto possibile, sia auspicabile, ma questa è un’altra storia.

Fuori tempo massimo per interventi sulle liquidazioni

Fuori tempo massimo per interventi sulle liquidazioni

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

L’idea dimettere in busta paga una parte o l’intera quota del Tfr è spuntata come un fungo settembrino nel bel mezzo del dibattito sull’articolo 18 e nell’attesa di capire come la legge di stabilità riuscirà a rendere strutturale il taglio Irpef da 80 euro per 11 milioni di lavoratori. Diciamolo subito, non è il migliore dei contesti. Come spesso accade, la nostra politica procede per tentativi, aggiunge temi, provocazioni, accavalla proposte quando sembra non arrivare mai la svolta promessa sulla “vera riforma” in cantiere.

Il governo ha presentato lo scorso aprile in Senato un ddl delega di riforma del mercato del lavoro e sei mesi dopo ancora non sappiamo immaginare se entro l’autunno avremo quel testo in Gazzetta. Lì non si parla di rinnovamento della struttura dei contratti e di Tfr, si parla di sperimentazione sul salario minimo, di razionalizzazione delle forme contrattuali ma non di quel che c’è in busta, oggetto tipicamente affidato alla negoziazione tra le parti sociali. Aggiungere ora il tema del Tfr quando l’attesa è, appunto, su ben altro, appare incongruo. Soprattutto se il ragionamento che si fa sulla cancellazione della vecchia liquidazione non è legato a un rilancio della previdenza integrativa.

Si immagina invece di dare il Tfr ai lavoratori per rafforzarne il potere d’acquisto. Ecco, se è questo il piano è un piano sbagliato c pericoloso. Per le aziende, che stanno vivendo una delle peggiori crisi di liquidità dal Dopoguerra. E per gli stessi lavoratori, cui si affiderebbe improvvisamente un plus monetario stipendiale senza averli, appunto, informati bene di che cosa si tratta. Il Governo porti a casa il Jobs act senza ulteriori perdite di tempo e si dedichi di buona lena ai decreti delegati. Solo dopo si può parlare di Tfr in busta, senza ansie e improvvisazioni. Anche perché il superamento di quel residuo archeologico di epoca fascista poteva esser fatto vent’anni fa, quando siamo passati al sistema contributivo per il calcolo delle pensioni. Oggi siamo fuori tempo massimo e in piena recessione con deflazione, dunque non c’è fretta.

Usa, boom dell’occupazione

Usa, boom dell’occupazione

Mario Platero – Il Sole 24 Ore

Se qualcuno dubita ancora della forza del modello americano per rilanciare l’economia dia un’occhiata ai risultati di ieri: un tasso di disoccupazione al 5,9%, un livello che non si vedeva dal 2008 e 248.000 nuovi occupati per il mese di settembre. È difficile dunque ignorare le parole del Presidente Barack Obama che ieri ha lanciato l’ennesima provocazione transatlantica, attaccando soprattutto il modello tedesco, ma, indirettamente tutte le rigidità che, a partire da quelle per il mercato del lavoro, imbrigliano l’economia: «Gli Stati Uniti – ha detto – hanno ridato lavoro a più persone che l’Europa, il Giappone e ogni altra economia avanzata messe insieme». E nonostante i dati di ieri, insieme a un inatteso miglioramento del disavanzo commerciale, diano sicurezza per la tenuta della ripresa, l’amministrazione non si ferma, preme per un ulteriore rilancio del settore manifatturiero e per un rafforzamento di alcuni dati per l’occupazione che potrebbero essere migliorati, come il salario minimo e il tasso della partecipazione al mercato del lavoro, sceso ancora dal 62,8 al 62,7%, il minimo in 35 anni e molto al di sotto del 66% di prima della grande recessione.

