spesa pubblica

La soluzione impossibile: unire le forze dell’ordine

La soluzione impossibile: unire le forze dell’ordine

Stefano Zurlo – Il Giornale

Sono cinque come le dita di una mano ma ciascuna va per suo conto. In Italia tutte le forze di polizia fanno di tutto e si sovrappongono in un caos inestricabile. Si potrebbe risparmiare tanto, molto e portare a casa risultati importanti, ma per ora parole magiche come razionalizzazione e coordinamento restano lettera morta. Prendiamo il mitico numero unico per le emergenze: dal 1981, più di trenta anni fa, c’è la possibilità di creare le centrali operative unificate, ma finora si è fatto poco o nulla. Più nulla che poco. C’è qualche centrale unica virtuale, all’italiana insomma, con tanto di monitor per uno scambio di saluti interforze, e poi ognuno fa il suo. In compenso l’italia paga per l’inadempienza inammissibile sul punto una sanzione alla Ue di 178mila euro al giorno. E ogni città ha le sue cinque, sei, sette centrali perché in realtà alle cinque forze statali – polizia, carabinieri, guardia di finanza, forestale e penitenziaria – occorre somare la municipale e la provinciale. Con relativo problema del riassorbimento: ora che spariranno le province dove finiranno i relativi agenti? A quanto pare ingrosseranno la Forestale.

Insomma, storia e geografia hanno creato un vero ginepraio. Un labirinto con una duplicazione spaventosa di costi. «Sette forze di polizia – spiega Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, uno dei sindacati più rappresentativi della polizia – vuol dire sette caserme, sette uffici per la gestione degli automezzi, sette segreterie, sette caserme e via elencando. Dovremmo procedere con una parziale unificazione che non vuol dire ridurre tutto ad un corpo solo. Questo per la democrazia potrebbe essere un passo indietro, Ma la verità è che si potrebbero abbattere le spese in modo clamoroso e invece ci teniamo una divisione artificiosa che risale all’Ottocento quando nacquero i carabinieri, come polizia militare, e la polizia per l’ordine pubblico». Tonelli dà un paio di dati, sconvolgenti: «Non è vero che i nostri agenti siano pochi; no, sono tanti se non troppi, ne abbiamo uno ogni 190 abitanti, ben più degli altri Paesi europei. In Francia e Germania ce n’è uno ogni 280 abitanti, in Inghilterra addirittura uno ogni 390 abitanti. Eppure omini e risorse si sprecano e si nascondono negli uffici. La riorganizzazione dei servizi non è gradita ai vertici, agli alti papaveri, ai capi che occupano le poltrone più ambite e non vogliono cedere potere e prestigio». Le cifre sono impietose: i carabinieri sono 104mila (ma dovrebbero essere 118mila), i poliziotti 97mila, i finanzieri 68mila, le guardie penitenziarie 45mila. Fanalino di coda le guardie forestali, 7.600.

È una vecchia, vecchissima storia italiana. In Francia la polizia sta nelle città, la Gendarmeria nei villaggi. Da noi regna Arlecchino: tutti stanno dappertutto e spesso si fanno concorrenza. E poi ci sono le Fiamme gialle che fanno di tutto un po’: polizia di frontiera, polizia tributaria, polizia giudiziaria, ordine pubblico e tanto altro. Per esempio la notte della tragedia della Concordia il primo video venne girato dai militari delle Fiamme gialle. Dai tempi di Mani pulite, e dal dilagare degli arresti per corruzione delle divise infedeli, si parla di ridisegnare il corpo. Che andrebbe snellito e trasformato in un’agenzia d’élite, formata da laureati ben pagati e superspecializzati. La realtà, a tratti borbonica, è che anche su questo fronte si è perso tempo. Così il governo Renzi, che all’inizio aveva fatto sperare in qualche riforma incisiva, oggi pare ripiegare sul classico, intramontabile blocco degli stipendi. E il cambio di passo resta lontano. «Potremmo tenere due forze nazionali e una locale – conclude Tonelli – e riflettere poi sul futuro della Guardia di finanza, ma mi pare che siamo al palo». E allo sciopero dei servitori dello Stato.

Stipendi assicurati e maxi tutele, i bonus nascosti del posto statale

Stipendi assicurati e maxi tutele, i bonus nascosti del posto statale

Stefano Filippi – Il Giornale

Il governo non aumenterà gli stipendi degli statali perché non ci sono soldi. Gli statali protestano, e sarebbe stato strano il contrario. È uno scandalo nazionale, uno stato datore di lavoro che non premia i suoi dipendenti in attesa da anni di uno straccio di aumento. Le categorie del pubblico impiego, come si dice nel gergo dei sindacati, si mobilitano.Addirittura le forze dell’ordine minacciano scioperi, e questo è molto meno scontato e anche un tantino esagerato.

Tutto vero, tutto giusto. Ma i dipendenti pubblici italiani dovrebbero anche guardare che cosa succede fuori dai loro uffici. Nel mercato del lavoro non protetto dallo stato-mamma succedono cose a loro sconosciute: cassa integrazione, licenziamenti, mobilità, contratti di solidarietà, accordi integrativi ridiscussi o cancellati. Fabbriche che chiudono, professionisti che non incassano, imprenditori che attendono di essere pagati proprio da quello stesso stato tiranno. Il quale ogni mese versa lo stipendio ai dipendenti ma non ne vuol sapere di saldare i debiti con i fornitori.

