Edicola – Opinioni

Un mercato del lavoro a due facce

Un mercato del lavoro a due facce

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

L’economia cresce, ma la popolarità del presidente Barack Obama è puttosto bassa. Sembra essersi interrotto il legame tra l’andamento dell’economia e il consenso per l’Amministrazione federale. Cosa è accaduto? Sono molte le cause della disaffezione degli americani per Obama, e alcune sono tutte politiche. Il presidente ha giocato tutto sulla creazione delle aspettative, le quali a volte possono davvero essere più importanti delle politiche concrete, purché si conservi credibilità. Gli americani si aspettavano un nuovo patto sociale, ma l’Amministrazione ha fatto troppo poco. Ha varato Obamacare, l’ampliamento del sistema sanitario pubblico, ma non è bastato.

E l’occupazione in crescita, la ripresa ormai stabile, l’uscita dalla crisi? I numeri non ingannino. Gli Stati Uniti, visti dagli europei, sono in una posizione invidiabile, ma gli americani non sono contenti. La disoccupazione è calata al 5,9%, ma a fine 2013 – l’ultimo dato disponibile – solo il 72,5% degli americani in età di lavoro aveva o cercava attivamente un’occupazione: è un numero piuttosto basso, il minimo dal 1980. Per i più giovani – 15-24 anni – la partecipazione era intanto ai minimi dal 1963, al 54,8%, e il 45% che non lavorava non era composto da persone che continuavano tutte a studiare: il numero degli scoraggiati è alto anche negli Usa, dove la disoccupazione giovanile è ancora al 13,5%, sia pure in calo dal 19,5% di agosto 2010.

Il malessere del mercato del lavoro non finisce qui. Negli Stati Uniti le protezioni al posto di lavoro sono limitate – e dipendono da Stato a Stato, da azienda ad azienda – ma il precariato è considerato un’anomalia. Nell’attuale situazione, molte persone chiedono un lavoro a tempo pieno, ma trovano solo part-time. Questo disallineamento tra domanda e offerta è considerato un problema, per esempio dalla Federal reserve che anche per questo motivo continua a mantenere una politica monetaria comunque molto espansiva, anche se la crescita appare quantomeno stabile. È anche a livelli molto alti il numero delle persone che cercano attivamente lavoro da più di sei mesi, o un anno, e non lo trovano. Anche la disoccupazione di lungo periodo è considerata un’anomalia, perché distrugge capitale umano: più passa il tempo, più le competenze delle persone si perdono e più le aziende sono disincentivate ad assumerle. Un fenomeno che negli ultimi tempi si è particolarmente accentuato.

Se la Fed, che in fondo deve occuparsi di questioni monetarie, è preoccupata, a maggior ragione dovrebbe esserlo la politica, e l’Amministrazione in particolare. Una buona parte dei problemi dell’occupazione americana sono strutturali: negli Usa più che altrove, c’è un forte disallineamento tra le competenze offerte dai lavoratori e quelli richiesti dalle aziende (che cercano invano, per esempio, muratori e camionisti, non solo superlaureati…). Un problema che richiederebbe politiche molto ben disegnate, e non sempre immediate nei loro effetti.

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

«Debole? No. L’aggettivo è superfluo, evitiamo i qualificativi». «Beh, tutto si può fare ma negare che oggi in Europa la crescita sia debole è ignorare la realtà». Il battibecco tra Angela Merkel e Matteo Renzi si svolge nel rassegnato silenzio generale intorno al tavolo dell’ultimo vertice di Bruxelles. François Hollande tace, risucchiato dalle disgrazie politiche in casa che ne fanno un fantasma in Europa. L’aggettivo naturalmente sparisce dal comunicato finale, dalle righe in cui si parla della situazione economica dell’Eurozona. In questo modo però la sua assenza diventa ancora più eloquente. Assordante. Perché dice che, siccome la Germania cresce meno ma cresce ancora e più degli altri, il problema non esiste a livello collettivo, è questione individuale, nazionale.

