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Pubblica amministrazione, i debiti non si sono ridotti

Pubblica amministrazione, i debiti non si sono ridotti

Sergio Patti – La Notizia

La pubblica amministrazione non sta affatto riducendo i suoi debiti con le imprese creditrici. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Dunque, limitarsi a liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce lo stock complessivo dei debiti: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.

«Nel caso concreto – osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa».

Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. «Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta» è la conclusione di Blasoni. «Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi circa e che l’intervento del governo, pur meritorio, è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse ulteriormente».

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

Claudio Antonelli – Libero

Il sistema di sussidi a chi è rimasto senza lavoro dal punto di vista finanziario non sta più in piedi. Già nel 2010 a lanciare l’allarme è stato il ministero delle Finanze. Nel frattempo anche le novità avviate sotto la competenza di Elsa Fornero non hanno invertito il trend. Nel periodo 2007-2013 la spesa complessiva per il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è cresciuta in modo rilevante, passando dai 7,9 miliardi complessivi per cassa integrazione guadagni, mobilità e disoccupazione del 2007 ai 23,6 miliardi del 2013, importo che comprende anche le nuove misure introdotte dalla riforma Fornero come le ASPI e mini-ASPI.

Ad analizzare nel dettaglio i numeri dell’intero comparto dei sostegni è stato il Centro Studi ImpresaLavoro, ideato dall’imprenditore del Nord-est Massimo Blasoni. Ne risulta che «la spesa per ammortizzatori sociali è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi)», si legge nello studio. «Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo». Ovviamente fino al 2007 nessuno si è posto il dubbio. Tanto meno si è messo al lavoro per riformare il sistema. D’altronde le uscite eccedenti vanno a carico della fiscalità generale e nel 2007 erano una cifra pari a zero: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013. E nel triennio precedente la cifra complessiva è arrivata a 38,1 miliardi. La cifra pesa sull’intera comunità, mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono a un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori).

E per di più – si evince dallo studio – non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Senza dimenticare che la rigidità dei contributi ha un effetto deleterio sul mondo del lavoro. Basta pensare che l’Aspi non vincola il disoccupato ad accettare altri posti su scala nazionale.

È fuga dei giovani dalla campagna: under 35 solo il 5% degli agricoltori

È fuga dei giovani dalla campagna: under 35 solo il 5% degli agricoltori

Jenner Meletti – La Repubblica

Sembrava che tutto stesse cambiando, nei nostri campi. Giovani laureati, armati di zappa e computer, impegnati in aziende capaci di rilanciare il Made in Italy. Vendita diretta dal coltivatore al consumatore, mercati dove il contadino porta frutta e verdura e mette la sua faccia. Una ricerca di Nomisma – curata da Denis Pantini e Massimo Spigola – racconta invece che la nostra agricoltura non è un mestiere per giovani (tranne rare eccezioni) e che dalle campagne è in corso una vera e propria fuga. Con un rischio pesante: che la terra diventi ancor più un bene rifugio per chi già possiede ricchezza e non risorsa per chi, nelle campagne, potrebbe trovare un futuro per sé e per il Paese.

Dal 2008 al 2013 – questi i primi dati della ricerca che sarà presentata oggi alla fiera di Bologna a cura dell’Informatore Agrario – gli occupati in agricoltura sono calati del 6% mentre i giovani con meno di 24 anni sono diminuiti del 15%. Alzando l’asta ai 35 anni, si scopre che i giovani agricoltori sono 82.000, il 5,1% del totale.Quelli che invece superano i 65 anni – età in cui negli altri settori si va in pensione – sono 603.390, pari al 37,2%. Diversa la situazione in altri Paesi europei, nostri diretti concorrenti. In Spagna gli under 35 sono il 5,3, in Germania il 7,1, in Francia l’8,7. Ancor più netta la differenza se si guarda al peso degli anziani. Gli over 65 sono appena il 12% in Francia e il 5,3% in Germania. Nelle campagne italiane la «rigenerazione» diventa difficile. Sono al lavoro infatti 14 giovani ogni 100 anziani. In Francia gli under 35 sono 73 ogni 100 anziani, in Germania arrivano addirittura al 134%.