Se poi gli statali vorranno guardare fuori dai confini dello Stivale, scopriranno che per i loro colleghi le cose vanno perfino peggio. Negli altri Paesi del Sud Europa il blocco delle buste paga è prassi: succede nella Francia della grandeur dimenticata, in Spagna, in Portogallo. La cancelliera Angela Merkel sta seriamente meditando di fare lo stesso con gli statali tedeschi. In Grecia sono stati costretti a fare ben di peggio. Hanno licenziato, sotto il diktat della Troika. E adesso da quelle parti si sente aria di ripresa, quella che da noi non arriva.

In Gran Bretagna ci sono andati giù pesante. Il governo di Londra negli ultimi quattro anni ha lasciato a casa 500mila dipendenti pubblici e ridotto le tasse che servivano a pagare i loro stipendi: ora viaggia a ritmi di crescita che l’Italia si sogna mentre la disoccupazione è al 6,4 per cento, cioè ai minimi dagli ultimi sei anni, e la Banca d’Inghilterra prevede che il tasso di disoccupazione scenda sotto il 6 per cento entro dicembre. Significa che la gran parte degli statali licenziati ha già trovato un altro impiego.

Da noi non funziona così. Impiegati, insegnanti, ministeriali, militari, medici e personale sanitario e via elencando hanno un posto di lavoro che, per fortuna, è ancora garantito. Hanno uno stipendio sicuro che, per esempio, permette loro di ottenere un mutuo senza essere torturati dalle banche. Hanno la tranquillità psicologica di poter pianificare qualche investimento. E la maggioranza degli statali ha beneficiato del bonus mensile di 80 euro che alla fine dell’anno fanno quasi 1.000 euro negati ad artigiani, piccoli imprenditori, professionisti, partite Iva: tutta gente alle prese con la stessa crisi che colpisce gli statali, ma evidentemente sono meno tutelati. E per quanti lo incassano, il bonus è enormemente meglio di un rinnovo contrattuale che, (fonte Sole24Ore ), varrebbe poco più di 200 euro netti all’anno.

La battaglia del pubblico impiego per una busta paga che regga il costo della vita non è priva di ragioni. Alcuni dei privilegi storici di cui gli statali godono sono avviati al tramonto e se il governo decide qualche spremuta fiscale i lavoratori dipendenti non hanno modo di sottrarsi. Poliziotti e carabinieri (ma anche le forze di sicurezza che non possono permettersi di alzare la cresta) sono costretti a operare in condizioni spesso proibitive. Ma è lecito anche interrogarsi se una categoria di lavoratori finora soltanto sfiorata dalla crisi che ha travolto milioni di altri salariati non debba ora farsi carico di qualche sacrificio.

Cinque corpi di pubblica sicurezza in Italia, chi sono e cosa fanno

Cinque corpi di pubblica sicurezza in Italia, chi sono e cosa fanno

Lorenzo Vendemiale – La Stampa

Senza il blocco dei contratti, il giro di vite sul turnover e norme più severe per premi individuali, come ha certificato poco tempo fa la Corte dei Conti, l’Italia non sarebbe certo riuscita a mettere sotto controllo il monte salari dei dipendenti pubblici. E invece da qualche anno a questa parte il peso sul bilancio dello Stato pian piano sta scendendo al punto che l’Italia è entrata a far parte del club dei Paesi più virtuosi, collocandosi ben sotto la media europea: nel 2016 scenderemo infatti sotto la soglia del 10% del Pil. Oggi siamo ancora al 10,5%, contro il 19% della Danimarca, il 14,4 della Svezia, il 13,4% della Francia e l’11,5 della Gran Bretagna. Tra i grandi Paesi solo la Germania, con l’8%, riesce a fare meglio.

Comunque sia, anche se gli stipendi medi non sono altissimi (34.576 euro di media nel 2012), si tratta pur sempre di un mucchio di soldi: parliamo di ben 164 miliardi di euro di spese complessive nel 2013, 8 in meno rispetto al 2010 (-4,6%) quando il blocco dei salari ha toccato tutti i settori e tutti i comparti della Pa. Stando all’ultima versione del Def 2014 non solo la discesa non sarebbe terminata, ma anzi si prevede un’ulteriore riduzione dello 0,7%. Solo dal 2018, per effetto della ripresa del turnover e del pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale 2015-2017, è prevista una inversione di tendenza con un aumento dello 0,3 per cento della spesa.

Ovviamente parliamo di medie, se si scende nel dettaglio, in un mondo dove i dirigenti sono tra i più pagati in assoluto di tutta l’area Ocse e dove la «truppa» è invece agli ultimi posti delle graduatorie, si vede che a patire di più i tagli sono stati i dipendenti degli enti locali che hanno dovuto sopportare «per intero» la diminuzione della spesa, mentre il settore statale si è mantenuto su livelli stabili (+0,2%) ed i dipendenti degli enti previdenziali hanno messo a segno un lieve aumento (+1%).

