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Pil: in 10 anni abbiamo perso 2.800 euro a cittadino. Siamo sotto la media dell’Unione Europea e dell’Area Euro

Pil: in 10 anni abbiamo perso 2.800 euro a cittadino. Siamo sotto la media dell’Unione Europea e dell’Area Euro

Dal 2007 al 2016 gli italiani hanno perduto il 9,8% del loro reddito pro capite, un calo pari a 2.800 euro a cittadino. Dopo essere diminuito da 28.700 a 25.900 euro, questo è ormai scivolato al di sotto della media sia dell’Area euro (29.700 euro) sia dei Paesi dell’Unione europea a 28 (27.000 euro).

Negli ultimi dieci anni, peggio di noi in Europa hanno fatto solo Cipro (-12,3%) e Grecia (-24,7%) mentre nelle altre grandi economie il dato appare meno negativo (-2,9% in Spagna e -1,7% in Portogallo) o addirittura in aumento: +0,6% in Francia, +1,6% nel Regno Unito, +7,8% in Germania e addirittura +31,4% in Irlanda. È quanto emerge da un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

 

Va comunque osservato come nell’ultimo anno (2015-2016) sia stato registrato un aumento del nostro reddito pro capite (+1,2%, pari a 300 euro), contenuto ma pur sempre superiore a quello ottenuto nello stesso periodo dal Regno Unito (+1,0%, pari a 300 euro), dalla Germania (+0,9%, pari a 300 euro), dalla Francia (+0,6%, pari a 200 euro) e dalla Grecia (+0,6%, pari a 100 euro).

In termini assoluti nel 2016 il reddito pro capite degli italiani (25.900 euro) appare ancora superiore a quello degli spagnoli (23.800 euro), dei greci (17.100 euro) e dei portoghesi (16.900 euro) ma resta comunque di gran lunga inferiore a quello della maggior parte dei Paesi europei: Lussemburgo (83.700 euro), Irlanda (53.600 euro), Danimarca (45.700 euro), Svezia (42.700 euro), Olanda (39.500 euro), Austria (36.100 euro), Germania e Finlandia (entrambe con 34.600 euro), Belgio (34.400 euro), Francia (31.700 euro) e Regno Unito (31.400 euro).

«I recenti, timidi segnali di ripresa non devono illuderci» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «La carenza di investimenti pubblici e le perduranti oppressioni fiscale e legislativa deprimono gli sforzi delle aziende e frenano un vero rilancio della nostra economia. A farne le spese non sono soltanto quanti, soprattutto giovani, non riescono a entrare nel mondo del lavoro ma pure gli stessi occupati, molto spesso precari. Trovare il nostro Paese in fondo anche a questa classifica internazionale addolora e preoccupa, soprattutto perché fotografa l’avvenuto impoverimento degli italiani e spiega la perdurante crisi dei nostri consumi interni».

Ricchezza delle famiglie: ancora lontano il livello toccato nel 2006. La metà del valore si concentra al nord e nelle famiglie con capofamiglia over 64

Ricchezza delle famiglie: ancora lontano il livello toccato nel 2006. La metà del valore si concentra al nord e nelle famiglie con capofamiglia over 64

Nonostante la recente crescita, il livello delle attività finanziarie detenute sotto varie forme dalle famiglie italiane è ancora lontano dai livelli fatti registrare nel periodo antecedente la crisi economica.  Nel  2015, infatti, registriamo ancora una flessione dell’1,7% rispetto alla soglia di 4mila miliardi registrata a fine a 2006. Nello stesso periodo solo in Grecia è stata registrata una flessione superiore alla nostra (18,4%). Il dato emerge da un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati di Banca d’Italia, Sistema Europeo delle Banche Centrali, Ocse ed Eurostat.

Nello stesso periodo di tempo le famiglie di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est hanno invece raddoppiato i volumi della loro ricchezza mentre quelle residenti in economie più mature hanno registrato incrementi netti comunque considerevoli. Rispetto a dieci anni or sono le famiglie tedesche sono ad esempio più ricche di oltre 1.300 miliardi (+31,6%), quelle francesi di oltre 1.200 miliardi (+31,9%) e quelle britanniche di 1.900 miliardi di euro (+30%). L’incremento in termini relativi risulta molto rilevante anche in Olanda (+55,9%, pari a 800 miliardi) e in Svezia (+72,6% ovvero 500 miliardi).