Non è soltanto una questione di età. «Oggi – spiega Denis Pantini di Nomisma – è difficile avviare un’attività davvero produttiva con meno di 20 ettari di buona terra. E invece la Sau – superficie agricola utilizzata – dei giovani agricoltori italiani è in media di 13,6 ettari, mentre in Germania è di 49 ettari e in Francia di 68,5. Anche la nostra dimensione economica è fra le più contenute, con un valore inferiore ai 55.000 euro di produzione standard, mentre in Francia è di 118 mila euro e in Germania di 130.000».

Qualcosa si muove, comunque. Nelle aziende italiane le attività remunerative oltre a quella agricola (ad esempio fattorie didattiche, produzione di energia rinnovabile…) sono pari al 4,7%, nelle aziende di chi ha meno di 40 anni arrivano al 46,4%. Con una disoccupazione giovanile al 42%, il lavoro nei campi potrebbe essere una soluzione. E invece l’attrazione è davvero bassa. Settore pubblico e libera professione sono ai primi posti. La «stabilità occupazionale» è il primo desiderio, con il 40,7%. «Possibilità di lavorare all’aria aperta» registra solo l’1,7%. E chi fra i giovani non coltivatori ha amici o parenti in agricoltura, associa a questo lavoro le parole «fatica e povertà». «Un’agricoltura in mano agli anziani – raccontano i curatori della ricerca – non si impegna negli investimenti e nell’innovazione e così perdiamo potenzialità proprio mentre il Made in Italy è richiesto in tutto il mondo».

Legge concorrenza ancora in stand by: le lobby frenano

Legge concorrenza ancora in stand by: le lobby frenano

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Una legge attesa dal 2009 è ancora ferma ai box. Per la presentazione del provvedimento annuale sulla concorrenza, un obbligo che ricade sul governo fin dalla legge sviluppo 99/2009, non si possono presumere date senza rischiare di essere smentiti. Si sa di certo, però, che le lobby sono partite all’attacco già al solo comparire delle primissime bozze frutto del lavoro dei tecnici dei vari ministeri. Ormai da qualche mese un susseguirsi di dichiarazioni allarmate e proteste preventive arrivate ufficiosamente sui tavoli dell’esecutivo sta accompagnando silenziosamente – e probabilmente frenando – la stesura del disegno di legge. Gestori di carburanti, carrozzieri, avvocati, notai, farmacisti sono solo alcune delle categorie che potrebbero essere interessate dalla legge e le cui reazioni sono particolarmente considerate o in alcuni casi temute dall’esecutivo. Le bozze del testo, coordinato dal ministero dello Sviluppo economico, recepiscono molte delle indicazioni contenute nell’ultima relazione inviata dall’Antitrust a governo e Parlamento.

Messi insieme, se arrivassero al Consiglio dei ministri indenni di fronte alle pressioni delle lobby e superassero senza ripercussioni l’iter parlamentare, gli interventi di liberalizzazione dei mercati potrebbero rappresentare un pacchetto significativo perl a competitività favorendo anche l’afflusso di investimenti dall’estero. Nei giorni scorsi un gruppo di 9 senatori del Pd – il partito del premier – ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere una rapida redazione della legge, citando anche i richiami della Ue. In particolare, a giugno, nel documento di valutazione del Programma nazionale di riforma (Pnr) e del programma di stabilità 2014 dell’Italia, la Commissione europea, ricordando che il Pnr prevedeva l’adozione della legge annuale entro il settembre 2014, definiva il provvedimento «un importante passo avanti» che avrebbe messo «inoltre in moto un meccanismo positivo per il futuro».

Il lavoro tecnico procede. Ma per ora il governo sembra intenzionato a tenere un profilo basso, per non pubblicizzare troppo le misure e non accendere ulteriormente gli animi delle categorie interessate. Non si puo escludere dunque che, passata l’emergenza della legge di Stabilità, il disegno di legge venga varato a “sorpresa” da Palazzo Chigi. Sulla carta gli interventi esaminati, anche alla luce di segnalazioni di Authority diverse dall’Antitrust, coinvolgerebbero una ventina di settori. Ampio spazio viene dato all’Rc auto, con l’obiettivo di recuperare le norme di un precedente disegno di legge rimasto impantanato ma va fronteggiata l’opposizione dei carrozzieri alle nuove norme sui risarcimenti.I gestori dei carburanti frenano su misure per la liberalizzazione delle forme contrattuali che contrastino con il tavolo di lavoro avviato giada tempo con il ministero. Troppo «dirompente» poi, secondo ambienti di governo, l’idea pur valutata di trasformare l`attuale numero massimo di farmacie in numero minimo.