Per questo Obama preme su nuove iniziative pubbliche/private, per questo ha già lanciato vari centri per l’eccellenza nel manifatturiero avanzato e ieri ha annunciato lo stanziamento di 200 milioni di dollari in aiuti federali e fondi privati per creare un “Integrated Photonics Manufacturing Institute” che sarà coordinato dal Dipartimento della Difesa. Oggi inoltre si celebra il National Manufacturing Day. Il presidente andrà a Princeton in Indiana, per visitare gli impianti della Millennium Steel. In tutto 16.000 imprese del settore manifatturiero apriranno i cancelli al pubblico e alle autorità sia nazionali che locali a riprova di una forte coesione per avanzare lungo la stessa strada.

Questo per dire che ha ragione Mario Draghi quando avverte che la politica monetaria da sola non basta per rilanciare la crescita e che ci vogliono drastiche riforme strutturali. Che non si dimentichi però l’importanza di lanciare misure di stimolo e di agire anche sul fronte fiscale. È stata questa ricetta con tre ingredienti essenziali, incluso un disavanzo pubblico che era balzato al 10% del Pil prima di arretrare (contro ogni previsione di ostinati economisti nostrani) fra il 3% e il 4% per il 2014, che ha consentito all’America di fare quello che ha fatto. E ricordiamo oltre ai dati di ieri sull’occupazione un tasso di crescita corretto al 4,6% per il secondo trimestre di quest’anno. E la Fed? Difficile che la politica monetaria cambi prima della metà dell’anno prossimo. Janet Yellen ha chiarito che per lei oggi sono più importanti indicatori come il salario minimo e il tasso di partecipazione al lavoro che, come abbiamo visto, sono ancora fuori dalle medie storiche. La ripresa dunque continuerà. Non necessariamente ai ritmi del secondo trimestre, ma la crescita dell’economia e dell’occupazione andranno avanti per il futuro prevedibile.

Ci sembra giusto chiudere con una rivendicazione del Presidente alla New Foundation della Northwestern University di Evanston in Illinois, dove ha fatto partire giovedì la sua campagna per le elezioni di metà mandato. «Ecco i fatti – ha detto Obama – quando sono stato eletto le imprese americane licenziavano al ritmo di 800 mila persone al mese. Oggi le aziende stanno assumendo 200 mila americani al mese. Negli ultimi quattro anni e mezzo l’economia americana ha creato 10 milioni di nuovi occupati, la più lunga crescita di posti di lavoro nel settore prima della nostra storia. Non si sono state tante offerte di lavoro sul mercato quante ce ne sono oggi dal 2001». Dalla perdita di 800.000 posti di lavoro al mese alla creazione di 10 milioni di posti di lavoro in 5 anni. Non c’e’ bisogno di arrivare a questi estremi, ma, senza dover rievocare per l’ennesima volta Shumpeter ieri ne abbiamo avuto la conferma: flessibilità, mobilità e ristrutturazioni aiutano qualunque economia che voglia restare industriale avanzata, non solo l’americana.

La vera sfida è costruire un patto sociale europeo

La vera sfida è costruire un patto sociale europeo

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

«Tra Francia e Germania vogliamo stabilire rapporti su una base completamente nuova, orientare quello che ci divideva, le industrie belliche, verso un progetto comune a beneficio dell’Europa, che così ritroverà nel mondo il ruolo eminente che i confitti interni le hanno fatto perdere. È una proposta politica e morale che vorremmo realizzare senza preoccuparci delle difficoltà tecniche». Questo disse a Bonn, in un mattino di giugno del ’50, Jean Monnet, un francese piccolo piccolo al gigantesco e incredulo cancelliere tedesco, un uomo e un paese feriti, isolati, umiliati. «Aspettavo da 25 anni questa iniziativa» gli rispose dopo un lungo silenzio Konrad Adenauer, «ma per realizzare una tale impresa non è la responsabilità tecnica da sollecitare ma quella morale verso i nostri popoli». L’Europa nacque da qui, da un sogno scandalosamente anticonformista, da un coraggio politico tanto scorretto da immaginare e proporre l’inimmaginabile: la riconciliazione tra nemici irriducibili, implacabili.