Ovviamente se il problema della crescita debole non è europeo, per risolverlo non servono iniziative europee e piani di investimento continentali: se e quando arriveranno, non potranno essere che una gentil concessione, un gesto più o meno simbolico, non certo la sferzata di rilancio necessaria a battere recessione, deflazione e disoccupazione che deprimono molti Paesi e cominciano a trascinare verso il basso anche la congiuntura tedesca, a rischio di recessione tecnica. Tutto questo significa anche, chiacchiere a parte, che le molle fondamentali dello sviluppo in Europa restano sempre le stesse, due e non tre, le solite. Cioè riforme strutturali e rigore, un po’ più temperato sì ma con estrema moderazione e la flessibilità delle regole Ue ridotta al minimo indispensabile. Evidentemente agli occhi del cancelliere tedesco la credibilità delle norme oggi è più importante della stabilità economica e finanziaria: di fronte ai mercati o all’elettorato tedesco?

La conferma che ben poco per ora è destinato a cambiare sotto il cielo europeo è arrivata del resto nelle ultime 48 ore. Alla fine Italia e Francia hanno evitato la clamorosa bocciatura delle rispettive leggi di bilancio per il 2015. Francia e Italia hanno ottenuto qualche margine di manovra in più vista l’avversa situazione economica in cui si trovano ma, per scongiurare una sanzione politica senza precedenti (che l’Europa poteva permettersi solo a proprio rischio e pericolo) hanno dovuto andare a Canossa, rassegnarsi a ridurre, a suon di miliardi in più messi in finanziaria, gli scostamenti dagli impegni che avevano previsto. Jirki Katainen, che sarà dal primo novembre uno dei due vice-presidenti Ecofin nella nuova Commissione Juncker, ha comunque immediatamente provveduto a rovinare la festa dissipando ogni possibile equivoco. Ha chiarito che lo sconto sarà una tantum: non varrà retroattivamente anche per l’anno in corso, quindi le verifiche di Bruxelles potrebbero anche concludersi con la comminazione di multe agli indisciplinati. Nessuna grazia nemmeno per altre deviazioni dalla retta via macro-economica. L’Italia è già nel mirino di una procedura Ue per superdebito ed eccessivi divari di competitività. Pacta servanda sunt : il concetto è impeccabile, difficile non condividerlo. Del resto il timore che una flessibilità di manica larga possa indurre i Governi ad allentare gli sforzi di risanamento e modernizzazione, nasce non dalla paranoia di pochi ma da un’esperienza consolidata.

La realtà però questa volta stride, deborda dalle gabbie giuridiche quando l’economia europea rischia la sindrome giapponese, elettroencefalogramma piatto per una decina di anni. Non si esce dal tunnel, ha avvertito il presidente della Bce, Mario Draghi, all’ultimo vertice Ue, con «la strategia della speranza». Se rigore e riforme sono urgenti e necessari, a patto di non farne indigestione, oggi da soli non bastano. Oltre a una politica monetaria accomodante e a un euro dal cambio più competitivo, ci vuole anche la crescita e al più presto, senza attendere i tempi fisiologici in cui la cura di risanamento darà i suoi frutti positivi. Altrimenti l’Europa finirà impiccata alle sue regole. Anche la Germania, che si illude di essere immune dai problemi altrui, ne pagherebbe lo scotto. Del resto già si avvertono i primi segnali.

I colpi sotto la cintura del sindacato

I colpi sotto la cintura del sindacato

Gaetano Pedullà – La Notizia

Ripetere cento volte una menzogna non la farà diventare verità. Ma per Camusso, Landini e compagni non ci sono dubbi: «Il Presidente del Consiglio dovrebbe provare ad abbassare i manganelli dell’ordine pubblico» ha detto la segretaria Cgil, come se la decisione di manganellare i lavoratori delle acciaierie di Terni fosse partita dal Governo. Ora a Renzi si possono fare molte critiche, ma travestito da picchiatore folle non è facile immaginarlo nemmeno a carnevale. E allora bisogna rafforzare la menzogna. Il leader delle tute blu ammonisce: «Non si ripeta più». E i metalmeccanici della Fiom proclamano 8 ore di sciopero generale. Le manganellate nello scontro della politica volano anche sotto la cintura. Il giochino però è chiaro: c’è una parte di questo Paese che le riforme non le vuole. Dunque bisogna togliere al premier l’abito del rottamatore per fargli indossare quello dello squadrista, del garante dei poteri forti, del nemico dei lavoratori. Siamo con le pezze al sedere, ma invece di tirare tutti insieme la carretta, in questo povero Paese c’è un sindacato che non sa fare altro se non frenare e denigrare. Dove ci hanno portato questi signori è sotto gli occhi di tutti.

