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Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Carlo Lottieri

Entro questa Europa che sta avvitandosi su se stessa, l’unica vera strategia può consistere nell’allargare gli spazi di libertà. Solo una fuoriuscita dal mito dallo Stato e, di conseguenza, dall’interventismo pubblico può ridare una chance alle popolazioni europee. E in questo senso, una spinta nella direzione giusta potrebbe venire dal TTIP, ossia da quel “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti) che dovrebbe unificare le economie di Stati Uniti ed Europa.
De negoziati in atti, però, si parla assai poco e questo in promo luogo perché ben pochi credono che ampliare gli scambi sia un atto di civiltà e una scelta che favorisce la prosperità. In questo senso dovremmo imparare da chi, negli ultimi decenni (per giunta partendo da una situazione ben peggiore della nostra), ha saputo imboccare la strada giusta. Al riguardo può essere molto utile quanto scrissero Ning Wang e Ronald Coase – quest’ultimo scomparso lo scorso anno – in uno straordinario volume (il libro è stato tradotto in italiano da IBL Libri) volto a spiegare come e perché la Cina sia riuscita a diventare un Paese capitalista. Com’è successo che uno dei Paesi più statici, piegati dallo statalismo e distrutto da progetti folli quali la Rivoluzione Culturale e il Grande Balzo in Avanti abbia saputo mettersi sui giusti binari, tanto da crescere al ritmo del 10% all’anno? Mentre Europa e Nord America vanno perdendo sempre più dinamismo, com’è possibile che la Cina abbia invece imboccato la strada opposta?
Wang e Coase insistono su vari punti, ma in particolare su due. In primo luogo, essi sottolineano il carattere altamente decentrato della Cina, che è un autentico continente e che nel corso dei secoli non è mai stato gestito direttamente da Pechino, poiché nessun regime ha mai preteso tanto. Per giunta, lo stesso Mao evitò ogni dirigismo economico sovietico (basato su piani economici quinquennali) perché riteneva che una struttura di quel tipo avrebbe rafforzato i luogotenenti politici e avrebbe quindi rappresentato un pericolo per la sua leadership. Avere tanti capetti di livello locale era probabilmente meglio che non dotarsi di una tecnostruttura che disponeva dell’economia cinese.
Mao non aveva alcuna delle preoccupazioni che gli studiosi liberali hanno di fronte alla al dirigismo, ma perseguendo in modo assai machiavellico i suoi calcoli bloccò ogni eccessiva concentrazione del potere economico in poche mani. L’altra questione su cui gli autori insistono è il ruolo che hanno avuto i cambiamenti “ai margini”. In definitiva la Cina collettivizzata da Mao si è trovata a dover affrontare una povertà terribile e una disoccupazione di grandi dimensioni. In questo quadro drammatico e, spesso, a migliaia di chilometri dalla capitale, in varie circostanze quella che ebbe luogo fu una privatizzazione di fatto dei terreni che produsse ottimi risultati e poi venne presentata dal regime come l’effetto di una scelta strategia.
Anche nelle città, la nascita di imprese private ebbe luogo nell’illegalità. Non solo il regime comunista non organizzò in alcun modo i primi passi del sistema privato, ma neppure creò un quadro giuridico che favorisse tutto questo. L’afflusso nelle città di masse di disoccupati obbligò però molti ad arrangiarsi: e anche stavolta il Pcc si attribuirà i buoni risultati conseguenti. Il regime subì i cambiamenti, anche se ebbe la furbizia di non ostacolarli una volta che le cose ebbero avuto luogo e, anzi, si attribuì le trasformazioni quali effetti di decisioni “lungimiranti”.
Spesso s’insiste sul pragmatismo di cui diedero prova i comunisti cinesi e, in particolare, Deng Xia-ping, cui poco interessava se fosse meglio adottare Stato o mercato, perché l’importante era che l’economia crescesse. Questo è cruciale per capire l’apertura al mercato della Cina, ma anche Deng avrebbe potuto fare ben poco se – lontano dai centri potere – non ci fosse stata la coraggiosa iniziativa di chi ha osato, sfidando i pregiudizi e gli interessi consolidati. E oggi la partita cinese è assai più aperta – anche sotto il profilo politico – proprio grazie all’espansione di imprese che sfidano il mercato invece che rispondere a esigenze politiche.
Non lo si dice quasi mai, ma l’esperienza cinese è soprattutto quella di un potere che, un po’ alla volta, si è ridimensionato e ha finito per perdere il monopolio sulla società. Oggi – nonostante i molti problemi che persistono: dal partito unico alla situazione tibetana – la libertà individuale in Cina è assai più rispettata e il potere meno ramificato, perché le forze del mercato hanno creato spazi di autonomia e sparigliato le carte.
Se il coraggio d’intraprendere ha condotto entro un ordine capitalistico pure la Cina del marxismo in salsa maoista, perché non dovrebbe poter succedere lo stesso anche nella nostra Europa dominata da iper-regolamentazione, tassazione e redistribuzione? E se l’apertura del mercato cinese ha tanto aiutato quella società, perché mai questo non dovrebbe succedere anche sulle due coste dell’Atlantico?
I tecnici accusano: manovra colabrodo