Lo studio della ripartizione geografica della ricchezza delle famiglie italiane negli ultimi 10 anni evidenzia una sua maggiore concentrazione nel Nord Ovest (scesa peraltro dal 35,2% del 2006 al 34,6% del 2014) e nel Nord Est (scesa dal 31,9% al 28,0%). Rimasta sostanzialmente stabile nel Centro (dal 21% al 21,5%), questa è invece aumentata al Sud (dall’8,5% all’11,2%) e nelle Isole (dal 3,3% al 4,7%).

Se si prendono in considerazione le differenti classi anagrafiche si può invece osservare come quasi metà della ricchezza sia posseduta dai nuclei con un capofamiglia over 64 (negli ultimi dieci anni si passa dal 28,9% al 47,9%). Questa decresce peraltro con l’abbassamento dell’età del loro capofamiglia: dal 24,5% per la fascia d’età 55-64 anni all’appena il 2,6% per le famiglie guidate da un soggetto under 34 anni. Un segno inequivocabile della difficoltà delle ultime generazioni ad accumulare risparmi.

«Citata come un fiore all’occhiello del nostro sistema finanziario nonché come simbolo della laboriosità e della capacità di risparmio degli italiani, la ricchezza delle famiglie italiane viene trattata dallo Stato come un bancomat al quale attingere spesso e volentieri» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Oltre a una sua crescita inferiore a quella dei principali altri Paesi europei, preoccupa la sua disomogenea distribuzione sia per area geografica sia per classe d’età del capofamiglia. A detenerne la metà in Italia sono infatti le famiglie del Nord e quelle guidate dagli over 64. Un’ennesima conferma di come le attuali politiche del lavoro non riescano a garantire un volano per la crescita economica del Meridione, penalizzando al tempo stesso le giovani generazioni, quasi sempre messe nelle condizioni di non poter accumulare risparmi».

La spesa pubblica consolidata nelle regioni italiane

La spesa pubblica consolidata nelle regioni italiane

Ogni anno la Ragioneria Generale dello Stato realizza un interessante rapporto (La Spesa Statale Regionalizzata) in cui analizza la dimensione e l’andamento della spesa pubblica nelle singole regioni italiane. Un intero capitolo è dedicato alla cosiddetta “Spesa Consolidata”, nella quale vengono incluse oltre alle spese del bilancio statale, quelle realizzate nei territori di riferimento dagli enti locali, da Fondi alimentati con risorse nazionali e comunitarie, da Enti e organismi pubblici.

In questo valore vengono conteggiate, ad esempio, le spese relative al pagamento delle pensioni, degli ammortizzatori sociali o gli oneri relativi alla sicurezza o al controllo dei confini. Il perimetro considerato, quindi, non coincide con le competenze delle singole Amministrazioni Regionali ma punta a ricomprendere la spesa pubblica effettuata in una determinata regione indipendentemente dal soggetto che gestisce quelle risorse.

Nella costruzione del dato consolidato sono stati eliminati i pagamenti intercorsi tra i vari soggetti: potrebbero residuare talune duplicazioni di modesta entità, relative a flussi non evidenziati nelle fonti utilizzate. La Ragioneria Generale dello Stato ritiene che tale circostanza non alteri in modo significativo i risultati della ricerca, in termini di distribuzione tra le regioni.
Rimangono esclusi dal perimetro analizzato gli oneri relativi al pagamento degli interessi sul debito pubblico.

Trattandosi di valori di cassa, la collocazione nella graduatoria di una regione in ciascun anno
potrebbe dipendere in alcuni casi dal profilo di cassa di talune erogazioni di importo più rilevante, le cui annualità potrebbero essersi concentrate in un dato esercizio. L’analisi di ImpresaLavoro prende in considerazione la media degli ultimi tre anni disponibili (2012,
2013, 2014) così da rendere meno evidenti eventuali picchi nelle uscite di cassa dovuti a peculiarità del singolo anno.