Meno società e più asili

Meno società e più asili

Pierfrancesco De Robertis – La Nazione

Il governo chiede di ridurre e riorganizzare la spesa degli enti locali, e per tutta risposta da governatori e Sindaci riceve sempre la solita risposta: se ci date meno soldi taglieremo i servizi. I Sindaci tagliano gli asili, i presidenti di Regione i posti letto. Eppure i Sindaci, come i governatori, più di una cosa da «farsi perdonare» ce l’hanno. Ma nessuno, di fronte all’esigenza di rimodulazione della spesa, offre la propria disponibilità a mettere in gioco qualcosa di ciò che si è conquistato negli anni. Tutti invocano i sacrifici, basta che a farli siano gli altri. Vecchia storia, vecchia Italia.

Nei Comuni non ci sono i Fiorito che hanno spopolato nei consigli regionali, certo, ma i margini di risparmi possibili sono notevoli. Prendiamo per esempio il caso delle società municipalizzate e la proposta di eliminare i piccoli Comuni, quelli sotto i mille o duemila abitanti, per accorparli ai più grandi. Avete sentito qualche Sindaco proporre l’eliminazione di una partecipata invece di un asilo nido? O qualche Sindaco di un piccolo Comune dire che in fondo se si fosse unito a quello vicino, sacrificando quindi la propria poltrona, forse i soldi risparmiati sarebbero stati indirizzati all’assistenza domiciliare per i non autosufficienti? Nel caso segnalatecelo.

I Sindaci negli ultimi tempi hanno goduto di una «stampa» migliore rispetto alle Regioni o alle semi-defunte se pur ancora vivissime province, ma a ben guardare non sono immuni dall’accusa di sprechi. L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli aveva indicato in 34 miliardi all’anno il risparmio possibile dalla riduzione delle partecipate, dalle attuali 8mila a circa mille, e delle 8mila quasi tutte erano nei Comuni (le Regioni ne hanno in tutto meno di 500). Cottarelli aveva consigliato al governo di inserire nella legge di Stabilità l’obbligo del taglio, ma poi tutto è sparito nel nulla, e i Sindaci si sono ben guardati dal ritirar fuori la cosa: municipalizzate vogliono dire posti nei cda, nomine, potere e sottopotere. Stessa cosa per i piccoli Comuni. Tremonti decise di eliminarli: rivolta generale e marcia indietro. Anche lì i tre-quattromila Comuni di troppo significano tre-quattromila Sindaci, qualche decina ai migliaia di assessori e via dicendo. Guai toccarli. Se poi saltano gli asili chissenefrega.

Can che abbaia

Can che abbaia

Enrico Cisnetto – Il Foglio

In Europa abbiamo perso 2-0. Ora non commettiamo l’errore di far finta che non sia così, altrimenti sarà impossibile metterci rimedio e continueremo a perdere. Di quale partita sto parlando? Di quella che misura il peso specifico dell’Italia nell’eurosistema. In particolare, i due gol li abbiamo beccati sul terreno del nostro potere decisionale sulle politiche di bilancio e su quello del sistema bancario e gli obblighi che è costretto a contrarre.

Che il primo sia un gol a tutti gli effetti lo ha certificato un arbitro di vaglia come Jean-Paul Fitoussi: Italia e Francia non hanno affatto rotto gli schemi di gioco di Bruxelles, anzi, si sono fatte imporre i vincoli europei molto più di quanto abbiano raccontato ai propri cittadini. E non è tanto o solo questione di numeri. Infatti, che la correzione dei conti rispetto al mezzo punto percentuale previsto dall’Europa sia stata dello 0,33 come dice il Tesoro o dello 0,38 come sostiene chi ha rifatto i calcoli, poco cambia: 17 o 12 decimi di punto che sia, non siamo certo di fronte non dico a una rottura, ma neppure a una significativa presa di posizione. Non abbiamo detto, come pure i francesi: noi facciamo così, poi ne riparliamo. O meglio, questo abbiamo raccontato in casa di averlo detto, per mostrare muscoli che in realtà non abbiamo o che comunque non usiamo oltre confine. Al contrario, abbiamo negoziato per ridimensionare una forzatura che già era meno importante di quanto non fosse stato fatte immaginare con le solite slide, e che strada facendo è diventata ancor meno significativa. Alla fine lo scarto sul deficit programmato è troppo per passare inosservato e poco per determinare un cambio di linea, rispetto a quella a marchio tedesco dell’austerità.