I tecnici accusano: manovra colabrodo

Franco Bechis – Libero

Finanza creativa come ai bei vecchi tempi e cifre appese in aria a modelli teorici inventati lì per lì. Dalla proroga dello sconto degli 80 euro alla riduzione dell’Irap, dal Tfr in busta paga alla lotta all’evasione, fino ai rischi notevoli contenuti nelle norme sulla tesoreria unica che coinvolgono la Cassa depositi e prestiti, la manovra di Matteo Renzi sembra con i piedi di argilla come raramente è avvenuto negli ultimi anni.

Come era accaduto qualche mese fa con altri provvedimenti economici, i tecnici del Servizio bilancio del Parlamento l’hanno passata incontro luce segnalando numerosi rischi e altrettante incongruenze che potrebbero fare ballare per cifre anche notevoli i conti dello Stato. Allora furono i tecnici del Senato, che per questo loro prezioso lavoro istituzionale furono pubblicamente sbeffeggiati dallo stesso Renzi, poi difesi (non proprio vibratamente) dal presidente del Senato, Piero Grasso. Ora è meglio che si prepari a incrociare la spada Laura Boldrini, perché a fare pezzi la legge di stabilità sono i tecnici del servizio Bilancio della Camera. Ecco come nelle principali voci.

80 euro
Prima osservazione: le simulazioni su cui si basano gli effetti di finanza pubblica del bonus da 80 euro si basano su modelli abbastanza di fantasia. E curiosamente – nonostante la norma identica – divergono non poco dalla relazione tecnica del decreto dell’aprile scorso che concedeva la stessa agevolazione. Attenzione però, perché «la microsimulazione è effettuata con riferimento ai redditi 2012, estrapolati al 2015», avvertono i tecnici della Boldrini, perché da allora a oggi molti possono essere usciti dalla platea dei beneficiari ed altri esservi entrati. Bisogna però sapere quanti sono entrati e quanti sono usciti per fare bene i calcoli.

Sconti Irap
Anche qui il modello di riferimento viene ritenuto piuttosto fantasioso e un po’ improvvisato. I tecnici sono tali e non segnalano temi politici come fa la stampa. Lì si è evidenziata la beffa dello sconto Irap che non c’è, perché retroattivamente vengono tolte le riduzioni di aliquote stabilite proprio con il decreto 80 euro. Una presa in giro delle imprese, però fatto alla carlona come tutte le cose di questo esecutivo. Segnalano i tecnici: «l’abrogazione dell’art. 2 del DL n. 66/2014, che aveva disposto la riduzione delle aliquote IRAP, non determina in via automatica il ripristino delle precedenti maggiori aliquote in base alle quali la relazione tecnica ha quantificato gli effetti positivi di gettito». Detto fra noi:meglio così. L’aumento delle aliquote può essere impugnato dalle imprese, perché la norma è fatta male.

Tfr in busta paga
Non costa niente alle imprese, diceva il governo. Bugia: la relazione tecnica inserisce nuove entrate per il fisco. Come? «Le maggiori entrate sembrerebbero infatti derivare dall’aumento per le aziende interessate degli sgravi contributivi previsti, cui dovrebbero tuttavia corrispondere minori deduzioni fiscali».

