Edicola – Opinioni

Trappola greca

Trappola greca

Davide Giacalone – Libero

Alexis Tsipras arriva a Roma da capo del governo. In campagna elettorale accompagnava slogan estremisti con dichiarazioni ragionevoli, assicurando che non aveva alcuna intenzione di portare la Grecia fuori dall’euro. Il guaio è che ci finisce comunque, se non cambia musica. E che, finendoci, ci fa marameo e cancella il debito che ha nei nostri confronti. I contribuenti italiani hanno pagato per salvare la Grecia. Oggi è l’occasione per dirgli: scordatelo. Ed è l’occasione per dire agli alleati occidentali: sappiamo che questo bastione Nato non può essere perso, né abbandonato a capitali potenzialmente ostili, ma noi italiani non possiamo pagare più dei tedeschi e contare meno dei greci.

Cancellare il debito è improponibile. Rimodularlo è razionale. Significa che i tempi si allungano, ma i creditori sono garantiti in sede europea e, sebbene abbiano fatto un cattivo affare, almeno non si vedono costretti a cancellare o decurtare il credito, con gravi conseguenze per la finanza pubblica. La cancellazione, inoltre, innescherebbe il desiderio emulativo, sicché le elezioni sarebbero vinte, in giro per l’Europa e a cominciare dalla Spagna, dai partiti che propongono di fare altrettanto. Basti pensare che c’è chi lo dice anche da noi, ignorando che il 65% del debito lo abbiamo con noi stessi. Rinegoziare, ancora una volta, è possibile. Ma i greci non possono far troppo i furbi. Il loro nuovo governo ha provveduto alle riassunzioni di dipendenti statali, ha mollato il già fiacco contrasto all’evasione fiscale e si propone l’aumento dei salari. Spesa pubblica corrente a go-go. In questo modo fuori dall’euro ci vanno da soli. Una volta usciti scoprirebbero che le loro banche sono tutte fallite e per rianimarle si troverebbero a spendere assai più di quel che costa onorare i debiti già contratti.

Un avvenire di certa e crescente miseria, evitabile solo consegnando la sovranità a capitali che incorporano pretese politiche forti. I greci lo sanno talmente bene che dopo avere votato Tsipras hanno fatto ridefluire i loro soldi verso l’estero. Restare nell’eurozona serve a mantenersi agganciati al mondo ricco e civile, ma comporta la rinuncia all’idea di cancellare i debiti. Non così e non unilateralmente, comunque. Però, e ne ho già scritto, c’è il fatto che la Grecia presidia una posizione geopoliticamente rilevante, considerata l’aria che tira in Medio Oriente. Vero, ma questo, giusto per dirne una, comporta che chi la governa non abbia atteggiamenti ostili verso Israele, altrimenti possiamo considerarli già persi. Le parole di Obama, che segnalano all’Unione europea l’inopportunità di una rottura greca, devono essere lette in questa chiave, oltre che nel quadro del negoziato sul libero commercio.

Il fatto è che se si deve tendere la mano ai greci, per ragioni politiche, e credo sia bene farlo, allora deve essere chiaro che anche noi abbiamo qualche problema da risolvere. Qui facciamo finta di non accorgercene, ma l’intero programma quantitative easing, della Banca centrale europea, si basa sul principio dell’acquisto di titoli del debito considerati affidabili. L’ultimo gradino dell’affidabilità è quello in cui l’Italia si trova. Basta scendere di un capello e piombiamo all’inferno. Siccome la cosmesi dei conti può essere venduta alla Commissione europea, se il compratore accetta di crederci, ma non alle agenzie di rating, ecco che su quel fronte non dobbiamo restare né isolati né scoperti. Questa faccenda non si negozia con Tsipras, ma la sua visita è l’occasione per rendere noto che non ci possono essere valutazioni asimmetriche. Tenercelo nell’euro ci conviene, sotto molti aspetti. Ma guai a farsi spingere con lui verso la spazzatura.

Perché la Grecia può farci male

Perché la Grecia può farci male

Emiliano Brancaccio e Gennaro Zezza – Il Mattino

Non si può dire che tra il 2010 e il 2014 la Grecia non abbia «fatto i compiti» assegnati dalla Troika. La pressione fiscale è cresciuta di cinque punti percentuali rispetto al Pil, la spesa pubblica è diminuita di un quarto e i salari monetari sono caduti di venti punti percentuali. La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia e avrebbero rilanciato la competitività. Ma le sue previsioni sull’andamento del Pil greco sono state ripetutamente smentite: in Grecia il crollo della produzione ha fatto registrare un divario rispetto alle stime di Bruxelles che talvolta ha oltrepassato l’imbarazzante cifra di sette punti di Pil. Anche sul versante della competitività, nonostante l’abbattimento dei salari e dei costi, i risultati sono stati diversi dalle attese: il saldo verso l’estero è migliorato, ma molto più per il tonfo del reddito e delle importazioni che per una ripresa dell’export. Né si può dire che le politiche indicate dalla Troika abbiano stabilizzato i bilanci: il deficit pubblico è stato faticosamente ridotto ma la caduta della produzione ha implicato un’esplosione del rapporto tra debito pubblico e Pil di trenta punti percentuali.