Ma proprio perché abbiamo provocato – il cane che abbaia dà fastidio anche se non morde – è arrivato il secondo gol: le bocciature agli stress test bancari. Nove banche sulle 25 mandate in purgatorio, 4 (poi scese a 2) su 13 quelle bocciate, significa che è stato acclarato che un terzo dei problemi del sistema bancario europeo è tricolore. Possibile? Ragionevolmente no. A parte le considerazioni da me svolte in questa sede venerdì scorso sull’inopportunità di procedere a un pubblico lavacro di questo genere quando nel sistema finanziario mondiale ci sono problemi di ben maggiore portata e pericolosità (oggi nel mondo c’è il 25 per cento in più della massa di derivati esistenti nel 2008 al momento della scoppio della grande crisi) e quando sarebbe stato sufficiente ricorrere a una più silenziosa ma ben più efficace azione di moral suasion, basta mettere in fila alcune questioni per capire che l’operazione stress test richiedeva ben altra attenzione e attività lobbistica da parte del governo di Roma.

Quali? Prima di tutto il trattamento concesso alla Germania: le casse dei Lander non erano tra le 131 banche europee esaminate, non ha importato a nessuno che il 70 per cento degli attivi degli istituti tedeschi sia relativo a rischi finanziari (per quelli italiani è circa il 40 per cento) e solo il rimanente riguardi impieghi rivolti a imprese e famiglie, ma soprattutto non si è tenuto per nulla conto dei 250 miliardi spesi a sostegno del sistema bancario tedesco dal 2008 a oggi. A fronte, per esempio, del quasi nulla (i bond dati al Paschi, per di più al tasso usuraio del 9 per cento, e già quasi del tutto restituiti) dato dall’Italia alle sue banche. Se poi a questo si aggiungono le diverse modalità di giudizio usate, sapendo che il patrimonio dipende da come lo calcoli (se fossero stati usati i dati 2014 anziché quelli dell’anno precedente, Mps e Carige non sarebbero state bocciate) e a quali elementi lo parametri, ecco che ne esce un quadro di disparità in cui come minimo c’è disparità di trattamento tra nord e sud dell’Europa, se non proprio un trattamento specifico per l’Italia.

Di fronte a queste considerazioni, che era possibile fare da tempo se solo si fosse posta un po’ di attenzione a un tema così delicato, forse avremmo potuto far presente le buone ragioni italiane, e se del caso anche alzare la voce. Anche perché, siccome tutta questa “ammuina” è stata fatta per arrivare al (lodevole) obiettivo del mercato bancario unico europeo, una volta fatta l’integrazione poi non si può più tornare indietro. Qualcuno faccia il calcolo di cosa ci è costata la pazza idea di cedere a Londra il controllo di Piazza Affari, e poi ne parliamo.

Insomma, la vicenda delle banche non è cosa che riguardi solo loro, i loro azionisti e obbligazionisti – che già sarebbe un buon motivo per occuparsene – e neppure solo dei loro clienti – che sarebbe motivo di preoccupazione – ma riguarda l’intero sistema economico. Tanto più in un paese dove il cavallo dell’economia non beve da sette anni. Dunque, non era il caso di aprire un fronte con la signora Merkel anche su questo tema? Trasparenza per trasparenza, possiamo sapere cosa hanno fatto i signori del Tesoro in questa circostanza? Magari stamattina il ministro Padoan alla giornata del risparmio officiata dall’Acri ce lo potrebbe raccontare. Magari.

Pennisi: «Negli Usa un lavoro a tempo è un’occasione per crescere»

Pennisi: «Negli Usa un lavoro a tempo è un’occasione per crescere»

Giulia Cazzaniga – Libero

Ha lavorato negli Stati Uniti, alla Banca Mondiale, è stato dirigente generale ai ministeri del Bilancio e del Lavoro e docente di economia alla Johns Hopkins University e della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Oggi Giuseppe Pennisi è presidente del board scientifico del centro studi ImpresaLavoro e insegna all’Università Europea di Roma.