Ammortizzatori sociali
Qui c’è un fondo fantasma, perché viene legato al Jobs act, bandiera di Renzi che al momento non c’è. Con la finanza pubblica però non si può giocare: «le disposizioni in esame istituiscono un Fondo di finanziamento per l’attuazione delle modifiche in materia di lavoro e di ammortizzatori sociali, che verranno definite a seguito dell’adozione dei decreti di attuazione all’apposita legge di delega,già approvata dal Senato e attualmente all’esame presso la Camera dei deputati. In proposito non risulta possibile procedere a una verifica di tali effetti non essendo allo stato definita la nuova disciplina relativa alle materie oggetto di delega».

Sistema tesoreria unico
È forse il tema più delicato dell’intera manovra, ed è quello di cui si è parlato meno. I compiti che vengono girati alla Cassa depositi e prestiti hanno un rischio enorme: quello che venga consolidata anche quell’area nei conti dello Stato. Con un’esplosione del debito pubblico: «In merito al trasferimento del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato presso la Cassa depositi e prestiti», scrivono i tecnici della Boldrini, «andrebbe espressamente escluso che tale operazione possa determinare un rischio di inclusione della Cassa nel perimetro della p.a. con conseguenti effetti negativi sui saldi di finanza pubblica e sul debito».

Evasione fiscale
Anche qui le norme sembrano scritte da principianti. Si prevedono entrate massicce su simulazioni vecchie e fatte su settori che nulla c’entrano con i provvedimenti. E attenzione: «occorrerebbe acquisire elementi volti a verificare che il maggior gettito imputato alle disposizioni in esame abbia effettivamente carattere aggiuntivo rispetto a quello ascritto a provvedimenti di contrasto all’evasione già adottati».

Il copione di sempre, sperando nella riforma

Il copione di sempre, sperando nella riforma

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Il 2014 si chiuderà con il consueto ingorgo di scadenze e versamenti fiscali. Tutti aspettano il “nuovo fisco”, quello della riforma che non arriva, e trovano invece il copione di sempre. Le cronache della scorsa settimana raccontano di un’importante riunione, a Palazzo Chigi, per accelerare l’attuazione della delega fiscale. In effetti, solo tre provvedimenti sono arrivati al traguardo: si tratta dei decreti legislativi su semplificazioni, catasto e tabacchi. Per il resto, la delega fiscale marcia davvero a rilento. Con qualche preoccupazione: mancano meno di 140 giorni alla scadenza del termine per l’emanazione dei decreti legislativi di riordino. In effetti, sembra che alcuni provvedimenti siano in rampa di lancio, in particolare quello sull’abuso del diritto potrebbe arrivare entro fine mese, ma sul resto la strada resta molto lunga.

A complicare il quadro si è aggiunto il fatto che il Governo ha scelto di “trasferire” all’interno del Ddl di Stabilità una parte molto attesa della delega quale è il riordino dei regimi fiscali. In realtà, il cambio di contenitore rischia di mortificare le aspettative che la delega aveva generato, se non altro perché all’idea di un riordino complessivo dei regimi fiscali, da completare con l’introduzione della nuova imposta – Iri – per la tassazione delle persone fisiche che svolgono attività di impresa, si sostituisce la sola riforma del regime dei contribuenti minimi (tra l’”altro, con qualche perplessità sulla reale convenienza del nuovo regime per alcune tipologie di contribuenti, come i professionisti).

Insomma, il tempo stringe. Ed è sotto gli occhi di tutti il fatto che sia quanto mai urgente una scossa tale da consentire la completa attuazione della delega fiscale. Sulle semplificazioni, ad esempio, il primo decreto approvato contiene, con poche eccezioni, le stesse misure già promesse due anni fa. Ma molto di più si può e si deve fare. D’accordo, arriverà la dichiarazione precompilata (una domanda: sarà davvero utile o saranno solo nuove complicazioni?). Eppure, guardando il calendario da qui a fine anno, con questa serie infinita di adempimenti e scadenze, non era difficile capire che anche qui c’è un gran lavoro ancora tutto da fare.