Ma se è vero che la spesa dello Stato ha beneficiato di queste norme sempre più rigide sul pubblico impiego, è anche vero – lo ammette la stessa Corte dei conti – che si è trattato di «misure severe ed eccezionali, non replicabili all’infinito e non aventi natura di riforma strutturale». Dopo cinque anni e più sostengono i magistrati contabili, il blocco della contrattazione va superato. Perché ha di fatto «impedito» la piena attuazione della riforma del 2009 quando vennero «privatizzati» i contratti del pubblico impiego con l’obiettivo di aumentare la flessibilità e riforma il meccanismo di calcolo degli stipendi.

Se il governo, come ha più volte detto, vuole procedere con la riforma del salario accessorio, spingere l’acceleratore sul recupero dell’efficienza e la valorizzare del merito individuale è obbligato a riprendere l’attività negoziale. È una questione «fisiologica», sottolinea la Corte dei Conti. E certamente, dopo sette anni di blocco, non è immaginabile una contrattazione che riguardi solo le regole e non i salari. Il problema è che riaprire il «file» contratti ha un costo non indifferente. È lo stesso governo, nei documenti di bilancio, ad indicare in base agli aumenti medi concessi nelle tornate precedenti un costo che a regime arriverà a quota 6,5 miliardi di euro. Ecco spiegato l’impasse di questi giorni. Al quale difficilmente si potrà sopperire con ulteriori tagli del numero dei dipendenti, già scesi di 200 mila unità nel giro di 4 anni. Perché andrebbe utilizzata di nuovo la leva del turnover e questo farebbe ulteriormente aumentare l’età media dei nostri travet, che in larga parte (50%) già oggi hanno più di 50 anni contro una media europea del 30% e dove la quota di laureati (34%) sfigura se rapportata ad esempio a quella inglese (54%). Con tutto ciò che ne conseguenze in termini di competenza, efficienza e produttività.

Il realismo dei conti e il primo taglio lineare

Il realismo dei conti e il primo taglio lineare

Enrico Marro – Corriere della Sera

La notizia che i contratti pubblici, già bloccati per legge dal 2010, rischiavano di restare fermi ancora qualche anno fu data dai giornali per la prima volta il 10 aprile scorso. Bastava leggere il Def, il Documento di economia e finanza appena approvato dal governo Renzi, per leggere, a pagina 34 della sezione II, che la spesa per i dipendenti pubblici (164 miliardi di euro nel 2013) aumenterà dello 0,3% ma solo «nel 2018 in ragione della nuova indennità di vacanza contrattuale relativa al triennio 2018-2020». Ma se si prevede di pagare tale indennità (che recupera il 50% dell’inflazione) è perché, fino a quella data, non si ha in programma di rinnovare i contratti di lavoro. Il ministero dell’Economia reagì stizzito a questa interpretazione con un comunicato dove assicurava che «le notizie apparse sulla stampa non hanno alcun fondamento» e spiegava che le previsioni del Def «sono elaborate sulla base della legislazione vigente» che al momento non autorizzava il rinnovo dei contratti bloccati dal 2010.

L’ipotesi di una proroga del blocco è circolata sui giornali una seconda volta il mese scorso, ma è stata liquidata, insieme con altre, da Renzi in persona con un tweet: «I giornali di agosto sono pieni di progetti segreti del governo. Talmente segreti che non li conosce nemmeno il governo». Poi, l’altro ieri, improvvisamente, il sottosegretario alla Pubblica amministrazione, Angelo Rughetti, ha ammesso: «Non si può dare tutto a tutti. Se il Def non cambia con la nota di aggiornamento, lo stop ai contratti resta». Appunto. E ieri il ministro Marianna Madia, che pure aveva fatto spallucce alle indiscrezioni giornalistiche di agosto, ha confermato: «In questo momento le risorse per sbloccare i contratti non ci sono». Lo Stato risparmierà così almeno 2,1 miliardi solo nel 2015.

Raccontare come si è svolta la vicenda è utile. Perché essa è paradigmatica di come alla fine anche il governo Renzi debba fare i conti con la dura realtà. È evidente che, nonostante l’ottimismo per tanti versi meritorio del presidente del Consiglio, la coperta è sempre più corta. E non è questione di essere gufi. Ieri Renzi ha promesso che taglierà di 20 miliardi la spesa pubblica nel 2015. Se 2,1 miliardi verranno solo dal blocco dei contratti pubblici, dovrebbe ammettere che aveva ragione chi faceva osservare che non si possono fare tagli così importanti senza toccare le tre voci principali di spesa: pensioni, sanità e pubblico impiego appunto. Infatti, tanto per fare un esempio, dalla riduzione o «aggregazione» (come preferisce Renzi) delle municipalizzate si potrebbero al più risparmiare 500 milioni nel 2015, secondo stime dello stesso governo. Infine, che cos’è la proroga del blocco dei contratti pubblici se non un taglio lineare? Proprio quelli che il governo aveva promesso di non fare. Quanti altri ce ne saranno nella “nuova” Spending review?