Pennisi, dai dati sembra che i contratti in Europa stiano prendendo un’altra direzione rispetto a quella che il governo ha messo sotto la lente della Riforma. Aumentano i contratti in somministrazione. Come lo spiega?
«L’Europa sta prendendo una strada molto diversa rispetto a quella intrapresa dal governo italiano. Occorre una premessa: non credo affatto che il diritto del lavoro e la sua regolamentazione abbiano effetti sull’occupazione, mai si è verificato nel mondo. Trovo il dibattito italiano su articolo 18 e contratto a tutele crescenti stucchevole, a dire il vero».

Perché?
«Sono stato io stesso promotore in passato delle tutele crescenti, ma il modello è sensato bisogna stare attenti. L’interpretazione di questo contratto infatti può essere: ti assumo, ma prima che la tutela sia troppo elevata prendo un altro lavoratore al tuo posto che mi costa meno».

Gli imprenditori le risponderebbero: se la persona è valida non lo licenzieremo.
«Vero, ma i dati sui contratti in somministrazione dimostrano una prassi che ho riscontrato fin dal tempo in cui lavoravo in Banca Mondiale. Negli Stati Uniti il lavoro somministrato da agenzia è la prassi. Viene addirittura preferito il contratto temporaneo, perché si è tutelati dall’agenzia e perché si affrontano nuove sfide in continuazione. In Giappone, ai tempi del boom, ricordo il colloquio con il rettore di un’università molto importante. È un anneddoto, ma spiega bene il mio pensiero. Lui mi raccontò che tutti i professori erano contrattualizzati soltanto per un anno e che in 35 anni di professione non aveva visto nessun licenziato: il sistema funzionava perfettamente e dava al Paese un valore aggiunto sulla formazione che permetteva di crescere in produttività e competitività. Mettersi alla prova in continuazione, ecco il segreto per vincere le sfide della vita».

In Italia non abbiamo mai avuto una cultura del lavoro simile, pensa sia stata questa la fonte della crisi?
«No, io imputo la maggior parte dei problemi di oggi all’entrata nell’euro: non eravamo pronti e già avevo previsto che avrebbe creato disoccupazione e disagio sociale. Non si può pensare che dovendo sottostare ai parametri di Maastricht saremmo diventati più produttivi. Per inciso, studi recenti dimostrano che ogni volta che l’Italia è arrivata al pareggio di bilancio è sempre seguito un periodo di rallentamento dell’occupazione e della crescita economica. Chiedo quindi: ne vale dawero la pena? Sarebbe poi dovuto cambiare il comportamento di molti, dalle famiglie alla classe politica, perché le conclusioni fossero diverse».

Ovvero?
«In Germania – non posso prevedere se sia arrivato anche per questo Paese il momento di uno “stop” – per salvare la Volkswagen fecero leggi che non avevano il nome del ministro che le creò bensì il nome del capo del personale dell’azienda. A tutto il Paese sembrava che una perdita industriale del genere sarebbe stato un po’ come per noi perdere il Colosseo. I sindacati all’interno dell’azienda sono la vera forza dell’impianto industriale tedesco».

Tre mine sotto la manovra

Tre mine sotto la manovra

Luca Ricolfi – Panorama

Dopo settimane di indiscrezioni, tabelle, contro-tabelle, slide e tweet, la manovra (o Legge di stabilità) ha finalmente una forma ben definita. anche se suscettibile di ulteriori modificazioni per iniziativa del Parlamento. Che cosa se ne può dire? Devo confessare che sono alquanto perplesso. Intanto perché c’è uno scarto enorme fra le slide per la stampa e le tabelle per l’Europa. Nella sua fase propagandistica Matteo Renzi aveva annunciato 20 miliardi di tagli dei cosiddetti sprechi (più del piano di Carlo Cottarelli) e 18 miliardi di tasse in meno.