Soltanto dal lavoro verrà la ripresa

Soltanto dal lavoro verrà la ripresa

Marco Fortis – Il Sole 24 Ore

L’Italia aspetta invano la ripresa da oltre due anni. Immancabilmente ogni trimestre è sembrato essere quello buono per la ripartenza ma le previsioni sono state sempre brutalmente smentite. Il Pil ha continuato a calare, affondato da consumi e investimenti, e fatica a ripartire. La principale ragione di ciò è che l’economia non invertirà la tendenza negativa fintanto che l’occupazione non ricomincerà a crescere. Allora, con la fine dell’agonia del mercato interno, ci sarà la svolta.

Da ottobre 2008 ad aprile 2014 gli occupati, secondo le serie destagionalizzate dell’Istat, sono diminuiti di oltre 1 milione e 100mila unità. Metà dei posti di lavoro persi hanno riguardato i giovani dai 15 ai 24 anni. Ma da aprile a settembre di quest’anno forse le cose stanno finalmente cambiando. Gli occupati totali sono cresciuti di 153mila unità, 82mila dei quali soltanto nell’ultimo mese, dopo la ripresa dalle ferie. Inoltre, la caduta degli occupati tra i giovani sembra essersi fermata.

Che cosa sta succedendo? Valutazioni più precise saranno possibili soltanto tra alcuni giorni quando l’Ista pubblicherà i dati trimestrali sull’occupazione aggiornati a settembre, con un elevato grado di dettaglio sia per macro-settori sia per macroaree geografiche. Per intanto, disponiamo delle rilevazioni Istat relative al secondo trimestre di quest’anno, che già indicavano linee di tendenza piuttosto chiare. Infatti, considerando le variazioni tendenziali, nel secondo trimestre 2014 si rilevava una crescita di 124mila addetti nell’industria in senso stretto rispetto al secondo trimestre 2013 e una crescita di 15mila addetti nell’agricoltura nello stesso periodo. Presentavano invece ancora cali tendenziali significativi i servizi (-92mila addetti) e le costruzioni (-61mila addetti). Se poi analizziamo le statistiche per aree geografiche, notiamo che nel secondo trimestre 2014 il Nord presentava già una modesta crescita degli occupati totali rispetto al secondo trimestre 2013 (+36mila), così come il Centro (+40mila), mentre risultava an cora in forte calo il Mezzogiorno (-90mila).

Da questi dati appare chiaro che l’occupazione italiana non si smuoverà stabilmente dal fossato in cui è sprofondata durante la crisi se non ricominceranno ad aumentare a livello nazionale gli addetti nei servizi e nelle costruzioni, o almeno in uno dei due comparti (fermo restando che industria e agricoltura mantengano i precedenti recuperi). A livello geografico serve invece che riparta l’occupazione nel Mezzogiorno, altrimenti il dato nazionale resterà zavorrato a dispetto dei miglioramenti nel Nord e nel Centro. Incrociando i segnali disaggregati dei dati trimestrali sull’occupazione italiana, fermi per ora a giugno con quelli mensili aggiornati a settembre, possiamo dedurre che qualcosa di positivo sta effettivamente accadendo. E cioè che dopo l’industria e l’agricoltura qualche altro macro-settore (i servizi? le costruzioni?) probabilmente si è ripreso nel terzo trimestre di quest’anno e che forse l’emorragia di posti di lavoro nel Mezzogiorno si è arrestata o è, quantomeno, diminuita.