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La procedura che porta alla legge di stabilità inizierà a giorni e, purtroppo, non sarà una passeggiata né per il governo né per l’Italia. Siamo infatti in recessione-deflazione più della media (alzata, si fa per dire, dalla Germania!) dell’eurozona. La speranza sul programma del neo presidente della Commissione Juncker (e cioè investimenti nell’economia reale e nelle infrastrutture per 300 miliardi in tre anni) viene smorzata dalla critica tedesca all’apertura di Draghi su queste politiche espansive. Rimaniamo così in attesa sia della Bce per l’erogazione di liquidità finalizzata al rilancio dell’economia reale, sia delle politiche della nuova Commissione europea per spingere la crescita, sia della capacità dei governi di Paesi a crescita zero (o meglio negativa) come il nostro di contrattare flessibilità di bilancio in cambio di riforme. Anche perchè,malgrado i limiti delle nostre riforme, non è (tutta) colpa nostra se l’eurozona ha fatto la scelta sbagliata di rigore senza investimenti.

Riformare l’Italia
Il governo ha piani ambiziosi che speriamo possa migliorare (anche accettando le critiche costruttive) ed attuare. Per questo bisognerà analizzare bene il programma dei mille giorni, del «passo dopo passo». Intanto le previsioni sulla nostra crescita, disoccupazione e sui saldi di bilancio peggiorano anche se Renzi e Padoan rassicurano sul rispetto dei vincoli di bilancio europei. Intanto, il governo ha approvato lo «sblocca-iItalia» che ha misure interessanti per la crescita,anche tramite le infrastrutture. Una parte non piccola è però subordinata alle risorse finanziarie su cui aspettiamo la legge di stabilità. A questo proposito consideriamo una questione (tra le tante) sulla quale si valuterà la capacità del governo di fare le riforme durevoli. Si tratta della revisione della spesa pubblica, tema (tra gli altri) sul quale in una serrata intervista si sono intrattenuti ieri qui il presidente del consiglio e il direttore del nostro quotidiano.

Razionalizzare la spesa
Il presidente Renzi ritiene di poter tagliare 20 miliardi nel 2015 per liberare risorse da investire nella istruzione e nella ricerca. All’ovvia preoccupazione che ciò si faccia con i tagli lineari, la risposta è stata che non sarà così perché ogni ministero dovrà fare delle scelte e ridurre del 3% selettivamente la spesa. Lo speriamo e tuttavia riteniamo di richiamare all’attenzione sulla necessità di seguire le «nuove proposte di revisione della spesa» (Nprs) elaborate dal commissario nominato dal governo, Carlo Cottarelli e dai suoi collaboratori. Non si tratta di limitare la discrezionalità valutativa del governo ma di avere una precisa mappa sui cui muoversi. Le Nprs lo sono perché applicano all’Italia, su una serie di aree di intervento, le migliori pratiche dell’Ocse già usate in altri Paesi.Ottenere dai ministri e dai ministeri una riduzione razionale della spesa è pressoché impossibile senza avere un’indicazione precisa sulle opzioni di risparmi e riallocazioni. Queste sono fornite proprio dalle Nprs di Cottarelli che punta su 59 miliardi di risparmi nei tre anni 2014-16. I risparmi lordi massimi calcolati (che non considerano il calo indotto sulle entrate) sono di 7 miliardi nel 2014 (sui dodici mesi, ovvero 3,5 su sei che ci sono), di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Le Nprs sono su cinque macro-aree di intervento con i relativi risparmi su ciascun anno del triennio: efficientamento (per 19,4 miliardi); riorganizzazioni (7,9); costi politica (2); riduzione trasferimenti (13,5); settori: difesa, sanità, pensioni (15,1). Ciascuna macro-area è poi dettagliata per ogni anno e per varie voci di risparmio e di efficientamento a livello statale e di enti locali. Qualcuno ha ironizzato (sbagliando) su alcune piccole voci di taglio spese che mostrano invece la serietà delle Nprs perché anche la somma di micro-sprechi genera macro-sprechi.

Tre proposte-richieste al Governo
La prima è una proposta al presidente del consiglio. Data la struttura e la declinazione delle Nprs, è necessario che la stessa venga utilizzata appieno nelle trattative con i ministri (e non solo perché il presidente Renzi dice tra l’altro di voler mantenere Cottarelli nel suo incarico). Sarebbe diversamente difficile discutere con i ministeri operazioni articolate di razionalizzazione della spesa. Né bisogna correre il rischio di passare sbrigativamente ai tagli lineari (o quasi) che talvolta colpiscono anche quelle spese necessarie dove non ci sono resistenze corporative.

La seconda è una richiesta al Governo. E cioè accertare entro il 12 settembre quando ci sarà l’eurogruppo (e prima con Juncker) qual è la misura delle flessibilità chel’Italia può ottenere sui vincoli di bilancio europei. Comprendiamo la riservatezza di queste trattative ma almeno un segnale che sono in corso sarebbe utile. La questione è cruciale non per cambiare le Nprs ma per definire meglio il cronoprogramma delle misure specifiche perché le riforme strutturali della spesa sono più lente ma più efficaci anche in termini di recuperi di efficienza che si estende poi a tutto il sistema economico.
La terza è una proposta-richiesta. Non si rinvii il programma di razionalizzazione delle (quasi)aziende partecipate dagli enti locali che noi abbiamo così denominato il 31 agosto su queste colonne perché molte non sono imprese date le loro perdite croniche. La risposta del presidente Renzi nella citata intervista non soddisfa. Condividiamo con lui l’obiettivo di voler passare dalle circa 8.000 a 1.000 e che la Cassa depositi e prestiti con il Fondo strategico italiano potranno svolgere un ruolo importante al proposito.Tuttavia ci aspettavamo che il presidente Renzi prendesse posizioni sui tempi e sulle modalità (chiusure, aggregazioni, vendite, quotazioni) della ristrutturazione e/o che rinviasse al recente programma elaborato da Cottarelli e dai suoi collaboratori che prospetta un risparmio a regime di 3 miliardi annui dalla razionalizzazione. Al quale per noi si aggiungerebbe un notevole (e non misurato) aumento di efficienza delle economie locali che sono cruciale per l’Italia