Delicatissimo anche il capitolo sulle professioni. Esaminato un pacchetto di ipotesi per aumentare la concorrenza tra i notai, anche con la previsione che ad ogni posto notarile corrisponda non «una popolazione di almeno 7mila abitanti» ma «una popolazione al massimo di 7mila abitanti». Ma l’esecutivo, nei documenti interni, non nasconde «la probabile opposizione dei notai», ipotizzando come alternativa un’autorizzazione agli avvocati perché svolgano compiti oggi riservati ai notai. Un altro tipo di considerazioni, invece, impatta sulla possibile deregulation nel settore postale (ad esempio con l’eliminazione della riserva postale sulle notifiche degli atti giudiziari). In questo caso, nelle valutazioni ministeriali, sono finiti i possibili «effetti e la compatibilità con l’operazione di privatizzazione» delle Poste.

Renzinomics, che triste fallimento

Renzinomics, che triste fallimento

Stefano Cingolani – Panorama

I dettagli, i dettagli: è lì che s’annida il diavolo. E Matteo Renzi, che i dettagli li lascia alle salmerie, una volta tanto avrebbe dovuto dare retta alla saggezza popolare. Perché a mano a mano che si leggono gli articoli, i commi e le note al margine della Legge di stabilità, vengono fuori le magagne. Il sondaggio esclusivo di Euromedia Research per Panorama mette in luce che i tre pilastri della manovra, il bonus di 80 euro, il Tir in busta paga e il Jobs act, si stanno rivelando inefficaci, se non proprio dei boomerang.

Osservatori e analisti di ogni scuola economica e fronte politico non fanno mancare i loro strali. C’è Tito Boeri. economista di sinistra, che parla di «manovra dimezzata» e punta il dito sugli effetti in busta paga della liquidazione anticipata, sui veri costi della decontribuzione per i nuovi assunti, sulla incerta natura dei risparmi di spesa comunque inferiori agli annunci governativi. Dalla minoranza del Pd si leva la voce di Stefano Fassina che sul Foglio giudica la manovra addirittura recessiva, in contrasto con il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan e con l’opinione della banca centrale. Ma le critiche più abrasive vengono da due voci non schierato: per Nicola Rossi, economista di scuola Bankitalia ed ex senatore Pd, si doveva e si poteva fare di più; è d’accordo anche Luca Ricolfi il quale ha scritto sulla Stampa che «la manovra del governo non è né buona né cattiva, ma è debole, molto debole». Valeva la pena di schiaffeggiare tutto e tutti per così poco?

L’effetto sulla crescita non solo è minimo, ma addirittura incerto. Secondo Moody’s l’anno prossimo l’economia potrebbe ristagnare; proprio la difficoltà di stimare la politica di bilancio suggerisce all’agenzia di rating un’ampia forchetta statistica: da meno 0,5 a più 0,5 per cento. In un caso o nell’altro siamo allo zero virgola, mentre il 2015 doveva essere l`anno in cui il prodotto interno lordo cresceva di oltre un punto. Niente sviluppo, niente posti di lavoro. Un’occupazione che sulla bocca di tutti è la priorità delle priorità, nei fatti aumenta dello 0,1 per cento secondo il governo, dello 0,2 per l’lstat. Ciò rende meno digeribile l’annunciato superamento dell’articolo 18 e dà alimento alla critica distruttiva della Fiom e della Cgil così cotne allo scontento crescente anche tra gli altri sindacati.