Se queste impressioni dovessero essere convalidate dalle prossime rilevazioni trimestrali dell’Istat sull’occupazione aggiornate al terzo trimestre 2014, ne risulterà che finalmente l’attesa svolta dell’economia italiana è cominciata. A quel punto l’ attenzione si sposterà sui mesi a cavallo tra la fine di quest’anno e l’inizio dell’anno prossimo. Cruciale sarà il miglioramento del clima di fiducia di famiglie e imprese (con la stabilizzazione degli 80 euro in busta paga, il taglio della componente lavoro dell’Irap e gli incentivi fiscali sulle nuove assunzioni). E non secondario risulterà il prevedibile impatto positivo sul quarto trimestre 2014 e sul primo trimestre del 2015 degli investimenti in macchinari favoriti dalla nuova legge Sabatini. Se tutti gli ingranaggi fin qui inceppati (lavoro, consumi e investimenti) ricominceranno a muoversi nel modo giusto, forse il motore del nostro Pil riuscirà finalmente a scaricare un po’ di potenza sul circuito ad handicap della

Bertelli, la Camusso della moda

Bertelli, la Camusso della moda

Gaetano Pedullà – La Notizia

Patrizio Bertelli è da ieri la Camusso della moda. Non che si sentisse bisogno di nuovi sindacalisti, ma il personaggio più noto al pubblico come Mr. Prada (dal cognome della moglie, la stilista Miuccia) non ha resistito a bombardare la giornalista Gabanelli. L’inchiesta sulle oche spennate vive per produrre a due euro i piumini Moncler ha messo in agitazione i padroni delle griffe. E dopo essersi morso la lingua per dieci giorni alla fine Bertelli è scoppiato. Il servizio di Report – ha detto – è la dimostrazione della stupidità umana. Ora, premesso che informare i cittadini fa cultura (come la moda, d’altronde), l’imprenditore diventato ricchissimo con il marchio di famiglia (e molta finanza) si è preso una sacrosanta bastonata dalla stessa Gabanelli. Mr. Prada è infatti indagato per un’elusione fiscale da mezzo miliardo. Naturale che sia un signore che non ami certa pubblicità, preferendo acquistarne per milioni sui giornali, così da promuovere il brand e – mentre ci siamo – far dimenticare le sue pendenze tributarie. La moda è una cosa seria, ma certa arroganza non è di moda. E l’informazione – quella vera – non è pubblicità che si compra come una borsetta.

Ue e conti pubblici, cosa rischia l’Italia

Ue e conti pubblici, cosa rischia l’Italia

Oscar Giannino – Il Mattino

Si chiama Excessive Imbalance Procedure, procedura contro gli squilibri eccessivi, ed è il rischio che concretamente corre l’Italia di Renzi. Si era capito già all’esordio del neo presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker, quando ruvidamente aveva risposto a Renzi «io non sono a capo di una banda di burocrati, forse lui sì». In Italia ormai va di moda sui media e nei dibattiti pubblici ostentare indifferenza e battutacce all’Europa e alle sue richieste, considerate da tanti assurde, o addirittura braccio armato di una Germania da Quarto Reich. In realtà, da anni siamo noi italiani a prendere in giro noi stessi – visto quel che paghiamo, sempre di più – ed è un abile gioco di ruolo dei politici farci credere chela colpa sia degli altri. Vediamo perché, in tre punti.

È una sorpresa, la nuova richiesta europea? No, non lo è affatto, a meno di fare i fìnti tonti. Renzi è bravo a giocare sul tavolo della comunicazione, ma sui numeri meglio stare attenti. La Commissione Europea aveva chiesto già al governo Letta una correzione pari allo 0,2 prima e poi allo 0,4% di Pil della manovra per il 2014, e l’Italia ha fatto finta di non sentire. La Commissione ce l’ha richiesto quando il governo Renzi ha approvato il Def di aprile. E l’Italia ha fatto finta di non sentire. I mesi son passati senza corposi interventi sulla spesa pubblica (ricordate che il bonus 80 euro è un aumento di spesa da quasi 10 miliardi, non un taglio alle tasse).

Il ministro dell’Economia Padoan nel corso dell’estate ha maturato un’idea alla quale ancorare la giustificazione del rinvio degli impegni italiani: la contestazione del metodo con cui la Commissione Ue valuta il Pil potenziale. Maggiore è la diminuzione, peggio è persino rispetto alla recessione del Pil reale, perché significa che si faticherà di più a riprendere il sentiero della crescita. Un’idea forse giusta. Che però doveva essere messa apertamente al centro del confronto sul tavolo europeo, presentandola a maggio-giugno alla vecchia Commissione Barroso. Invece no, l’Italia ha fatto la furba, ha tirato fuori questa sua autogiustificazione solo con la nota di aggiornamento del Def di aprile, approvata lo scorso 30 settembre. Ed è a quella nota, e a questa maniera tutta italiana di fingersi vittime dell’incomprensione altrui e di inventarsi da soli un criterio che non è stato prima condiviso con altri, che la vecchia Commissione Barroso e la nuova Juncker reagiscono dicendo «non ci siamo». Ora restiamo in attesa dell’esame che la Commissione sta facendo della legge di stabilità in quanto tale, e il responso è atteso per il prossimo 24 novembre.