Il caso greco, si badi bene, è estremo ma non costituisce affatto un’eccezione. Esso rappresenta la più chiara conferma della previsione del «monito degli economisti» (www.theeconomistswarning.com) pubblicato nel settembre 2013 sul Financial Times: anziché stabilizzare l’eurozona, le attuali politiche europee alimentano una deflazione da debiti, accentuano i divari tra paesi del Nord e del Sud Europa e in prospettiva affossano le probabilità di sopravvivenza dell’Unione monetaria. Molti commentatori ritengono però che un ritorno alla dracma avrebbe ripercussioni ancor più pesanti sull’economia greca. L’ implicazione che ne traggono è che il nuovo governo guidato da Alexis Tsipras non ha alternative: dopo la passerella in Europa e gli incontri con Renzi e Juncker, alla fine il premier greco dovrà accontentarsi delle modeste concessioni sul debito che Bruxelles sarà disposta a offrire.

Ma è proprio vero che la Grecia non ha carte da giocare? In realtà la letteratura scientifica sui costi e benefici di un eventuale abbandono dell’euro fornisce risultati controversi. Il punto su cui gli economisti concordano è che il successo o il fallimento di un ritorno alla moneta nazionale dipenderebbero in ultima istanza dalla capacità o meno della Grecia di rilanciare la domanda e la produzione interna tenendo in equilibrio il saldo delle importazioni e delle esportazioni verso l’estero. Se riuscisse a controllare il saldo estero, la Grecia ridurrebbe la sua dipendenza dai prestiti internazionali e avrebbe quindi una chance in più per gestire la difficile transizione. Il problema è che la crisi ha distrutto una parte importante della base produttiva del paese, per cui un eventuale stimolo alla domanda di beni rischia di determinare un forte aumento delle importazioni e del deficit estero. Spunti interessanti, a tale riguardo, si possono trarre dal modello per l’economia greca elaborato dal Levy Economics Institute (www.levy.org), che ha dato prova di buone capacità di previsione rispetto alle stime delle principali istituzioni internazionali. Il modello mostra che l’attuale miglioramento del conto estero già fornisce spazi di manovra per una politica espansiva. Entro i vincoli di bilancio europei, tuttavia, lo stimolo sarebbe insufficiente a risollevare il Pil e l’occupazione in modo apprezzabile.

Si consideri allora l’ipotesi che in assenza di un sostegno europeo al rilancio dell’economia ellenica, nel 2015 la Grecia attui un default del debito e un ritorno alla dracma, e adotti una politica di bilancio espansiva fino a 10 miliardi. Con assunzioni pessimistiche sulla svalutazione della dracma e sul suo impatto sui prezzi dei beni importati, il modello prevede un consistente aumento del Pil ma anche un miglioramento delle esportazioni modesto, e nel breve periodo un peggioramento sul versante delle importazioni. La conseguenza sarebbe un deficit verso l’estero fino a cinque miliardi di euro – circa il tre percento del Pil – che andrebbe a ridursi lentamente negli anni successivi. Come si potrebbe gestire la fase di aumento del disavanzo estero? In che modo si potrebbe contenerlo? Ed esisterebbero paesi disposti a finanziario? Si tratta di interrogativi cruciali, per Tsipras ma anche per l’intera Europa. Chi si illude che il caso della Grecia possa essere isolato, è stato già seccamente smentito dall’effetto domino degli anni passati. Se il governo greco venisse messo all’angolo e a quel punto ritenesse di poter gestire una eventuale uscita dall’euro, inevitabili sarebbero le ricadute sull’Italia, sul Sud Europa e sulla tenuta complessiva dell’Unione monetaria.

Fisco contribuenti: l’ufficio complicazioni è sempre aperto

Fisco contribuenti: l’ufficio complicazioni è sempre aperto

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere Economia

Come tutti i passaggi in qualche modo epocali, anche quello del modello 730 precompilato, se da un lato ci mostra il lato gentile del Fisco, dall’altro svela le fragilità del sistema. E le numerose contraddizioni delle norme tributarie che negli ultimi cinquant’anni si sono accatastate (oltre alle tasse, naturalmente) sulle spalle dei poveri contribuenti. L’idea di un modello precompilato per sollevare i cittadini da un onere improprio, è senza dubbio un fatto positivo: lo Stato non chiederà di scrivere un’altra volta (nella dichiarazione, appunto) le cose che conosce già, a cominciare dalle imposte dovute dai dipendenti e versate direttamente dai datori di lavoro. Ma qui comincia il percorso a ostacoli.