Una conclusione
Difficile dire se le nuove proposte di revisione della spesa pubblica elaborate da Cottarelli andranno in porto, se l’Europa ci darà delle flessibilità di bilancio, se Renzi avrà la forza politica di ottenere queste flessibilità e di fare le riforme. Se tutto andasse al meglio (e anche l’euro-Germania rinsavisse) avremmo una proposta per le risorse che rimanessero disponibili. Spingere al massimo sugli investimenti (e non solo con riduzione delle tasse) nell’economia reale, nella tecnoscienza e nelle infrastrutture per rilanciare la crescita adesso e per garantirsi un apparato produttivo più moderno per il futuro. Cioè per quelle generazioni che Renzi giustamente cita spesso.

Giuseppe Pennisi – I tagli di Renzi sono differenti dai tagli di Tremonti?

Giuseppe Pennisi – I tagli di Renzi sono differenti dai tagli di Tremonti?

Giuseppe Pennisi – Formiche

I “tagli di Renzi” saranno probabilmente al centro del dibattito politico nei prossimi giorni. E’ quindi doveroso per un economista spiegare, sine ira ac studio, in che misura si differenziano dai “tagli” alla spesa pubblica messi atto quando Giulio Tremonti era il ministro dell’Economia e delle Finanze e vennero criticate riduzioni di spesa di questa natura (ossia ponendo a ciascun dicastero un obiettivo complessivo di contenimento senza analizzare, secondo metodi e tecniche concordati ed uniformi, le priorità sotto il profilo macro economico, micro economico e sociale).

Da allora – si era nel 2002 – alcuni aspetti chiave sono mutati:

a) In primo luogo, il governo dispone di un documento (purtroppo è stato deciso di non renderlo pubblico) di un Commissario alla revisione della spesa che ha individuato puntualmente 15-20 miliardi di spese non necessarie specialmente nel “socialismo regionale, provinciale municipale” e negli enti (strumentali e di ricerca) di Ministeri. E’ un ampio campo su cui operare sulla base di cifre certe e di valutazioni precise su duplicazioni e inutilità economica e sociale di interventi. Numerosi di queste voci non appartengono alle “competenze” delle amministrazioni centrali, ma non sarebbe difficile (di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica) convincere il Parlamento a varare, al più presto, una norma di “surroga”, in base alla quale se le autonomie non effettuano le razionalizzazioni necessarie entro il 31 dicembre il governo utilizza poteri sostitutivi dal 1 gennaio.

b) Nuove metodologie di valutazione della spesa sono state varate dal Cnel nel 2012 ed hanno avuto il consenso dei maggiori ministeri nonché delle istituzioni finanziarie internazionali. Purtroppo esponenti della Cgil al Cnel hanno chiesto che il lavoro non venisse proseguito; è sta alla Segreteria della Cgil chiedere ai suoi nominati spiegazioni in proposito. Tuttavia, sulla base del lavoro Cnel ed in collaborazione con gli enti di ricerca di alcune regioni, l’UVAL (Unità di Valutazione), ora operante nell’agenzia per la coesione territoriale (quindi in seno alla stessa Presidenza del Consiglio) ha completato in luglio un aggiornato buon manuale della valutazione della spesa per ora disponibile (anche al Presidente del Consiglio) su supporto telematico (è in corso l’approntamento dell’edizione a stampa). Quindi, esiste lo strumento per affrontare la riduzione della spesa distinguendo da quella “socialmente produttiva” (nel lessico dell’economia del benessere) a quella “socialmente improduttiva”.

L’Istat inoltre sta aggiornando la matrice di contabilità sociale, essenziale per quantizzare effetti economici e sociale delle riduzioni di spesa. Strumentazione di cui non si disponeva né nel 2002 né nel 2008. Dunque, il problema potrebbe affrontato selettivamente, e su base qualitativa, come venne fatto in Francia con il programma de “rationalization des choix budgettaires”. Sono ovviamente disponibile a fornire a Palazzo Chigi ed a Palazzo Vidoni le informazioni tecniche del caso, ma la Ragioneria Generale dello Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze ha tutti i dati necessari.

A tali aspetti salienti se ne aggiungono altri, più tecnici. Tuttavia, proprio in base ai lavori, è possibile pure quantizzare le implicazioni di un ulteriore anno di blocco delle retribuzioni pubbliche in un’Italia che, dati della Commissione Europea alla mano, ha subìto una “svalutazione fiscale” del 30%. E’ un aspetto importante anche perché non avere, precedentemente, diminuito drasticamente i costi della politica (rimborsi elettorali, indennità per Governo e Parlamento) rischia, secondo i manuali di neuro economia, di aggravare tensioni e costi sociali. Ci si affidi a chi sa trattare la materia non a certi martelli che hanno indossato tutte le casacche ed ora si aggirano per Palazzo Vidoni.