Che cosa rischiamo? Non una procedura d’infrazione vera e propria, quella che scatterebbe con un avviso a modificare la legge di stabilità, che se non fosse ascoltato potrebbe tradursi in una vera e propria messa in mora con tanto di accantonamento di una sanzione pari fino allo 0,5% del Pil, deposito infruttifero che entro un biennio potrebbe andare perduto se il paese in violazione persistesse nel far orecchio da mercante. La procedura contro gli squilibri eccessivi si riferisce ai rischi sistemici che dalle condizioni di un paese europeo possono venire a tutti gli altri. Noi abbiamo semplicemente troppo debito pubblico per giocare col fuoco.

Da una parte insieme alla Germania siamo il paese in cui i contribuenti, troppo proni al volere della politica, hanno fatto il maggior sforzo europeo, pagando di tasca propria avanzi primari superiori all’equivalente attuale di 600 miliardi dal 1992 a oggi. Dall’altra però la politica ha accelerato fino a pochissimo tempo fa sulla spesa pubblica, e il debito sale, sale, continua a salire anche adesso che l’Italia rinvia al 2016-2018 il più dello sforzo necessario a farne iniziare la discesa. E quando si dice il più dello sforzo, si tratta della bellezza di 30 miliardi di nuove entrate aggiuntive. Che questo governo prevede come clausola di salvaguardia negli anni 2016-2018, con l’aumento delle accise e dell’IVA fino al 25%.

La Commissione fin qui non ha aggiornato le stime dell’ulteriore saldo pubblico migliorato che potrebbe chiederci (dopo i 6 miliardi che il governo ha già dovuto modificare di minor deficit, rispetto alla prima versione della legge di stabilità), anche se è facile fare il conto. Col criterio del Pil potenziale europeo, invece di quello autoctono forgiato al Tesoro, ci potrebbero chiedere quasi un punto di Pil di nuove tasse o tagli di spesa, per il 2015. Non avverrà. Il punto è un altro. La Commissione fa osservazioni puntute proprio sulla richiesta venuta da Renzi. È stato il premier italiano a dire sin dall’inizio del suo governo: cara Europa, io mi impegno su riforme energiche, e in cambio di queste, che produrranno stabili miglioramenti della crescita potenziale prima e di quella reale poi, tu fammi uno sconto. Bruxelles e Berlino, a differenza di quanto scrivono molti ciechi, hanno sposato tale richiesta. Solo che la Commissione osserva che le tante riforme annunciate stentano, quella sul lavoro dalla legge delega senza ancora decreti delegati non si capisce che cosa sarà davvero. Il Semplifica-Italia del 2012 non è ancora attuato. Le privatizzazioni promesse semplicemente non ci sono state, anzi sia in Poste che in Ferrovie la partita è molto più complessa di quanto il governo avesse detto all’inizio. Fatevi una domanda. Sono fatti, o ha torto la Commissione?

Alternative possibili? Il punto non sono i 3-5 miliardi ulteriori che la Commissione potrebbe chiedere il 24 novembre, e che il governo non è affatto detto – come già avvenne con Letta – che decida di accettare. Le instabilità italiane – in Europa non piace neanche un po’ la fibrillazione evidente all’annuncio ufficioso delle dimissioni di Napolitano senza accordo sulla riforma elettorale, il rischio di nuove elezioni anticipate nel caos – si riaccendono in un quadro internazionale oscurato dall’irritazione della Russia, in recessione per le sanzioni relative alla vicenda ucraina e col rublo a picco insieme alle entrate energetiche col petrolio sotto gli 80 dollari. E poi dalla crisi mediorientale e dal rallentamento di Cina e Brasile. Il termometro è l’esposizione delle banche tedesche verso l’Italia, ferma allo stesso dato – 125 miliardi – della primavera 2012: nessun segno di ripresa di fiducia verso l’Italia.