Su 20 milioni di potenziali dichiaranti che potrebbero essere esenti da ogni onere, per ben 14 milioni si rende necessaria la cosiddetta integrazione del modello. Risultato: per il 70% dei cittadini che vorranno beneficiare della possibilità di scaricare le spese mediche, i modelli andranno in qualche modo compilati. E qui arriva il passaggio delicato: chi pagherà in caso di errore? La norma è chiara, con il «visto di conformità» la responsabilità ricadrà sui Caf (Centri di assistenza fiscale) e sui commercialisti che daranno il loro via libera al modello integrato. Cosa che naturalmente ha scatenato molte preoccupazioni. Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle Entrate, ha spiegato a Mario Sensini come sarà fondamentale l’uso della tessera sanitaria nel 2015 per beneficiare dei calcoli automatici nel 2016 anche per le spese legate alla salute. E la cosa si potrebbe estendere, ad esempio ai mutui. Non era meglio partire con il sistema in ordine?

Si tratta, comunque, di un piccolo passo in avanti. Che speriamo sia seguito al più presto dai Comuni. Perché non adottare anche per Imu e Tasi il modello della tassa rifiuti che viene pagata su bollettini precompilati e spediti a casa del contribuente? Gli enti locali hanno tutti i dati per farlo. Le tasse non calano, almeno cerchiamo di rendere semplici le cose complicate, invece che complicare le cose semplici.

Meritocrazia, Italia maglia nera in Europa

Meritocrazia, Italia maglia nera in Europa

Cristina Origlia – Il Sole 24 Ore

Non si può gestire ciò che non si misura. Un principio che vale per tutto e, ancor più, per ciò che normalmente non si considera misurabile, quegli asset intangibili che ormai sappiamo incidere tanto quanto quelli tangibili sulle performance delle persone e delle organizzazioni, come su quelle di un Paese. Se il Pil degli altri Stati europei più industrializzati sta riprendendo a crescere, mentre quello italiano fa molta fatica a risalire, una ragione c’è e sta nelle condizioni di contesto, che frenano drammaticamente qualsiasi sforzo di governo. Finora nessuno aveva elaborato un indicatore quantitativo di sintesi di tali condizioni e quindi dello “stato del merito” di un Paese – perché di questo si sta parlando – confrontabile con altre realtà e aggiornabile nel tempo. Messo a punto da un’équipe dell’Università Cattolica, per il Forum della Meritocrazia, il Meritometro – che sarà pubblicato in esclusiva su “L’Impresa”, il mensile di management del Sole 24 Ore, in edicola da mercoledì 4 febbraio – è una novità assoluta tra gli strumenti di valutazione delle principali istituzioni di ricerca socio-economica internazionali. Si basa su sette pilastri, considerati prioritari a livello mondiale: libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza, mobilità sociale.

I primi risultati ci dicono che tra 12 Paesi europei, i migliori sono quelli scandinavi, seguiti da Germania, Gran Bretagna e Francia. L’Italia è in ultima posizione, con un punteggio di 23,3 che è meno della metà della Finlandia (67,7), Paese europeo più virtuoso, ma anche inferiore di oltre dieci punti alla Polonia (38,8) e alla Spagna (34,9). «Sono risultati che non ci stupiscono – afferma Giorgio Neglia, coordinatore dell’équipe di lavoro e consigliere del Forum -, ma che vista la fotografia impietosa che danno del nostro Paese, ci auguriamo possano contribuire a indirizzare policy e azioni adeguate. Sappiamo tutti che da noi le “conoscenze giuste” in molti casi contano più delle competenze; per ottenere un appalto, spesso devi avere rapporti privilegiati con la Pa; per avviare un’attività, devi superare ancora iter burocratici eccessivi; per lavorare in alcuni settori devi necessariamente elargire favori. Ciò che non capiamo è quanto questa palude ci stia immobilizzando e quanto la meritocrazia, generando ricchezza e maggiori opportunità, sia un fattore strategico per competere: il capitale umano è il driver dell’economia della conoscenza. Se non crei le condizioni per la sua valorizzazione, muore o se ne va».

Non è un caso che l’Economist abbia dedicato l’ultimo numero al tema “An hereditary meritocracy”, interrogandosi sulle ragioni per cui l’american dream stia svanendo dietro al privilegio di nascere in famiglie facoltose, in grado di assicurare la formazione scolastica migliore ai figli. Un trend pericoloso, che potrebbe dirigere il potere nelle mani di un’élite chiusa su se stessa e, quindi, non aperta a includere le menti migliori del Paese, oltre a creare crescenti disuguaglianze. «Oggi tutto si gioca sulle competenze – commenta Neglia -. Se non ne hai una dotazione significativa, non potrai mai affermarti e il Paese si sarà perso il tuo potenziale intellettuale».