La profonda crisi di fiducia che tormenta da troppo tempo l’eurozona deprimendone i prezzi e l’economia, l’incomunicabilità quasi stagna che accompagna il dialogo o meglio i soliloqui dei suoi leader, evocano quei lontani tempi bui e impongono la necessità di un’analoga rottura con la storia, i dogmatismi, il pensiero unico dominante. Urge un nuovo patto di riconciliazione, un nuovo contratto sociale europeo. Oggi sul campo non ci sono 40 milioni di morti da seppellire ma 26 milioni di disoccupati di scarsissime speranze: pesano entrambi sulla coscienza dell’Europa che non può diventare il continente senza futuro del mondo globale. È troppo facile recriminare in uno sterile gioco di scambi di accuse e colpe reciproche. È difficile ricostruire le basi di una sana convivenza europea.

Non c’è dubbio che Francia e Italia abbiano sprecato i tempi della vacche grasse per rimettere in ordine i loro conti e fare le riforme strutturali indispensabili per modernizzare e flessibilizzare le rispettive economie. Non c’è dubbio che la levata di scudi pubblica e unilaterale di Parigi, il gran rifiuto di rispettare le regole anti-deficit, siano sentiti come un tradimento e una provocazione a Berlino dove la Merkel e la sua Cdu-Csu devono fare i conti con il partito anti-euro che ne erode i fianchi. Non c’è però dubbio che la sfida di Francois Hollande, più che una prova di forza, il sonoro requiem sull’asse franco-tedesco peraltro moribondo da tempo, sia un atto di suprema debolezza, di impotenza e di disperazione politica da parte di un presidente con la popolarità al 13% e il Front National in testa ai sondaggi. Non c’è nemmeno dubbio sul fatto che anche i patti europei si logorino, invecchino. Nel mondo globale che cambia a ritmi quasi istantanei, vent’anni sono un’eternità. Quando a Maastricht si fissò al 3% del Pil il tetto del deficit, la crescita media europea nel decennio precedente era stata del 4-5%: a quel ritmo si calcolava che gli squilibri nei conti si sarebbero progressivamente riassorbiti da soli.

Quando di recente gli accordi Ue sono stati rinnovati e rafforzati, si è lavorato sul presupposto di una crescita media del 2% e su un’inflazione della stessa percentuale. Quest’anno si arriverà a malapena e forse all’1%. Le previsioni di Bruxelles per il prossimo decennio parlano di una crescita media intorno all’1% annuo, meno della metà di quella americana. Per i prezzi è deflazione. Riforme o no, rispetto o no delle regole, in questo panorama la stabilità finanziaria diventa una chimera, perlomeno a breve. È una questione meccanica: non politica né economica. Costringere oggi all’impossibile i paesi ritardatari in nome della credibilità dei patti europei di fronte ai mercati, più che rafforzarla rischia di frantumarla del tutto. Un conto infatti è strapazzare la Grecia, 2% del Pil dell’eurozona, un altro è minacciare di fare lo stesso con ben oltre un terzo di quello stesso Pil. Nemmeno la Germania rispetta in toto le regole europee. Per Il surplus dei suoi conti correnti, oltre 400 miliardi pari a più del 6% massimo previsto dai patti europei, è già stata richiamata all’ordine da Bruxelles. Finora senza risultati. Anche la Germania, secondo vari studi tedeschi, deve mettere in cantiere nuove riforme e grandi investimenti in reti e innovazione per tenere il passo con la competitività globale e ritrovare un robusto ritmo di sviluppo.

Oggi crescita e investimenti – quelli veri e non i 300 miliardi del piano Juncker tutti da verificare – sono dunque nell’interesse generale: una boccata d’ossigeno creerebbe un ambiente più propizio a riforme e sacrifici e darebbe un’immagine dell’Europa meno arcigna e indifferente ai problemi quotidiani della gente. Ma nel clima di diffidenze profonde e diffuse, un patto europeo per lo sviluppo oggi richiede un gesto di lungimiranza economica e un atto di temerarietà politica che nessuno in Europa sembra in grado di fare. Un quinquennio di crisi ha dimostrato che la Germania riesce a superare i propri tabù soltanto quando arriva sull’orlo dell’abisso. È successo con il salvataggio della Grecia però al prezzo, avendo tirato troppo in lungo, di seminare il contagio in tutta l’area euro. Un gioco simile con Francia e Italia sarebbe letale per l’euro e per tutti. L’Europa è nata dalla volontà di riconciliazione nell’assoluzione reciproca. Davvero i terribili misfatti di allora erano meno gravi degli attuali e davvero l’Europa non merita di ritrovare la pace con se stessa?