Il governo, del resto, non può nascondere che calano gli investimenti, compresi quelli pubblici, e ristagnano i consumi: gli 80 euro non vengono tenuti sotto il materasso ma spesi per far fronte alle necessità di base, per pagare le bollette e le imposte. E così arriviamo al cuore della politica fiscale. Nella sua audizione alla Camera, Federico Signorini, vicedirettore della Banca d’Italia, ha spiegato che gli 80 euro producono un vantaggio consistente sui redditi che superano di poco gli 8 mila euro annui. Qui, l’aliquota media effettiva si riduce addirittura di 12 punti. Ma il beneficio si riduce a mano a mano che si sale nella scala retributiva e diventa nullo, anzi leggermente negativo, per il lavoratore con un reddito pari alla media di contabilità nazionale (cioè 29.561 euro). Le imprese avranno altri sostegni come la riduzione dell’Irap (2,7 miliardi), un’imposta sostitutiva forfettaria del 15 per cento, il che potrebbe interessare fino a 1 milione di contribuenti, circa un quarto dei titolari.

Le ultime notizie dimostrano che non si tratta solo di impressioni. I piemontesi si preparano a una stangata di 73 miliardi a causa dell’addizionale Irpef calcolata ai massimi dal governatore Sergio Chiamparino (Pd). Figuriamoci che cosa accadrà nel Lazio o in Campania. Tutte le amministrazioni locali, a cominciare dai Comuni, giocano al rilancio per compensare i 6,2 miliardi di tagli (4 dei quali a carico delle regioni), proprio uno dei rischi paventati dalla Banca d’ltalia: «Nelle valutazioni ufficiali» sostiene Signorini «si stima che la riduzione delle risorse si traduca automaticamente in una riduzione delle spese correnti. Tuttavia, l’evidenza mostra che gli enti decentrati hanno reagito aumentando anche significativamente le entrate».

Renzi si vanta di aver ridotto le imposte, però la pressione fiscale complessiva non cala, anzi rischia di salire. E proprio questa è la spia alla quale guardano i contribuenti per decidere come utilizzare le proprie risorse. Quando le tasse crescono mentre i redditi ristagnano, la scelta più razionale degli individui è non spendere, e ciò aggrava la spirale della stagnazione. La stessa operazione Tfr (il Trattamento di fine rapporto anticipato) rischia di aggiungere incertezza. L’unica cosa sicura è che le pensioni future saranno più magre, dunque «è imprudente viaggiare senza ruota di scorta» ha scritto sul sito economico Lavoce.info Daniele Fano, fino al febbraio scorso capo della segreteria tecnica al ministero del Lavoro.

C’è un solo modo per spezzare il circolo della paura: «Sarà cruciale l’effetto della fiducia sulle famiglie e sulle imprese» dice Bankitalia. Ecco, la parola chiave è «fiducia»›. E qui l’economia lascia il campo alla politica. Con la sua campagna contro gufi, avvoltoi e menagramo, Renzi ha cercato di reagire allo sconforto che paralizza il Paese. Ma sono parole. E agli italiani non bastano; tanto meno ai falchi dell’Unione europea che chiedono altri 3,3 miliardi di tagli subito e 14 l’anno prossimo. Pende sulle nostre teste una procedura per aver infranto il Patto di stabilità sia sul debito, che continua a salire, sia sul deficit che sfonda il tetto del 3 per cento. A quel punto, il Paese piomberebbe di nuovo nel pozzo dell’austerità senza via d’uscita.

Pessimismo giustificato sul calo della benzina

Pessimismo giustificato sul calo della benzina

Il Sole 24 Ore

Il prezzo del greggio è sempre più sobrio. I consumatori già pregustano nuovi ribassi di benzina e gasolio al distributore. Ma il pessimismo della ragione dice che forse non sarà così. I listini del petrolio infatti sono uniti con quelli dei carburanti da un legame lieve (e molto, molto elastico quando si tratta di ribassare). Per esempio martedì, mentre a New York le quotazioni petrolifere scendevano a rotta di collo, sui mercati italiani all’ingrosso la benzina e il gasolio rincaravano e anche in modo orgoglioso, cosi ieri alcuni distributori hanno alzato i prezzi, molti altri invece li hanno limati. Da gennaio però – segnala l’Unione petrolifera – i tributi sui carburanti potrebbero aumentare di quasi otto centesimi di euro il litro per la Legge di stabilità e altre normative. L’automobile, bancomat del Fisco, porterebbe nelle casse statali 2,4 miliardi in più.