Proprio sui pilastri “libertà”, intesa come possibilità di realizzare i propri obiettivi, e “mobilità sociale” il Meritometro registra le maggiori disparità dell’Italia con gli altri Paesi. Siamo pure indietro, in compagnia di Polonia e Spagna, sul fronte “regole” e “trasparenza”. Differenze sostanziali ci allontanano, poi, dal Nord Europa su “attrattività per i talenti” e “pari opportunità”. L’unico pilastro su cui i risultati non sono drammatici è il “sistema educativo”. «In effetti – conclude Neglia – è un ambito in cui, pur posizionandoci comunque ultimi in classifica, riusciamo a esprimere ancora una certa qualità, che si traduce in ricercatori, manager, designer apprezzati in tutto il mondo, che però, spesso, sono costretti ad andarsene per essere valorizzati. È proprio dalla scuola che bisogna partire per avviare una rivoluzione culturale, che metta il merito al centro di una rinnovata educazione civica da insegnare al pari delle altre materie». Consapevoli che non si tratta di un’operazione di breve periodo, ma che richiede una vision politica e la determinazione necessaria per saper aspettare i risultati.

Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Per credere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci serve un atto di fede, e io ho sempre preferito i numeri al «credo». Così, quando ho visto che la Confindustria ha sparato al rialzo le previsioni di crescita del pil 2015 dallo 0,5 per cento al 2,1% (e per il 2016 dall’1,1% al 2,5%), rispetto a quelle che aveva diffuso a dicembre, sono saltato sulla sedia. Magari, mi sono detto. Ma queste ipotesi non trovano riscontro in nessuna delle altre stime uscite in questi giorni: né di Bankitalia (+0,4% nel 2015 e +1,2% nel 2016), né di S&P (rispettivamente +0,2% e +0,8%); la più ottimista, Prometeia, non va oltre +0,7% e +1,4%. Allora? Certo, alcuni fattori positivi non mancano. Il commercio mondiale è in crescita e la discesa dell’euro sul dollaro (quasi il 10% negli ultimi 45 giorni. il 16% in sei mesi) spinge il nostro export, che già copre un terzo del pil. Inoltre, se il prezzo del petrolio restasse agli attuali 45 dollari al barile per tutto il 2015 (rispetto ai quasi 100 di inizio ottobre) l’Italia risparmierebbe 24 miliardi, ovvero l’1,5% del pil (occhio, però, perché Claudio Descalzi, numero uno dell’Eni, già prevede che nel secondo semestre le quotazioni tenderanno ai 60 dollari). I tassi d’interesse, poi, sono stracciati. Ma si tratta di positività in atto da tempo, gia ampiamente scontate nelle stime di fine 2014.

E allora. come mai Confindustria ha moltiplicato per quattro? Si dice: le politiche monetarie appena varate dalla Bce sono «manna dal cielo», dovrebbe valere 1,8 punti di pil aggiuntivi. Ma, a parte che nessun altro attribuisce al QE gli stessi effetti taumaturgici, è oggettivamente difficile credere che, da solo, possa generare 30 miliardi di valore aggiunto. Sia chiaro, l’operazione di Draghi è benefica. Ma, intanto, potrebbe saltare per l’Italia se il rating del nostro debito dovesse scendere di un solo gradino (dall’attuale BBB- a C, livello spazzatura). E poi, il permanere della recessione, fin qui, non è certo dovuto a mancanza di liquidità. Se il denaro non affluisce all’economia reale e per la somma di tre ragioni: perché le banche sono costrette a rispettare requisiti patrimoniali sempre più stringenti; perché latitano le imprese con progetti industriali solidi, che non chiedano prestiti solo per tappare vecchi buchi; perché il clima di sconforto e rassegnazione ostacola la spinta agli investimenti, vero motore della crescita.

Ma se la psicologia può anche invertirsi in modo repentino – per l’Istat la fiducia delle imprese a gennaio ha segnato il massimo da settembre 2011 – è difficile che il nostro capitalismo possa liberarsi dei suoi atavici problemi in qualche settimana. Dopo sette anni di crisi un rimbalzo positivo è fisiologico, ma non basta a fermare il declino. Il motore della nostra economia produttiva ha sì bisogno di benzina, ma anche e soprattutto di un’accurata revisione. Serve, dunque, una politica industriale che metta in campo risorse e strategie di lungo termine, che lasci perire le aziende decotte e che spinga su manifatture ad alto valore aggiunto in grado di competere sui mercati internazionali e recuperare quel 35% di competitività tecnologica perduta negli ultimi 15 anni. Le risorse umane ci sono, il vento economico è favorevole. Più che con l’ottimismo di maniera, gli atti di fede o la corsa a prendersi il merito di una ripresa che ancora non c’è, bisognerebbe cogliere l’occasione nei fatti.