La realtà è decisamente diversa: le minori tasse sono pari a circa 11 miliardi (non a 18), le minori spese sono pari a 15 miliardi (non 20) quasi completamente «mangiati» da nuove spese (11 miliardi), per cui alla fine la riduzione della spesa pubblica è di soli 4 miliardi. E poiché le minori spese (4) non bastano a coprire le minori entrate (11), la differenza viene coperta aumentando il deficit di 6-7 miliardi (dopo le correzioni richieste da Bruxelles). Come dire che il grosso della riduzione delle tasse viene finanziato in deficit, il che non è precisamente quel che ci si aspetta quando si parla di contenere l’interposizioue pubblica e il ruolo esorbitante dello Stato. Ma c’e anche una seconda ragione di perplessità ed è che, aldilà del gioco delle tre carte sulle cifre, la manovra è davvero difiicile da valutare. Nella manovra, infatti, sono contenute almeno tre incognite, o forse sarebbe meglio dire tre ordigni a scoppio ritardato, di cui è impossibile valutare ora l’impatto. A seconda di come si comporteranno questi tre ordigni la manovra potrà risultare la svolta positiva che tutti ci auguriamo, oppure 1’ennesima beffa al danno degli italiani.

Vediamo dunque i tre ordigni. Il primo ordigno è l’aumento del deficit. Se i mercati stanno zitti e buoni, nessun problema. O meglio: solo un piccolo problema, qualche miliardo di debiti in più sulle spalle delle generazioni future. Ma se i mercati si risvegliano, perché c’è una nuova tempesta finanziaria in Europa o anche semplicemente perché si accorgono che le riforme promesse stentano a decollare, allora possono essere guai seri per l’Italia. L’andamento positivo dello spread in questi mesi, infatti, è un dato del tutto ingannevole: i rendimenti dei nostri titoli di Stato si sono avvicinati a quelli della Germania, è vero, ma molto meno di quanto hanno fatto quelli degli altri Pigs (Portogallo, Irlanda. Grecia, Spagna). In concreto vuol dire: in caso di crisi siamo più esposti di prima alla speculazione.

Il secondo ordigno è la spending review, un’operazione da 15 miliardi che il governo non sta usando per ridurre il perimetro della Pubblica amministrazione ma per finanziare qualcosa come 11 miliardi di nuove spese (senza contare i 9,5 miliardi del bonus da 80 euro, una voce che l’Europa conteggia fra le spese, e che il governo include invece, secondo me abbastanza giustamente, fra le minori tasse). Ebbene, l`esperienza del passato fa pensare che. in assenza di piani dettagliati di riorganizzazione dei servizi, 15 miliardi di spesa pubblica in un solo anno non si possano tagliare senza tagliare anche i servizi. Quindi lo scenario più verosimile è che regioni, province, comuni. Sindacati impediranno una completa effettuazione dei tagli, il deficit pubblico aumenterà, e scatteranno le «clausole di salvaguardia» annidate nella Legge di stabilità. Di che cosa si tratta? Si tratta di aumenti automatici dell’Iva (e di altre tasse) che andranno a coprire il buco nei conti pubblici generato dai mancati risparmi di spesa. La Legge di stabilità già li prevede in dettaglio: 12,8 miliardi di maggiori tasse nel 2016, 19,2 miliardi l’anno successivo, 21,3 miliardi nel 2018, cui si aggiungono dal 1° gennaio 2018 aumenti della benzina e del gasolio da carburante. E come se non bastasse, al contribuente tocca anche sentirsi le rassicurazioni del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan via Twitter: «l’impegno politico è per il non aumento dell’Iva». Un vero insulto all’intelligenza degli elettori, cui viene chiesto di fidarsi delle promesse di un ministro di cui nessuno può sapere se al momento buono sarà ancora in carica, e che comunque non avrà alcuna difficoltà a tirare fuori la solita penosa tiritera cui i politici ricorrono in questi casi: la situazione è cambiata, allora non potevamo sapere che la crisi sarebbe durata ancora a lungo, nel frattempo sono intervenuti eventi eccezionali, e via giustificando. L’andamento positivo dello spread è un dato ingannevole: i rendimenti dei nostri titoli di Stato si sono avvicinati a quelli della Germania, è vero, ma molto meno di quanto hanno fatto gli altri Pigs.