La regione con la spesa pubblica pro-capite più elevata è la Valle d’Aosta, con 15.731 euro all’anno. Seguono il Lazio con 13.684, il Trentino Alto Adige con 13.278 e il Friuli Venezia Giulia con 12.975. In coda le regioni più grandi: la Lombardia è ultima per spesa pubblica pro-capite (€ 8.647), preceduta dal Veneto (€ 8.734) e dalla Campania (€ 9.082).

La valutazione cambia se raffrontiamo la spesa pubblica al Prodotto Interno Lordo che ogni singola regione produce. In questo caso le regioni con percentuale di spesa pubblica più elevata rispetto al Pil risultano la Calabria (66,15%), la Sardegna (59,9%) e la Sicilia (56,55%). In fondo alla classifica troviamo le regioni più ricche del Nord: la Lombardia, dove la spesa pubblica pesa per meno del 25%, il Veneto (29%) e l’Emilia Romagna (30%).

Lavoro: in Italia i cittadini extracomunitari trovano lavoro più facilmente dei nostri connazionali

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. E l’Italia è uno tra questi. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat 2016, il tasso di occupazione dei cittadini italiani tra i 15 e i 64 anni residenti nel nostro Paese è del 57,0%, un dato che ci accomuna alla Croazia e che risulta nettamente inferiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (67,1%) sia dell’area Euro (66,1%). In tutta Europa soltanto la Grecia (52,0%) ha un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. In questa particolare classifica siamo quindi nettamente superati da tutti i nostri principali competitor: Svizzera (82,5%), Germania (76,5%), Olanda (75,6%), Regno Unito (73,8%), Portogallo (65,3%), Francia (65,2%), Irlanda (64,7%) e Spagna (59,9%).

Se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola invece verso l’alto, dal penultimo al sedicesimo posto: il nostro 57,8% risulta infatti largamente superiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (53,7%) sia dell’area Euro (52,5%).

Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Oltre all’Italia, solo altri tre Paesi europei hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-3,8 punti percentuali), Slovenia (-0,9) e Grecia (-0,3). Un dato che stride con la media sia dell’Unione a 28 membri (+13,4 punti percentuali) sia dell’area Euro (+13,6). In tutto il resto d’Europa la differenza, espressa sempre in punti percentuali, risulta infatti a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame: Portogallo (+1,0), Spagna (+6,2), Irlanda (+7,2), Regno Unito (+12,5), Svizzera (+17,8), Francia (+20,9), Germania (+24,8) e Olanda (+26,3).

«La cosa che veramente stupisce è il basso tasso d’occupazione dei nostri lavoratori» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Non è immaginabile una grande potenza industriale con numeri di questo livello. Ma in quadro economico così fragile e con una ripresa tanto debole, è anche sorprendente riscontrare che il tasso d’occupazione dei residenti extracomunitari sia addirittura superiore a quello dei nostri connazionali. Un’anomalia che, almeno in parte, dipende dalla disponibilità di questi lavoratori ad accettare occupazioni che ormai gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione. Ma questo non spiega tutto. Il nostro mercato del lavoro sconta un disallineamento strutturale tra offerta formativa e fabbisogni occupazionali delle aziende. E i nostri giovani sono costretti a percorsi di studio che li portano ad entrare tardi e male nel mercato del lavoro, rimanendo inoccupati per lunghi periodi di tempo».

Domani si versa l’acconto Imu-Tasi. Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi (+30,2% rispetto al 2011)

Domani si versa l’acconto Imu-Tasi. Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi (+30,2% rispetto al 2011)

Domani circa 25 milioni di italiani saranno chiamati a versare l’acconto dell’Imu e della Tasi. Nonostante l’abolizione delle tasse sulla prima casa, resta infatti ancora in vigore il prelievo sulle seconde case e sugli immobili diversi dall’abitazione principale.

Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), in Italia il gettito complessivo sugli immobili si è ridotto nel 2016 a 49,1 miliardi di euro (-6,1%). L’anno scorso la pressione fiscale ha toccato comunque valori decisamente più consistenti di quelli registrati nel 2011, con un incremento di 11,4 miliardi di euro su base annua (+30,2%). Lo rileva una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati della Corte dei Conti e di Confcommercio.