Renzi deve affamare la bestia (la P.A.)

Renzi deve affamare la bestia (la P.A.)

Marco Bertoncini – Italia Oggi

Silvio Berlusconi persevera nell’attendere gli articolati dei decreti legge (molto meno pressanti saranno i disegni di legge) prima di esprimersi pro o contro singoli provvedimenti di Matteo Renzi. Intanto, però, dal suo partito, segnatamente dal gruppo della camera con Il Mattinale, arrivano irrisioni e smentite a proposito di tempi, promesse, impegni passati e presenti di R.

Mettere a confronto le sparate sui cento giorni iniziali con le realizzazioni concrete è redditizio, in termini di propaganda. Similmente, riesce facile rilevare che i percorsi parlamentari sono l’opposto delle celeberrime imprese annunciate dal presidente del consiglio.

In sintesi, i fatti ridimensionano l’opera del rottamatore, che finora ben poco ha rottamato. Il caso delle aziende pubbliche parla da solo. R. è costretto a seguire il commissario alla riduzione della spesa, ma parzialmente e con tempi che sono l’opposto del necessario. Forse la ragione fondamentale, come però soltanto qualche isolato osservatore rileva, sta nel non voler affrontare con il necessario coraggio e ab imis i problemi economici. La strada è quella indicata da Ronald Reagan negli anni 80: affamare la bestia. Ossia togliere il sostentamento all’apparato pubblico tutto intero, dallo stato ai comuni passando per enti pubblici, regioni, partecipate. Come? Diminuendo fortemente il carico fiscale. È l’unico modo vero per tagliare la spesa pubblica. Il normale ragionamento dell’uomo politico si fonda su questo interrogativo: come posso far fronte a queste spese? La risposta passa inevitabilmente attraverso il fisco. È tutt’altra faccenda, invece, rispondere alla domanda: non avendo le entrate necessarie, quali spese devo cancellare?

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Valentina Conte – La Repubblica

Troppo presto per brindare, visti anche i primi malumori della Merkel. Ma l’ipotesi di una moratoria biennale sul Six pack, la possibilità cioè per l’Italia di non dover incidere brutalmente col bisturi sui conti 2014-2015, risparmierebbe al Paese di certo una legge di Stabilità lacrime e sangue. Nessuna procedura di infrazione, dunque, se il deficit strutturale non è “close to balance”, vicino allo zero, il prossimo anno. Nessuna bacchettata se il percorso di riduzione del debito pubblico parte nel 2016, dodici mesi dopo. Più margini per fare politiche espansive e provare a rianimare il paziente, dopo la cura da cavallo. E cioè a far ripartire la crescita. Insomma, anziché una maxi manovra da 25 miliardi, ad ottobre l’Italia potrebbe evitare altri tagli draconiani o maggiori tasse per 8-10 miliardi. Una cifra pari quasi al costo del bonus degli 80 euro per il 20 1 5. Non male. 

«Un accordo di questo tipo sarebbe un aiuto importante, è evidente», riflette Enrico Zanetti, sottosegretario all’Economia. «Eviteremmo i rischi di inflazione. Resteremmo sotto il 3% nel rapporto deficit-Pil. Le manovra sarebbe meno complicata, da 15-16 miliardi anziché 23-25, coperta dalla spending review. E saremmo in grado di mantenere tutte le promesse, come il bonus, oltre a scongiurare tagli alle detrazioni fiscali. Non dover fare la correzione da almeno mezzo punto di Pil aiuterebbe, certo». Fermo restando, ricorda Zanetti, che oltre alla moratoria «è anche tempo di rivedere, nelle sedi tecniche europee, il Pil potenziale dell’Italia». Così com’è – pari a zero – «ci penalizza e rende gravosi gli aggiustamenti dei disavanzi strutturali».

Per ora vediamo se l’intesa sin qui solamente abbozzata e informale tra Juncker e la commissione Ue uscente reggerà alla prova (tedesca) dei fatti. «Sarebbe però sbagliato vedere la moratoria come una concessione da scambiare ad esempio con minori tutele per i lavoratori», avverte Stefano Fassina, ex viceministro pd dell’Economia. Quell’obiettivo di riduzione dello 0,5% annuo del deficit strutturale, cioè al netto del ciclo economico avverso, «è assolutamente irrealistico, in uno scenario di recessione come l’odierno». Tra l’altro fissato con un’inflazione al 2%, mentre ora l’Eurozona si avvia alla deflazione. «Il Six pack non si applica punto. E non per concessione, ma perché il quadro è diverso». Sorpresa per la svolta europea che si prefigura, Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, ne soppesa però i vantaggi per l’Italia. «Una corda che si allenta, indubbiamente. Gli sforzi per l’aggiustamento del bilancio strutturale si sposterebbero al 2016. Non saremmo insomma costretti a modificare il tendenziale già ora, con la legge di Stabilità di ottobre. Un passo avanti imponente che tuttavia scavalca anche i possibili margini di flessibilità annunciati da Mario Draghi a Jackson Hole e inquadrati “nei limiti del fiscal compact”, le regole di riduzione del debito pubblico”. Qui siamo ben oltre». 