C’è anche un terzo ordigno, tuttavia. Qui prudenza è d’obbligo, perché mancano ancora troppe informazioni, se non altro perché nessuno può sapere che itinerario seguirà il «Jobs act». Però il dubbio mi sembra non possa essere taciuto: l’impegno ad azzerare i contributi a carico del datore del lavoro per tutte le imprese che assumono a tempo indeterminato nel corso del 2015 rischia di non produrre un numero apprezzabile di «veri» nuovi posti di lavoro, ossia posti che altrimenti, senza la decontribuzione, non sarebbero stati creati. Lo scenario più probabile, a mio parere, è quello di un assalto alla decontribuzione da parte di imprese che cercheranno semplicemente di usufruire del beneficio, senza creare nuova occupazione. La decontribuzione, infatti, non è concentrata sulle imprese che incrementano l’occupazione, e rischia quindi di rivelarsi come una semplice misura di abbattimento dei costi aziendali, senz’altro meritoria ma poco adatta a creare posti di lavoro davvero addizionali. Il rischio, in poche parole, è che il plafond previsto dal govemo (1,9 miliardi) non basti a soddisfare tutte le richieste (perché tutte le imprese vogliono godere dello sconto), e nello stesso tempo i posti di lavoro genuinamente incrementati finiscano per essere assai pochi.

A chi giova paralizzare il paese

A chi giova paralizzare il paese

Gaetano Pedullà – La Notizia

Quattro lavoratori disperati feriti, altrettanti poliziotti in ospedale. Il bollettino di una inutile guerra tra poveri segnala che l’autunno caldo sarà lungo. Troppo forte il disagio sociale, troppe le aziende in crisi. Le manganellate ai manifestanti che volevano dirigersi senza autorizzazione alla stazione Termini fanno male però anche al Governo. Sindacati e minoranza del Pd, ormai in rotta totale con Palazzo Chigi, hanno preso la palla al balzo per dimostrare un fantomatico accanimento contro le incolpevoli vittime della crisi. Ovviamente non c’è niente di più lontano dalla realtà, ma quando la politica scade a certi livelli ogni argomento è buono per colpire l’avversario. E nessuno – con Renzi in testa – si è mai illuso che le riforme in questo Paese possano essere fatte a costo zero. Poveri poliziotti minacciati hanno reagito alla tensione della piazza, ma senza sporcarsi le mani solo poche ore prima la Camusso aveva accusato il premier di essere stato messo a Palazzo Chigi dai poteri forti. Con questo continuo avvelenare i pozzi, dopo venti anni di referendum su Berlusconi rischiamo di continuare a paralizzare il Paese. Quello che vogliono Camusso & C. Non possiamo permettercelo.

La nuova sfida dei lavoratori

La nuova sfida dei lavoratori

Maurizio Sacconi – Il Tempo

Poco tempo fa un grande leader del sindacato nord americano ha assegnato alle organizzazioni che rappresentano gli interessi dei lavoratori la elementare ma efficace missione di «fare ceto medio». Ed ha aggiunto che il maggiore benessere può essere conquistato dai lavoratori non soltanto ottenendo una migliore distribuzione della ricchezza una volta prodotta ma concorrendo responsabilmente alla sua stessa produzione. «La soddisfazione del cliente – ha ancora affermato – è affare anche nostro e non solo di chi possiede o dirige l’impresa». È una bella lezione per il sindacato italiano che in alcune sue componenti continua ad avere l’obiettivo «di cambiare il mondo» nella convinzione che il mondo stesso cammini sulla base di un fertile conflitto tra classi sociali contrapposte.

È evidente invece che nella competizione globalizzata i lavoratori sono chiamati certamente a condividere il rischio d’impresa per i suoi profili negativi e devono avere per questo l’ambizione di voler partecipare di quello stesso rischio anche per la buona sorte. Il salario, definita per legge una sua dimensione minima, può e deve essere sempre più negoziato quindi nella dimensione dell’azienda ancorandolo alla produttività, ai risultati, agli utili. E la stessa azienda può configurarsi sempre più come una comunità di persone che si riconoscono e si accettano in relazione ad un destino comune, sostenuto anche da istituti integrativi di protezione sociale dei lavoratori e delle loro famiglie.

In questa dimensione il sindacato non ha più titolo a poteri di veto su norme di legge o su politiche pubbliche. Esso si esprime liberamente e liberamente viene ascoltato insieme a tutti gli altri corpi intermedi che rappresentano interessi. La riforma del lavoro sarà l’occasione per dimostrare che governo e Parlamento ascoltano tutti ma responsabilmente decidono nella loro autonomia istituzionale per un mercato del lavoro inclusivo, nel quale l’occupabilità di ciascuno è la conseguenza del diritto di accedere alle conoscenze e alle competenze e non di un freddo articolo di legge.