La beffa delle certificazioni

La beffa delle certificazioni

Luca Antonini – Panorama

Molti piccoli imprenditori negli ultimi mesi hanno diligentemente attivato le procedure per ottenere la certificazione dei crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni, attenendosi a quanto prevede la nuova normativa sulla cessione pro soluto dei crediti certificati e assistiti dalla garanzia dello Stato (art. 37, comma 3 del d.I. n. 66/2014). Ottenuta una notevole pila di carta (le certificazioni) si sono rivolti ai principali istituti bancari accreditati per sottoscrivere il contratto di cessione del credito. Qui però sono iniziati i problemi: non tutte le banche avevano ancora predisposto specifiche procedure interne per gestire le operazioni di smobilizzo del credito certificato, né erano in grado di dire se e quando tali procedure sarebbero state approntate.

Non solo la pila di carta non si è tramutata subito in euro, ma si è aggiunto il danno: le pubbliche amministrazioni per certificare il credito hanno indicato la data prevista di pagamento sfruttando il tempo massimo, 12 mesi, consentito dalla legge (anche nel caso di crediti già ampiamente scaduti) e fino a quel momento per effetto della sottoscrizione dell’istanza di certificazione rimane paralizzata per legge la possibilità di avviare le normali procedure esecutive di recupero crediti. Ma oltre il danno è arrivata anche la beffa: infatti in televisione appariva intanto uno spot informativo della presidenza del Consiglio dove si dichiara che con il provvedimento sopra citato erano stati risolti tutti i problemi di liquidità che affliggono gli imprenditori che lavorano prevalentemente con le pubbliche amministrazioni. Non sappiamo a oggi quante banche siano riuscite ad attivare le procedure.

È fallita una PMI ogni cinque

È fallita una PMI ogni cinque

Tino Oldani – Italia Oggi

Il solco che separa il bla-bla del governo dalla cruda realtà dei fatti sta diventando preoccupante. Prendiamo le piccole e medie imprese (pmi), che da sempre sono la vera spina dorsale dell’economia italiana. Il primo rapporto Cerved dedicato a questo settore, potendo contare su una messe di dati senza eguali, ha rivelato pochi giorni fa che, dall’inizio della crisi economica (2008) ad oggi, una piccola e media impresa su cinque è uscita dal mercato. In dettaglio: su 144 mila pmi censite, 13 mila sono fallite, più di 5 mila hanno avviato una procedura concorsuale non fallimentare, altre 23 mila sono state liquidate volontariamente.

L’amministratore delegato del Cerved, Gianandrea De Bernardis, ha tenuto a precisare che le pmi considerate, secondo la definizione Ue, sono quelle con un fatturato tra 2 e 50 milioni di euro e tra 10 e 250 dipendenti. In questa forchetta, in Italia ci sono 144 mila società che generano un giro d’affari di 851 miliardi, con un valore aggiunto di 183 miliardi, pari al 12% del pil nazionale. Dunque, una colonna portante dell’economia, che purtroppo si sta sgretolando sempre di più.

Poiché la crisi dura da ben sette anni, cosa hanno fatto finora i vari governi per le pmi? Cercando una risposta su Google, si scopre che il 28 agosto scorso il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha emesso un comunicato grondante ottimismo sul successo dei mini bond, introdotti con il decreto Competitività per aiutare le pmi, con un carico fiscale ridotto. «Lo strumento dei mini bond» recitava il comunicato, «è ormai decollato e diventa sempre più diffuso tra le piccole e medie imprese che intendono accedere al mercato per reperire risorse di finanziamento in alternativa al credito bancario. Negli ultimi due mesi sono ben 26 le pmi che, per la prima volta, si sono affacciate sul mercato dei capitali e hanno emesso mini bond per un valore complessivo di un miliardo. Le emissioni vanno da un minimo di 5 milioni a un massimo di 200 milioni». Concludeva entusiasta Padoan: «Porteremo questa positiva esperienza all’attenzione dei partner europei in occasione dell’Ecofin di Milano».