La ripresa rischia di spaccare l’Italia

La ripresa rischia di spaccare l’Italia

Carlo Pelanda – Libero

Nel secondo trimestre 2015 è prevista l’inversione della crescita del Pil da negativa a positiva. La ripresa avrà effetti omogenei o differenziati per settori economici e territori? Saranno differenziati perché la stimolazione sarà incompleta: monetaria, ma non fiscale. Per capirci, se il governo decidesse di tagliare 100 miliardi di spesa pubblica (in tre o quattro anni) e di 70 miliardi le tasse, lasciando un margine di 30 per gestire l’equilibrio di bilancio statale, il capitale così liberato, via più investimenti e consumi privati, darebbe un impulso fortissimo e diffuso a tutta l’economia nazionale. Nel simulatore, una tale mossa, combinata con la megastimolazione monetaria attuata dalla Bce, porterebbe la crescita del Pil nel 2015 ad oltre il 4%, vicino al 6% nel 2016, per poi stabilizzarsi al 3% negli anni successivi (a condizione di una media stabilità globale). Per inciso, va considerato che un euro intermediato dallo Stato, in un modello politico socialistoide che alloca il più dei denari fiscali per finanziare apparati invece di investimenti modernizzanti, produce circa 0,90 euro per anno, cioè perde valore, mentre un euro lasciato nel mercato ne genera almeno 2. Da questo cenno si può intuire l’importanza stimolativa, nonché la diffusività sociale, di una defiscalizzazione massiva.

Vi sarebbero alcuni punti delicati: la minor spesa pubblica colpirebbe nel breve termine le aree meridionali, comporterebbe lo spostamento di una parte dei dipendenti pubblici al mercato privato, ecc. Da un lato, tali problemi sarebbero risolvibili in un momento di allentamento monetario che, rendendo possibili crescite forti e rapide, permetterebbe di assorbire velocemente più trasferiti dal pubblico al privato nonché di sostituire con capitale di investimento (incentivato) il minor denaro pubblico nelle aree meno sviluppate (se bonificate dalla criminalità). Dall’altro, non avverrà perché è impensabile che una maggioranza di sinistra voglia farlo e che il governo abbia la tecnicità per attuarlo in modo liscio, pur azione fattibile. Pertanto bisogna assumere la continuità del modello socialistoide e contare solo sull’effetto di maggiore liquidità e svalutazione competitiva.

Il punto: proprio l’inerzia riformatrice del governo produrrà un effetto selettivo sulle unità economiche, basato sulla maggiore vicinanza o lontananza dai settori-territori stimolati dalla Bce. La svalutazione dell’euro favorirà l’export delle aziende internazionalizzate ed il loro indotto nei territori dove queste sono più dense, cioè il Nord e parte della costa adriatica. L’effetto sarà maggiore o minore in relazione all’intensità e durata della svalutazione competitiva e, al riguardo dell’indotto, in base alla quantità di investimenti. L’effetto complessivo sarà espansivo, ma non così propulsivo e rapido per le reazioni contrarie del dollaro e di altre valute all’eurosvalutazione e perché prima di fare nuovi investimenti ed assunzioni le imprese useranno la capacità inutilizzata, questa rilevante. Un effetto positivo e spalmato è atteso dall’importazione di turismo da aree non-euro, moltiplicato dalla fortunata coincidenza dell’Expo. Ma la crescita in questi due settori non riuscirà a smuovere la stagnazione dei consumi e del settore delle costruzioni, lasciando milioni di piccole imprese industriali, artigianali e commerciali nei guai, complicati da una restrizione del credito che, pur di meno, continuerà.

In conclusione, la stimolazione solo monetaria e non fiscale causerà una ripresa incompleta che spaccherà l’Italia in tre settori: a) più ricchi, i territori ad alta densità di aziende internazionalizzate (Lombardia, Veneto, Piemonte e, meno, Emilia); b) galleggianti, ma senza vera ripresa, quelli con minore densità di imprese esportatrici, ma con certa capacità turistica (Centro italia); c) più poveri i territori meridionali nonostante un incremento del turismo stagionale. Come è sempre stato? Attenzione: la differenziazione per ricchezza tra persone e territori diventerà più marcata e ciò si trasformerà in un grave problema di governabilità della nazione. L’assenza della stimolazione fiscale (detassazione) in presenza di quella monetaria, oltre a ridurre i potenziali di ripresa, potrebbe disgregare l’Italia. Va segnalata a Mattarella la relazione tra integrità nazionale, di cui è tutore, e cambiamento di un modello economico inadeguato, esercitando la dovuta pressione su un governo orbo e/ o non ostacolando la sua sostituzione quando una destra inevitabilmente rinnovata ritroverà consistenza.