Mammellone fiscale

Mammellone fiscale

Davide Giacalone – Libero

Chiamare gli italiani con i redditi più alti a contribuire straordinariamente, per abbattere parte del debito pubblico, ma farlo senza che questa sia una patrimoniale, bensì volontariamente. Dato che la volontà va incentivata, aggiunge Paolo Cirino Pomicino, ideatore della proposta, a chi vorrà versare si garantiscano quattro anni senza accertamenti fiscali, sempre che il loro reddito cresca dell’1,5% ogni anno. Mi convince. Non mi piace. Integro.

Il ragionamento è convincente perché (come qui si è cento volte ripetuto, facendo riferimento alla dismissione di patrimonio pubblico) far scendere d’un colpo, significativamente, il debito pubblico ne diminuisce l’enorme costo in interessi. Quindi non solo libera dal debito (in parte), ma libera risorse altrimenti impiegabili. Convincente. Non mi piace, però, il riferimento esclusivo alla sospensione dei controlli fiscali, per la semplice ragione che, automaticamente, escluderebbe me, e molti altri, da quanti potrebbero contribuire. Mi rifiuto, infatti, di sborsare un solo centesimo per prendermi pure il certificato di evasore fiscale. Avendo pagato sempre tutto, quindi già troppo.

Propongo un doppio binario: su uno viaggia il convoglio Pomicino; sull’altro si offra un patto al contribuente che se lo può permettere: tu anticipi, per due anni, una parte del gettito fiscale e lo Stato, in cambio, ti fa uno sconto più che proporzionale sull’aliquota che dovrai pagare, nei due anni successivi. È un patto virtuoso, perché da entrambe le parti si scommette sulla crescita: lo Stato risparmiando sugli oneri del debito, il contribuente contando che la ripresa porti con sé un aumento del reddito, quindi un buon affare fiscale. Ci si guadagna tutti.

La domanda cruciale, però, è: cosa si fa con i soldi risparmiati abbattendo il debito? Questa è la vera questione politica. Credo si debbano fare due cose: a. diminuire la pressione fiscale; b. innescare investimenti pubblici infrastrutturali. Paolo Cirino Pomicino dice che gli son cadute le braccia quando ha letto, nella legge di stabilità, che ci si accontenta di previsioni minimali circa la crescita del prodotto interno lordo. Non so cosa possa cadergli, a consuntivo. A me erano cadute prima, con gli 80 euro. Poi replicati. Mi son cadute perché l’idea che gli italiani siano poppanti e che il problema sia la quantità di latte erogabile, tramite il mammellone statale, non è solo sbagliata: è letale. Questa roba è un incrocio, bastardo, fra il keynesismo senza Keynes e il liberismo senza mercato. Fra la convinzione che il mercato possa riprendere velocità solo grazie alla spesa pubblica e il diffidare degli investimenti pubblici, supponendo migliori i consumi decisi dai privati. In questo modo, temo, si fa crescere il debito senza spingere la ricchezza. In altre parole, è un gesto che arricchisce elettoralmente e impoverisce economicamente.

Tale mutazione genetica, tale illegittima filiazione del fanfanismo e del reaganismo, entrambe presunti, è confermata dal fatto che a occuparsi dei grandi investimenti pubblici hanno messo un magistrato. Li guardano con sospetto, se non con un certo schifo. Non che i sospetti non siano fondati, ma se continuo a mettere gli spiccioli in tasca alle persone, senza corrispettivo di produttività, quelli li utilizzeranno in tre modi: a. pagare gli aumenti delle bollette; b. risparmiare il possibile, non fidandosi; c. comprare merce a basso costo, magari prodotta, importata e venduta illegalmente. Nulla che spinga la ricchezza. Gli investimenti pubblici, quindi, sono il giusto contrappeso degli sgravi fiscali e dei tagli alla spesa improduttiva. Resi possibili dall’abbattimento del debito. Altrimenti il solo “ismo” che prende corpo è il laurismo. A quel punto entrambe i binari, quello di Cirino Pomicino e il mio, sono da considerarsi morti. Nel senso che i soldi, chi li ha e può, li porta velocemente via.