Purtroppo per Padoan, il presunto «decollo» dei mini bond viene ora smentito dai dati del Cerved, che descrivono una realtà ben diversa. Su 144 mila imprese, sono soltanto 29 quelle che hanno emesso finora obbligazioni finanziarie, per un valore che si è fermato a 226 milioni; la torta complessiva dei mini bond agevolati sul piano fiscale, pari a 4,2 miliardi, è andata per il 95% alle grandi imprese. Di certo, spiega la ricerca Cerved, su questi dati ha influito un certo ritardo culturale delle pmi italiane, che, a differenza di quelle tedesche e francesi, dipendono per il 98% dai finanziamenti bancari. E poiché il credit crunch non ha mollato la presa, e poiché i pagamenti dei clienti e dello Stato hanno accumulato ritardi pazzeschi, ecco spiegati i fallimenti che hanno costretto una pmi su cinque a chiudere i battenti.

È evidente che senza una vera ripresa dei flussi del credito bancario, non vi sarà alcuna ripresa. Lo sa bene anche Matteo Renzi, che sul sito che porta il suo nome (matteorenzi.it) ha postato qualche tempo fa una proposta dettagliata, con un titolo roseo: «250 miliardi di credito garantito per le aziende». Recita il testo: «Oggi molte imprese, anche sane, soffrono, e in alcuni casi chiudono perché il credito non è disponibile. E quando è disponibile, è erogato a condizioni molto onerose. Tante aziende sono inoltre messe in difficoltà dai crediti verso la pubblica amministrazione. In queste condizioni, competere con i tedeschi e gli olandesi è quasi impossibile».

Ecco allora la soluzione di Renzi: «Riteniamo che l’accesso al credito sarà una delle leve principali per consentire alle piccole imprese di sopravvivere e per avviare un nuovo ciclo di crescita. Per questo prevediamo di riallocare sui fondi di garanzia del credito almeno 20 miliardi di fondi europei, in modo da garantire almeno 250 miliardi di crediti a piccole e medie imprese, dando all’imprenditoria sana, in particolare nel Sud, l’ossigeno per ripartire, a tassi competitivi con le imprese tedesche e olandesi».

Dettaglio importante: il post reca la data del 14 novembre 2012, quando Renzi era ancora sindaco di Firenze, ma parlava già come se fosse il presidente del Consiglio. I fondi di garanzia del credito, infatti, erano una sua idea: voleva che ne sorgesse uno in ogni Regione, con fondi del programma europeo Jeremie (Joint european resources for micro to medium enterprises). Peccato che da quando è premier se ne sia completamente scordato, per dare la precedenza a riforme controverse (Jobs act, articolo 18, Senato regionale, legge elettorale), buone per stare ogni giorno sul teatrino mediatico, ma del tutto inutili per favorire la ripresa delle pmi, o quanto meno per ridurre il numero dei loro fallimenti.

I tecnici accusano: manovra colabrodo

I tecnici accusano: manovra colabrodo

Franco Bechis – Libero

Finanza creativa come ai bei vecchi tempi e cifre appese in aria a modelli teorici inventati lì per lì. Dalla proroga dello sconto degli 80 euro alla riduzione dell’Irap, dal Tfr in busta paga alla lotta all’evasione, fino ai rischi notevoli contenuti nelle norme sulla tesoreria unica che coinvolgono la Cassa depositi e prestiti, la manovra di Matteo Renzi sembra con i piedi di argilla come raramente è avvenuto negli ultimi anni.

Come era accaduto qualche mese fa con altri provvedimenti economici, i tecnici del Servizio bilancio del Parlamento l’hanno passata incontro luce segnalando numerosi rischi e altrettante incongruenze che potrebbero fare ballare per cifre anche notevoli i conti dello Stato. Allora furono i tecnici del Senato, che per questo loro prezioso lavoro istituzionale furono pubblicamente sbeffeggiati dallo stesso Renzi, poi difesi (non proprio vibratamente) dal presidente del Senato, Piero Grasso. Ora è meglio che si prepari a incrociare la spada Laura Boldrini, perché a fare pezzi la legge di stabilità sono i tecnici del servizio Bilancio della Camera. Ecco come nelle principali voci.