Sarà per questo che la Merkel è in ansia. «Se ci concederanno davvero questo margine, l’impatto sarà minimale sulla recessione», avverte però Luigi Guiso, economista e docente al Luigi Einaudi Institute for Economics and Finance. «Attenzione poi a non farne un uso cattivo. Il bonus da 80 euro doveva essere finanziato con tagli alla spesa. Allentare questo processo e magari usare la nuova flessibilità per coprire quello sconto fiscale potrebbe essere controproducente. Lo sconto ci toglie qualche castagna dal fuoco nell’immediato, certo non ci aiuta a uscire dalla crisi».

Dagli Usa all’Italia aspettando la vera ripresa

Dagli Usa all’Italia aspettando la vera ripresa

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

Prima c’era la crisi finanziaria, poi la Grande recessione, poi la crisi da debiti sovrani, ora i tremori geopolitici da Ucraina, Gaza e Medio Oriente… Non c’è pace per l’economia mondiale e diventa difficile discernere, nella nebbia del ciclo, il ruolo dei fattori strutturali, congiunturali e politico-militari.
L’analisi deve partire dagli Stati Uniti, e non solo perché sono tuttora – ma di poco – la più grossa economia del mondo. Nella costellazione delle economie gli Usa sono ancora la stella polare, che segna la direzione del ciclo internazionale. E questo sia per fattori reali – l’assorbimento dell’export diretto verso il più grande mercato del pianeta – che per fattori di fiducia – il mondo guarda all’America per confortarsi e ignorare i tristi epigoni di una supposta “stagnazione secolare” che dovrebbe invischiare le economie avanzate.

Allora, qual è lo stato di salute dell’economia americana? Buono, grazie. Gli Usa furono colpiti da una recessione diversa dal solito, una recessione che riguardava i fondi e non i flussi, una recessione da eccesso di debito che aveva incrinato i bilanci, specie delle famiglie. Questa balance sheet recession – recessione da bilancio – richiede una terapia lunga, ché il solo modo di uscirne è quello di raddrizzare il bilancio riducendo il debito, cioè risparmiando di più e consumando di meno. Una terapia ammirabile e nobile dal punto di vista della singola famiglia, ma che, praticata su vasta scala, toglie carburante alla caldaia dell’economia. Ora, tuttavia, i bilanci delle famiglie sono stati risanati, il debito è tornato a livelli fisiologici e la ricchezza, grazie ai tassi d’interesse bassi che sostengono il valore delle obbligazioni, all’effervescenza dei mercati azionari che continuano a macinare record e alla ripresa dei prezzi delle case, è a livelli tali da confortare i consumi. C’era però un problema in questa vicenda. Per contenere la recessione lo Stato si era doverosamente sostituito al settore privato nello spendere e nello spandere, e i deficit risultanti avevano poi costretto il settore pubblico a tirare anch’esso la cinghia.

La lentezza della ripresa americana è dipesa proprio da questo “uno-due”: sia le famiglie che lo Stato avevano un problema di risanamento del bilancio, e sia le une che l’altro dovevano faticosamente risalire la china del deficit andando cauti nella spesa. Ma, come per i conti delle famiglie, anche i conti pubblici negli Stati Uniti hanno mostrato rapidi miglioramenti e le previsioni dei saldi per l’anno in corso continuano a migliorare: il deficit federale viene visto oggi al 2,9% del Prodotto interno lordo. Sgombrato il campo, quindi, dalla fatica del risanamento dei bilanci, l’evoluzione dell’economia viene a dipendere dalle forze spontanee del ciclo, che negli Stati Uniti continuano a essere vive e vitali: il progresso tecnico non si arresta, la fucina dell’innovazione è sempre accesa, le condizioni monetarie sono permissive ed è ampia la disponibilità di lavoro e di capitale. La Borsa americana è fin troppo contenta (e naturalmente, spuntano come funghi le cassandre che annunciano “il grande crollo del 2014”), ma in fondo riflette, pur con qualche esagerazione, l’evoluzione dei profitti che sono, in quota di Pil, vicini ai livelli massimi del dopoguerra.

“L’altra metà del cielo” – i Paesi emergenti – sono in realtà più della metà, ché quest’anno c’è stato lo storico sorpasso: hanno oltrepassato il 50% dell’economia mondiale. Dietro a questo sorpasso ci sono quei fattori fondamentali che, fortunatamente, continuano a spingere la crescita: voglia di crescere, catch-up delle tecnologie, disponibilità di manodopera a basso costo, abbraccio dei valori di mercato e gradi di libertà delle politiche monetarie e di bilancio.

Cruciale è il ruolo della Cina, i cui problemi sono di una varietà che tutti vorrebbero avere: problemi da troppa crescita. Il rallentamento in corso nell’economia del Celeste impero – si fa per dire: dal +10% al +7/7,5% – non è segno di crisi incipiente: è un desiderabile scalar di marcia da una velocità di crociera insostenibile. Un giorno la Cina avrà una vera crisi, ma sarà dovuta a ragioni politiche, a una rivendicazione di libertà civili che mancano all’appello, adesso che le libertà economiche sono state in gran parte conquistate. Ma per adesso non ci sono grossi ostacoli a una crescita che si sta spostando verso la domanda interna e la faretra delle politiche economiche ha dentro molte frecce che possono essere utilizzate per sostenere l’espansione.