C’è qualcosa di nuovo

C’è qualcosa di nuovo

Giuliano Cazzola – La Nazione

«C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole». Dalle statistiche ufficiali, di solito molto severe, arrivano primi segnali positivi per quanto riguarda il lavoro. A dicembre è diminuito il tasso di disoccupazione e sono aumentati gli occupati (di quasi centomila su novembre) e nello stesso tempo sono molti di più gli italiani che cercano lavoro (perché sperano di trovarlo), Per parlare di svolta occorrerebbero dati più stabili. L’aspetto incoraggiante viene, però, dal versante dell’economia.

Secondo l’autorevole Centro studi di Confindustria, il 2015 si annuncia come l’anno dello spartiacque, perché dovrebbe terminare la lunga crisi dando corso a incrementi del Pil e dell’occupazione che si riveleranno migliori delle previsioni correnti, «persino di quelle più recenti». Determinare la svolta a lungo attesa sono essenzialmente fattori esterni (la ripresa del commercio mondiale, il crollo del prezzo del petrolio, il cambio dell’euro). Si guarda. poi, con fiducia alle conseguenze dei nuovi criteri di flessibilità dei bilanci e delle misure della Bce sul Quantitative Easing (ma si sottovaluta l’effetto-contagio della Grecia), tra i fattori positivi c’è anche, per l’Italia il drastico ridimensionamento dei tassi di interesse sui titoli di nuova emissione. Bisognerà pur ammettere, allora, che le politiche condotte fino a oggi all’interno della Ue, sono state le sole che (se ne saremo capaci) consentiranno all’Italia di afferrare il ciclo della ripresa. Un posto di riguardo va riservato alle politiche del lavoro (lo ha riconosciuto anche il governatore Ignazio Visco), a partire dalla riforma del contratto a termine, mediante l’eliminazione della causale nell’ambito dei 36 mesi consentiti e con la possibilità di avvalersi di ben 5 proroghe.

Del Jobs Act Poletti 2.0 sono in corso le procedure per i decreti attuativi. Forte è l’interesse che le nuove norme stanno suscitando nelle imprese e negli investitori esteri. Se il testo dello schema non subirà delle modifiche sostanziali è doveroso riconoscere che vi saranno dei cambiamenti consistenti per quanto riguarda sia il licenziamento economico che quello disciplinare. Al contratto di nuovo conio (con tutele più sostenibili in tema di recesso) si accompagna un regime di robusti incentivi che, in pratica, consentirà alle imprese di accollare allo Stato la retribuzione di un intero anno (sui tre previsti), per gli assunti nel 2015.

L’Europa non cresce perché ha deciso così

L’Europa non cresce perché ha deciso così

Innocenzo Cipolletta – L’Espresso

Il primo ministro italiano ha un sogno: la parità tra dollaro e euro. Questo significa una svalutazione di almeno il 20% rispetto alla fine del 2014. E non c’è dubbio che la manovra della Bce denominata Qe (quantitative easing) vada in questa direzione. Certo, una svalutazione dell’euro aiuta una parte delle imprese europee (e italiane) che esportano fuori dell’Europa e quelle che temono la concorrenza da parte di paesi dell’area del dollaro, ossia da parte di molti paesi emergenti. Ma una simile svalutazione ha fondamenta economiche?

Facciamo finta di porre questa domanda a un’ipotetica Agenzia di Rating Interplanetaria (Ari) che guardasse la Terra e volesse dare un voto complessivo al nostro Mondo. Ebbene, un analista dell’Ari non avrebbe difficoltà a verificare che i paesi dell’euro (Eurolandia) hanno conti con l’estero attivi (per circa il 2,5% del Pil), ossia esportano più di quanto importino, mentre gli Usa con il loro dollaro hanno un disavanzo di circa un’analoga entità (2,6% del Pil). Se poi guardassero ai costi salariali di produzione, scoprirebbero che Eurolandia sta riducendo il costo unitario del lavoro rispetto ai suoi concorrenti (-0,7% nel 2014), mentre gli Usa lo stanno aumentando (+0,2%). Non solo, ma Eurolandia ha un disavanzo pubblico sotto la famosa soglia del 3% (2,6%), mentre gli Usa la superano alla grande (4.9% ). Di fronte a questi dati, il nostro analista dell’Ari troverebbe bizzarro che gli europei puntino a una svalutazione dell’euro. «Ma come» direbbe l’analista «qua bisogna fare l’inverso: svalutare il dollaro per correggere squilibri nei conti con l’estero americani, mentre l’euro andrebbe rivalutato per le ragioni opposte». Di fronte a queste tendenze. l’analista sarebbe indotto a degradare il rating della Terra per manifesta incongruenza delle azioni dei maggiori governi del Globo!