Inutile girarci intorno: c’è solo da sperare che la politica non tiri troppo la corda. Altrimenti sappiatelo: quei 30 miliardi di nuove entrate che la politica rinvia al 2016-2018, inizieranno a manifestarsi anzitempo. Sarebbe una mazzata veramente esiziale. Ma guardate che tra local tax sicuramente al di sopra dei 31,2 miliardi oggi previsti sommando tutte le imposte esistenti sul mattone, e nuovo catasto in teoria assicurato a parità di gettito ma che i tecnici privati di settore stimano con aumenti molto considerevoli, già oggi la presunta e popolare rivolta contro le regole europee si presenta nascondendo dietro la schiena una marea di nuove tasse. Né la differenza la può fare san Mario Draghi. Certo, possiamo sempre credere di spaventare l’Europa e la Germania minacciando lo sfracello dell’euro. Che è come credere di far paura ad altri facendoci scoppiare una bomba atomica sulla testa.

Patrimoniali nascoste sulla casa

Patrimoniali nascoste sulla casa

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

A pensarci bene, è un bersaglio molto facile da centrare. Non può muoversi, non può cambiare Paese, non può rifugiarsi in un paradiso fiscale. Stiamo parlando della casa. Forse è per questo che il Fisco negli ultimi anni l’ha presa di mira. Quasi tutti gli esecutivi che si sono succeduti hanno puntato sugli immobili per aumentare il gettito statale e locale. Così è avvenuto con il passaggio dall’Ici all’Imu. Poi, una mini tregua, con l’esonero per le abitazioni principali. Ma il risparmio è stato in parte (se non completamente) compensato dall’arrivo della Tasi, la tassa sui servizi. Il tutto in un continuo cambiamento di norme, regole e scadenze che hanno disorientato i contributi. E l’incertezza sulle tasse da pagare è il nemico peggiore per un Paese che deve ritrovare soprattutto fiducia.

Speriamo che questo copione non si ripeta con l’operazione avviata in questi giorni. Vale a dire la nomina delle commissioni censuarie, primo passo perla Grande riforma (incompiuta) del sistema tributario: quella del Catasto. Il valore delle case non verrà più determinato in base alle rendite, ma con un mix tra superficie e valori di mercato. E, nell’epoca dei Big Data, anche il Fisco si convertirà agli algoritmi perché userà proprio un algoritmo per elaborare valutazioni corrette. Speriamo sia una formula efficiente come quella che ha fatto la fortuna di Google e Facebook. Rivedere il valore degli immobili è una decisione giusta, perché le attuali valutazioni non corrispondono alla realtà e, soprattutto, sono sperequate. I centri cittadini sono pieni di immobili di pregio che, per i ritardi del Catasto, continuano a pagare le tasse come beni di poco pregio. Mentre i bilocali nuovi nelle periferie hanno valutazioni vicine a quelle di mercato. E tasse altrettanto elevate.

La riforma del Catasto deve essere improntata all’equità e non diventare l’ennesima occasione per battere cassa. Secondo alcune stime i rincari, senza correttivi, arriverebbero anche al 200%. È vero che viene prevista una clausola di salvaguardia, ma solo a livello comunale. Spesso quando si decide di tassare le ricchezze, invece di colpire evasori e grandi patrimoni immobiliari si è finito per pesare soprattutto su chi possiede una sola abitazione, quella in cui vive, e sulla quale magari paga anche il mutuo. Sugli immobili gravano già oggi due/tre patrimoniali mascherate. Non aggiungiamoci anche quella del nuovo Catasto. Ricordiamo che le case a chi ci abita non danno reddito. Mentre il Fisco il reddito dalle case lo pretende. Eccome. Ogni anno. E in denaro contante.