80 euro
Prima osservazione: le simulazioni su cui si basano gli effetti di finanza pubblica del bonus da 80 euro si basano su modelli abbastanza di fantasia. E curiosamente – nonostante la norma identica – divergono non poco dalla relazione tecnica del decreto dell’aprile scorso che concedeva la stessa agevolazione. Attenzione però, perché «la microsimulazione è effettuata con riferimento ai redditi 2012, estrapolati al 2015», avvertono i tecnici della Boldrini, perché da allora a oggi molti possono essere usciti dalla platea dei beneficiari ed altri esservi entrati. Bisogna però sapere quanti sono entrati e quanti sono usciti per fare bene i calcoli.

Sconti Irap
Anche qui il modello di riferimento viene ritenuto piuttosto fantasioso e un po’ improvvisato. I tecnici sono tali e non segnalano temi politici come fa la stampa. Lì si è evidenziata la beffa dello sconto Irap che non c’è, perché retroattivamente vengono tolte le riduzioni di aliquote stabilite proprio con il decreto 80 euro. Una presa in giro delle imprese, però fatto alla carlona come tutte le cose di questo esecutivo. Segnalano i tecnici: «l’abrogazione dell’art. 2 del DL n. 66/2014, che aveva disposto la riduzione delle aliquote IRAP, non determina in via automatica il ripristino delle precedenti maggiori aliquote in base alle quali la relazione tecnica ha quantificato gli effetti positivi di gettito». Detto fra noi:meglio così. L’aumento delle aliquote può essere impugnato dalle imprese, perché la norma è fatta male.

Tfr in busta paga
Non costa niente alle imprese, diceva il governo. Bugia: la relazione tecnica inserisce nuove entrate per il fisco. Come? «Le maggiori entrate sembrerebbero infatti derivare dall’aumento per le aziende interessate degli sgravi contributivi previsti, cui dovrebbero tuttavia corrispondere minori deduzioni fiscali».

Ammortizzatori sociali
Qui c’è un fondo fantasma, perché viene legato al Jobs act, bandiera di Renzi che al momento non c’è. Con la finanza pubblica però non si può giocare: «le disposizioni in esame istituiscono un Fondo di finanziamento per l’attuazione delle modifiche in materia di lavoro e di ammortizzatori sociali, che verranno definite a seguito dell’adozione dei decreti di attuazione all’apposita legge di delega,già approvata dal Senato e attualmente all’esame presso la Camera dei deputati. In proposito non risulta possibile procedere a una verifica di tali effetti non essendo allo stato definita la nuova disciplina relativa alle materie oggetto di delega».

Sistema tesoreria unico
È forse il tema più delicato dell’intera manovra, ed è quello di cui si è parlato meno. I compiti che vengono girati alla Cassa depositi e prestiti hanno un rischio enorme: quello che venga consolidata anche quell’area nei conti dello Stato. Con un’esplosione del debito pubblico: «In merito al trasferimento del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato presso la Cassa depositi e prestiti», scrivono i tecnici della Boldrini, «andrebbe espressamente escluso che tale operazione possa determinare un rischio di inclusione della Cassa nel perimetro della p.a. con conseguenti effetti negativi sui saldi di finanza pubblica e sul debito».

Evasione fiscale
Anche qui le norme sembrano scritte da principianti. Si prevedono entrate massicce su simulazioni vecchie e fatte su settori che nulla c’entrano con i provvedimenti. E attenzione: «occorrerebbe acquisire elementi volti a verificare che il maggior gettito imputato alle disposizioni in esame abbia effettivamente carattere aggiuntivo rispetto a quello ascritto a provvedimenti di contrasto all’evasione già adottati».

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Il Tempo

Lo Stato paga i debiti vecchi ma non quelli nuovi. Con il risultato che lo stock di fatture non saldate ai fornitori è rimasto pressocché invariato. A spiegare che il vizietto dei pagamenti lunghi è rimasto una consuetudine nella pubblica amministrazione è il Centro Studi “ImpresaLavoro”. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.

«Nel caso concreto – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa». Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta. Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi. E le imprese che non ricevono il loro saldo in tempo sono costrette ad andare in banca e a pagare 6 miliardi in più complessivamente di interessi.