Pareggio anticipato, stretta su 3mila Comuni

Pareggio anticipato, stretta su 3mila Comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Mentre allontana al 2017 il pareggio di bilancio complessivo, la nota di aggiornamento al Def lo anticipa al 2015 per quel che riguarda Regioni ed enti locali. Nelle 144 pagine del documento, questa mossa occupa solo quattro righe, ma può avere effetti dirompenti per quasi 3mila Comuni.

Il pareggio di bilancio in salsa locale, finora in programma dal 2016, impone di cancellare il rosso sia dalla parte corrente, fatta da tributi, trasferimenti e tariffe sul lato delle entrate, e dalle spese non di investimento su quello delle uscite, sia dal saldo finale di bilancio: il tutto va garantito sia per la competenza, cioè per le entrate e le uscite scritte nei bilanci, sia per la cassa, cioè peri flussi finanziari realizzati davvero. L’applicazione tour court di questi obblighi, secondo le elaborazioni che il Sole 24 Ore ha avuto modo di consultare e che sono al centro del confronto fra i tecnici dell’Economia e di Ifel, significherebbe chiedere una manovra aggiuntiva da 1,5 miliardi a quasi 3mila Comuni. Un’introduzione “a tappe” delle nuove regole, partendo dal pareggio di bilancio di parte corrente per rimandare al 2016 quella sui saldi finali, chiederebbe invece circa un miliardo a 2mila Comuni (fra i quali la presenza di qualche grande città aumenta la popolazione interessata).

Il nuovo calendario scritto nel Def per far partire sul territorio l’articolo 81 della Costituzione votato dal Parlamento nel 2012 è però solo una delle variabili in gioco nella costruzione della manovra 2015 per gli enti locali. Sul piatto delle buone notizie c’è la “liberazione” dai vincoli del Patto di stabilità di un miliardo di euro per gli investimenti, mentre sul lato di quelle cattive per i sindaci, ma ottime per l’Economia, c’è l’ingresso in campo della riforma della contabilità: queste regole, che impongono ai Comuni di accantonare un fondo di garanzia proporzionale alle loro difficoltà di riscossione, blocca nei conti degli enti circa tre miliardi di euro, diminuendo la capacità di spesa dei sindaci e quindi dando una mano al bilancio pubblico.

Su questo punto, secondo i Comuni l’impatto del fondo potrebbe addirittura superare i 3,5 miliardi, e anche queste cifre sono al centro di un confronto con Via XX Settembre. Nella manovra in cantiere, i tre elementi sono collegati. Il miliardo svincolato per gli investimenti, e ribadito ancora ieri dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, è il primo passo per il «superamento» del Patto di stabilità interno , reso possibile proprio dall’avvio della riforma della contabilità (con i suoi fondi di garanzia) e dalla prospettiva del pareggio di bilancio.

Naturalmente, quel che conta è il risultato finale per la finanza pubblica: se il fondo di garanzia si rivela più ricco del previsto, quindi, ci potrebbero essere spazi per un pareggio di bilancio più graduale, magari limitato nel 2015 ai saldi di parte corrente. Sulle scelte finali potrebbero pesare anche le prospettive di tenuta del sistema. A differenza del Patto tradizionale, sia la riforma della contabilità sia l’obbligo del pareggio di bilancio concentrano tutti gli sforzi sui Comuni che oggi hanno più difficoltà nei bilanci: la mossa è corretta per il “risanamento” della finanza pubblica, ma senza un dosaggio corretto solleva più di un rischio sul piano dell’applicazione effettiva.