Nel periodo 2011-2016 il maggiore incremento registrato ha riguardato la quota patrimoniale del prelievo – più che raddoppiata (+173%) – a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, rimaste sostanzialmente inalterate nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

Il calo di 3,5 miliardi di euro registrato tra il 2015 e il 2016 è interamente attribuibile al taglio della TASI per le abitazioni principali licenziato dal governo nella Legge di stabilità e che ha fatto passare il gettito della misura da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Le entrate derivanti dall’IMU restano invece stabili a 20,4 miliardi su base anna: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva “solo” 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni or sono risulta in crescita anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti, che sono passate da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

«Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una misura che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: un impoverimento del patrimonio delle famiglie, la messa in ginocchio del settore dell’edilizia e una depressione dei consumi e della domanda interna. Motivi più che sufficienti per rispedire al mittente le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale, che in questi giorni insiste per un aggravio in Italia della tassazione patrimoniale degli immobili».

Debiti PA: stock fermo a 64 miliardi, in Europa siamo i penultimi per tempi di pagamento (95 giorni di attesa)

Debiti PA: stock fermo a 64 miliardi, in Europa siamo i penultimi per tempi di pagamento (95 giorni di attesa)

I tempi di pagamento

L’ultima edizione dell’European Payment Report di Intrum Justitia rivela che in Europa il tempo medio di pagamento da parte del settore pubblico è salito da 36 a 41 giorni in un solo anno. Questa situazione si ripercuote negativamente sopratutto sulle piccole e medie imprese, costrette come sono ad accettare termini di pagamento troppo lunghi e spesso imposti dalle imprese più grandi. La piccola buona notizia è che il trend della nostra Pubblica Amministrazione appare in controtendenza, anche per merito della fatturazione elettronica: nel 2016 ha impiegato in media 95 giorni (erano 131 giorni nel 2015) per pagare i suoi fornitori.

Si tratta di un dato inferiore di 8 giorni rispetto alla Grecia e analogo a quello del Portogallo ma che resta superiore di 17 giorni rispetto alla Spagna, di 34 giorni rispetto al Belgio, di 38 giorni rispetto alla Francia, di 43 giorni rispetto all’Irlanda, di 72 giorni rispetto alla Germania e di 73 giorni rispetto al Regno Unito.

Lo stock di debiti della PA

Il 13 marzo 2014 il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre di quell’anno, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato tutti i debiti che la Pubblica amministrazione aveva contratto fino al 2013. A distanza di tre anni, siamo costretti a registrare che lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici è invece rimasto sostanzialmente invariato. La relazione annuale presentata nei giorni scorsi dalla Banca d’Italia certifica infatti che nel 2016 lo stock dei debiti accumulati dalla PA ammonta ancora a 64 miliardi di euro, appena 4 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Le solenni promesse dell’allora premier Renzi sono state completamente disattese. Questo dato conferma quanto abbiamo denunciato a più riprese: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare solo in parte con operazioni spot i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

I costi per le imprese

Per l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro, «ne consegue pertanto un dato gravissimo per tutte le imprese italiane coinvolte: questo ritardo sistematico è infatti costato loro la cifra di 5,3 miliardi sotto forma di accesso al credito per consentire di pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento il dato fornito da Bankitalia e il costo medio del capitale (pari all’8,339% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti».

L’opinione delle imprese 

I ritardi nel pagamento dei debiti commerciali, pubblici e privati, hanno conseguenze per le imprese che vanno al di là degli oneri sostenuti per l’accesso al credito. Il 46% delle aziende italiane, infatti, ritiene che un migliore e più puntuale sistema di pagamenti da parte dei debitori porterebbe all’assunzione di nuovi dipendenti. Per il 61% degli imprenditori, poi, i ritardi nei pagamenti rappresentano una delle cause di licenziamento dei lavoratori già in forza alle imprese e per il 73% degli intervistati il ritardo dei debitori frena la crescita del nostro tessuto imprenditoriale. Dati, questi, molto più elevati della media dei nostri partner europei.