Anche noi dobbiamo domandarci perché una della aree più ricche del mondo, quella dell’euro, con oltre 300 milioni di abitanti istruiti, protetti da sistemi sociali avanzati, residenti prevalentemente in zone urbane, sofisticati come consumatori e risparmiatori, con i conti pubblici mediamente in buon equilibrio, per crescere debbano puntare solo sulle esportazioni verso un paese indebitato come gli Usa e verso paesi più poveri come quelli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. E, per raggiungere questo obiettivo, debbano frenare la propria domanda interna per consumi e investimenti, riducendo i salari della propria popolazione e la spesa pubblica. Possibile che abbiamo costruito l’Europa affinché dipenda dalla crescita della Cina o si difenda dalla competitività dei poveri vietnamiti? Dov’è che abbiamo sbagliato e dove continuiamo a sbagliare?

In realtà, paradossalmente, con l’adozione dell’euro non siamo andati avanti nel costruire un’Europa unita, ma siamo clamorosamente scivolati indietro. Siamo tornati ad essere la somma di 19 piccoli paesi (area dell’euro) che, invece di costruire una nuova istituzione sovranazionale, si sono impegnati a “mettere ordine a casa propria”. L’illusione è che la somma di tanti piccoli paesi competitivi dia luogo a un grande paese competitivo. Ma non sarà così. Per essere rapidamente competitivi non si può che comprimere i costi interni (salari e spesa pubblica) e cercare di invadere gli altri mercati, a cominciare da quelli dei vicini. È quello che ha fatto la Germania prima della grande crisi. Se tutti in Europa avessimo fatto come la Germania, nessuno avrebbe ottenuto quei risultati (neppure la Germania), la domanda interna europea sarebbe crollata ed Eurolandia sarebbe sprofondata in una crisi recessiva ben prima della grande crisi finanziaria.

Ma, poiché continuiamo a ripeterci che la salvezza sta solo nell’essere competitivi, ecco che esultiamo per la svalutazione dell’euro che invece impoverisce i nostri paesi. Il modello di sviluppo dell’Ue non dovrebbe essere quello trainato dalle esportazioni come risultante della somma delle competitività dei singoli paesi, ma quello di un grande paese capace di trovare al suo interno il motore della crescita, per migliorare il patrimonio infrastrutturale. la qualità della vita dei propri cittadini, il livello di sicurezza e di benessere generale. Questo non significa affatto rinunciare ad essere competitivi sui mercati mondiali, ma implica assumersi la responsabilità di generare una crescita mondiale che non può che partire dalle aree più ricche della terra.

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Tra circa un mese partirà il quantitative easing della Banca centrale europea. Senza limiti predefiniti, inizia con acquisti di 60 miliardi di titoli di stato al mese e dovrebbe durare fino a settembre 2016, ma tutto dipende dall’andamento dell’inflazione: se rimane troppo lontana dal valore target del 2% la Bce andrà avanti con il Qe. Con un limite molto importante, però. La banca presieduta da Mario Draghi potrà comprare solo titoli di paesi membri che abbiano almeno un rating «investment grade». Non, quindi, le obbligazioni classificate come spazzatura dalle agenzie di rating. Il merito di credito della repubblica italiana, com’è noto, è solo un gradino al di sopra della soglia dei junk bond. BBB- è l’ultimo rating del Btp, un notch di distanza dal livello dei junk bond che li renderebbe inacquistabili dalla Bce.

L’Italia, dunque, balla sul ciglio del quantitative easing: senza riforme e senza ripresa economica rischia un nuovo downgrade e con esso l’esclusione dai benefici della manovra varata da Francoforte. Significa che le agenzie di rating hanno ora un vero cannone a disposizione per forzare la mano dei governi della periferia mediterranea dell’Eurozona e costringerli a fare vere riforme dei singoli mercati e le eventuali necessarie privatizzazioni. Per una ragione semplicissima: il ribasso alla categoria C del rating dei Btp si tradurrebbe, automaticamente nei fatti, nell’attivazione del cosiddetto scudo antispread, cioè nella richiesta da parte dell’Italia del programma Omt che permette alla Bce di comprare anche i titoli spazzatura dei paesi che hanno già concordato con Bruxelles e Francoforte un piano di interventi e di riforme. In pratica a Roma sbarcherebbe la Troika.