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Il Tempo

Lo Stato paga i debiti vecchi ma non quelli nuovi. Con il risultato che lo stock di fatture non saldate ai fornitori è rimasto pressocché invariato. A spiegare che il vizietto dei pagamenti lunghi è rimasto una consuetudine nella pubblica amministrazione è il Centro Studi “ImpresaLavoro”. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.

«Nel caso concreto – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa». Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta. Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi. E le imprese che non ricevono il loro saldo in tempo sono costrette ad andare in banca e a pagare 6 miliardi in più complessivamente di interessi.

Gettito casa

Gettito casa

Davide Giacalone – Libero

Ci sono le premesse per una nuova tregenda fiscale sulla casa. Solo che i demoni tributari non si danno convegno di notte, come quando ancora si celavano, ma sfilano in pieno giorno, esibendosi e pretendendo di passare per giulive innovazioni. Nella riforma del catasto trovo un concetto, quello dell’“invarianza di gettito”, che tradisce presenze stregonesche.

Il catasto è vecchio e va riformato. Giusto. I valori catastali vanno aggiornati e portati verso quelli di mercato. Bene. Il governo, con un decreto legislativo, ha varato la riforma, subito rilanciata dai giornali. No, questo è esagerato: ha riattivato le commissioni censuarie, che ci vorrà molto tempo perché si compongano e inizino a lavorare (uno o due anni), e ancor di più perché finiscano di censire e valutare (cinque anni). Il tempo per correggere gli errori c’è, dunque. Il rischio è che aumentando le rendite catastali si possano raddoppiare e triplicare le tasse sulla casa facendo finta di lasciarle invariate. Perché cresce la base imponibile. L’antidoto a questa macumba dovrebbe essere l’invarianza di gettito, prevista nella legge. Ma non mi convince. Per due ragioni.

La prima è che se i valori fiscalizzati tendono a seguire quelli di mercato non si vede perché si debba stabilire l’invarianza, laddove, invece, il gettito fiscale dovrebbe diminuire al decrescere del valore di mercato di un immobile. Se non varia il gettito non si capisce perché far variare il valore. È bene che si voglia evitare il rischio prima ricordato, del raddoppio e della triplicazione, ma allora si deve scrivere che il gettito non deve crescere, non che deve restare fisso.

La seconda ragione per cui non mi convince è che due sono i tratti distintivi della riforma: a. l’imposizione sarà (almeno in parte) stabilita dai Comuni; b. la rivalutazione degli estimi porterà alcuni a pagare di più, ma altri a pagare di meno. Domanda: se le aliquote vengono fissate da 8.000 comuni e se sappiamo in partenza che ciascuno potrà vedere cambiare quel che deve al fisco, come si fa a sapere prima che il gettito sarà invariato? Risposta: non si può, è impossibile. Lo sapremo solo dopo, a tasse esatte. Ma siccome esiste un preciso vincolo di legge, che sarà quasi impossibile non violare, ciò metterà in moto la più rodata macchina nazionale, quella del ricorso: i singoli proprietari di casa potranno attivarsi, in autotutela, contestando le nuove rendite presso gli uffici delle entrate, salvo, ove si sentano dare torto, fare ricorso alle commissioni tributarie, e senza escludere il ricorso al Tar, per gli aspetti di legittimità. Se parte un tale inferno altro che cinque, ci metteremo cinquanta anni, per venirne a capo.

Sarebbe saggio dribblare fin da subito l’accusa di volontaria e consapevole violazione della legge, da parte dello stesso Stato che la emana, stabilendo che potendo sapere solo l’anno successivo se il gettito è cresciuto, l’eccedenza sarà restituita, per quota parte, a tutti quei contribuenti che si sono trovati a pagare più dell’anno precedente. Anzi: autorizzandoli a calcolare la differenza e detrarla dai tributi futuri. Questo sempre che si stia giocano un’onesta partita di riforma del catasto e non una disonesta trappola per spremere più soldi dalle case. Anche perché rappresentano la grande parte del patrimonio degli italiani, il cui valore ci rende esemplari nel rapporto con l’indebitamento aggregato (pubblico più privato). Continuare a farlo scendere, mediante fisco mefistofelico, è da sciocchi, ma assatanati di liquidi altrui.