Per restare in Asia, quali sono le prospettive del Giappone? In un certo senso, la situazione giapponese ha alcune analogie con quella dell’Italia. La “terza freccia” all’arco del governo guidato da Shinzo Abe – le riforme strutturali, che avrebbero dovuto seguire le due frecce di politiche monetarie e di bilancio espansionistiche – stentano a carburare, come succede in Italia, dove purtroppo anche le prime due frecce non sono state di supporto alla crescita. Ma l’impressione è che la “Abenomics” costituisce un cambiamento di regime irreversibile e il Giappone ha una buona probabilità di tornare a crescere.

E in Europa? C’è, se pure su scala più modesta rispetto all’Italia, la stessa discrasia fra indicatori di fiducia e indicatori reali. Ma recentemente – e in questo caso la spiegazione è più geopolitica che economica – anche gli indicatori di fiducia mostrano segni di ripensamento. Segni specialmente evidenti in Germania, più vicina e più esposta alle preoccupanti vicende in Ucraina.

In conclusione, l’economia internazionale sta subendo i contraccolpi delle tensioni: fra rumor di sciabole e conflitti sanguinosi, l’economia segna il passo, anche se i fattori di crescita rimangono intatti. L’Italia – che il passo lo segna da molti anni – potrà vedere una vera ripresa solo se il resto del mondo riprende il cammino.

Salta il taglio delle partecipate locali

Salta il taglio delle partecipate locali

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Salta l’operazione in due tappe per il disboscamento della giungla delle partecipate. Tutto il piano di riorganizzazione delle municipalizzate scatterà con la prossima legge di stabilità. In extremis, infatti, sono usciti dalla versione finale dello Sblocca-Italia i primi interventi per incentivare la quotazione in Borsa e la privatizzazione di aziende in house di trasporto locale e rifiuti in cambio di un allungamento della concessione fino a 22 anno e sei mesi. Ed è stata congelata per qualche settimana la cancellazione delle 1.250 municipalizzate che risultano non operative ma con i loro dirigenti ancora in carica. 

In due fasi potrebbe invece essere sviluppato l’intervento per utilizzare una parte della dote Inail destinata a investimenti immobiliari pubblici per l’immediato completamento di opere di pubblica utilità. Il decreto varato ieri prevede che vengano impiegati già nel 2o14 2oo milioni (fino ieri senza “mission” precisa) a disposizione dell’ente e altri 6-7oo nel biennio successivo. La prossima “stabilità” potrebbe rendere permanente questa misura facendo salire a quasi 3 miliardi nei prossimi tre anni la dote Inail spendibile per opere di pubblica utilità. 

Tornando alle partecipate, il rinvio del primo pacchetto sarebbe dovuto alla necessità di calibrare meglio con i Comuni l’operazione e di valutare tutte le soluzioni per scogliere il nodo del personale delle società oggetto di chiusura. «La parte municipalizzate sarà affrontata organicamente nella legge di stabilità», ha detto il sottosegretario alla presidenza, Graziano Delrio, confermando il rinvio delle prime misure preparate per lo Sblocca-Italia. La partita insomma resta complessa. Con i Comuni che vogliono dire la loro nell’affinamento del piano tracciato nelle scorse settimane dal commissario per la spending review, Carlo Cottarelli, e con i sindacati pronti a dare battaglia sulla questione del personale. Di qui la rinuncia all’operazione in due tappe. A questo punto nella “stabilità”, che prevederà i nuovi dispositivi per favorire le cessioni e gli accorpamenti delle partecipate non di pubblica utilità o pesantemente in perdita, confluiranno anche le misure messe a punto per il Dl varato ieri.

Con la legge di stabilità dovrebbe anche diventare permanente il meccanismo che lo Sblocca-Italia al momento attiva in via temporanea per destinare una fetta consistente della dote a disposizione dell’Inail per gli investimenti immobiliari al completamento di interventi di pubblica utilità. Si tratterebbe di circa 900 milioni ricavati dagli oltre 1,3 miliardi di risorse per il triennio 2014-2016 solo già in parte programmate dall’Inail per interventi immobiliari. Risorse già disponibili che, se non venissero subito impiegate, rischierebbero di restare senza destinazione. Con il Dl sono subito impiegabili 200 milioni nel 2014 non per la realizzazione di grandi opere ma per un’ampia gamma di interventi di pubblica utilità: dagli ospedali alle scuole. A individuare le opere da finanziare prioritariamente con urgenza con la dote Inail sara un apposito Dpcm. Questo intervento potrebbe essere esteso nel tempo dalla “stabilità” anche tenendo conto dei fondi per interventi immobiliari previsti dal piano triennale Inail 2o15-2017. Tra l’altro dal 2015 l’Inail non dovrebbe più destinare parte degli investimenti indiretti a operazioni per immobili pubblici tramite Invimit, la società del Tesoro, alla quale nel 2014 sono stati “girati” oltre 1,3 miliardi.