L’allentamento monetario di Francoforte rappresenta l’ultimo giro di campo per i paesi europei a basso rating ed elevato spread. Devono viverlo come l’ultima spiaggia, l’ultima occasione offerta dalla Bce per aiutare e rendere fattibile un programma di ambiziose riforme, accompagnate da tagli strutturali della spesa corrente, la cosiddetta spending review della burocrazia, e da sensibili cali nella pressione fiscale. Solo così il pil si rimetterà in moto e il rating uscirà dall’area rischiosa del giudizio «spazzatura». Non c’è più possibilità di comprare altro tempo: o Roma fa le riforme oppure perde la sovranità. E farsi distrarre dalla demagogia inconcludente di Alexis Tsipras non serve a nulla per raggiungere l’obiettivo che interessa all’Italia. Roma non è Atene, perché ha una vera manifattura e una vera economia da difendere.

Un’intesa sul Capo dello Stato potrà far ripartire il Paese

Un’intesa sul Capo dello Stato potrà far ripartire il Paese

Francesco Forte – Il Giornale

L’elezione di un capo dello Stato, dotato di spessore politico e prestigio internazionale, capace di assicurare l’equilibrio istituzionale e la continuità della legislatura è importante per mettere a frutto i fattori favorevoli che intervengono per l’economia, col ribasso del petrolio assieme alla nuova politica monetaria della Bce. Il centro studi della Confindustria ha rettificato al rialzo le stime del Pil, con un aumento del 2,1 nel 2015 e di 2,5 nel 2016. Il petrolio a 45-50 dollari riduce i costi di produzione e di trasporto. L’acquisto massiccio di titoli pubblici da parte della Bce (chiamato quantitative easing) aumentando l’immissione di moneta nel circuito economico fa scendere il tasso di interesse e il cambio euro/dollaro incrementando l’export. Inoltre accresce i fondi delle banche disponibili per crediti a imprese e famiglie.

La Confindustria fra i fattori favorevoli cita anche il fatto che la domanda interna ha cessato di diminuire. Ma ammette che alle sue stime ottimistiche si può fare una tara per tenere conto delle difficoltà perduranti in Italia. E qui c’è il suono di un’altra campana, quella della Banca di Italia che riecheggiando Draghi, cioè la Bce, avverte che per cogliere i benefici del quantitative easing bisogna avere continuità nelle riforme e nel consolidamento del bilancio pubblico (riduzione del deficit e del debito). Ed ecco, dunque, che l’elezione del capo dello Stato (tema su cui né Confindustria né la Banca centrale si addentrano, per correttezza istituzionale) in un clima di serenità fra le maggiori forze politiche è molto importante, per la svolta verso la crescita del Pil sopra il 2%. Svolta di cui abbiano grande bisogno dopo tre anni di decrescita sia del Pil che dell’occupazione, in un clima di depressione non solo economica, ma anche morale.

Non possiamo permetterci il lusso di elezioni anticipate, con una legge elettorale strettamente proporzionale, quale quella vigente, che, data la pluralità di forze politiche rende incerto il tipo di governo che ne potrebbe venire fuori e precaria la sua durata. Dopo l’abbattimento di Berlusconi per ragioni pretestuose, nei tre anni successivi ci sono stati quattro governi: un governo Monti, un governo Letta, un governo Letta bis e un governo Renzi con quattro differenti formule e composizioni. Ma nel quarto trimestre del 2014 gli ordini d’acquisto di macchinari industriali delle imprese italiane sono aumentati del 19,1% con un aumento della domanda dall’estero del 19,3 e di quella nazionale del 18,1. La domanda estera cresce in funzione del ribasso dell’euro che ci rende più competitivi. La domanda interna di macchinari cresce perché le nostre imprese li stanno ordinando per sostituire quelli vecchi e ammodernarsi, confidando che il peggio sia passato e che valga la pena di investire per il futuro.

Su cíò gioca il fatto che è emerso un quadro di maggior stabilità politica, dovuto alla tenuta del «Patto del Nazareno». Ciò ha consentito al governo di non impantanarsi nel dissidio fra le correnti del Pd e ha generato la convinzione che la legislatura durerà. Il perdurare della prevedibilità del quadro politico è necessario in generale, per gli investimenti delle imprese e delle famiglie e per le banche per indurle alla cessione alla Bce di titoli pubblici per dare maggiori prestiti all’economia. Un capo dello Stato dotato di spessore politico, di prestigio e di equilibrio, che sia un fattore di coesione ci occorre anche sul piano internazionale, per mettere a frutto i nuovi fattori favorevoli, perché l’Italia deve mediare fra i rigoristi a senso unico di marca tedesca e i lassisti di conio greco. Ci occorre, più che mai, l’unità nazionale e l’immagine di una grande nazione, se vogliamo uscire dalla crisi.