 

Bolletta energetica: negli ultimi sei anni quella delle famiglie è cresciuta del 22,34%

Bolletta energetica: negli ultimi sei anni quella delle famiglie è cresciuta del 22,34%

Dal 2010 al 2016 le famiglie italiane hanno visto crescere del 22,34% i costi per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici: è questo il risultato di una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dei prezzi medi dell’energia elettrica per uso domestico fornita in questo periodo di tempo alle famiglie in tutta Europa.

Rispetto a sei anni fa tra i 28 Paesi oggetto del monitoraggio solo in 8 nazioni il prezzo dell’energia domestica è diminuito: Ungheria (-31,63%), Malta (-23,30%), Cipro (-18,85%), Olanda (-9,67%) Repubblica Ceca (-6,70%), Slovacchia (-6,24%), Lussemburgo (-2,22%) e Polonia (-1,43%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è cresciuta con aumenti anche consistenti: +55,08% in Lettonia, +45,05% in Portogallo, +43,77% in Grecia e +34,48% in Belgio. Tra le grandi economie cresce l’onere per le famiglie anche nel Regno Unito (+33,40%), in Francia (+28,98%), in Spagna (+24,87%), in Germania (+23,54%) e, come detto, Italia (+22,34%).

Nel nostro Paese, quindi, il costo per l’energia elettrica domestica (tasse incluse) è passato da 0,1943 euro per kWh nel 2010 a 0,2377 kWh nel 2016. Stimando nel 2016 un consumo medio annuo per famiglia di 3.199 kWh (fonte: osservatorio facile.it) si ottiene un costo a carico di ogni famiglia per la sola bolletta elettrica di 760,24 euro su base annua. A livello europeo solo in Danimarca, Germania e Belgio l’energia costa di più che nel nostro Paese. Se la stessa famiglia, infatti, si trovasse a vivere in Francia risparmierebbe 217,05 euro su base annua; 155,31 euro se vivesse nel Regno Unito e 45,43 euro se vivesse in Spagna. In Germania, invece, il conto sarebbe più elevato: +190,82 euro.

Si tratta di costi comprensivi di tasse e accise che nel nostro Paese rappresentano il 39,87% del prezzo finale. Un dato superiore alla media sia dell’Area Euro (39,36%) sia dell’Unione Europea a 28 membri (36,07%). L’incidenza delle imposte è più elevata che da noi soltanto in Danimarca (68,65%), Germania (53,41%) e Portogallo (47,28%). Il fisco pesa meno nella bolletta delle famiglie in tutte le altre economie continentali: Francia (35,42%), Grecia (31,75%), Spagna (21,37%) e Regno Unito (19,22%).


«Nel nostro Paese il mercato dell’energia elettrica è stato liberalizzato dal 1 luglio 2007 ma le bollette non sono affatto calate: un paradosso tutto italiano, che purtroppo non verrà sanato con l’approvazione (più volte rinviata) del ddl concorrenza» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Nella parte dedicata alla liberalizzazione del mercato elettrico, è infatti prevista la fine del regime della maggior tutela (per chi ha mantenuto il proprio storico fornitore di energia) e il passaggio obbligatorio al mercato libero entro il luglio 2019. Si tratta in realtà di una spada di Damocle: coloro che entro quella data non avranno provveduto autonomamente al passaggio a un fornitore sul libero mercato si ritroveranno (a loro insaputa) in un basket denominato “servizio di salvaguardia” che già oggi prevede costi maggiori di quelli praticati in regime di maggior tutela. La loro utenza verrà poi riassegnata ad altra azienda a seguito di un’asta con una base di prezzo comunque automaticamente più alta del 20%. Un provvedimento che distorce il mercato e che non potrà che incidere ulteriormente sul bilancio delle famiglie italiane».

Edilizia: nel periodo 2010-2016 Italia agli ultimi posti in Europa per andamento di produzione, ore lavorate e permessi di costruzione

Edilizia: nel periodo 2010-2016 Italia agli ultimi posti in Europa per andamento di produzione, ore lavorate e permessi di costruzione

L’andamento del mercato delle costruzioni tra il 2010 e il 2016 ha registrato un crollo verticale dell’Italia di tutti i suoi indicatori: produzione, ore lavorate e permessi di costruzione. Il nostro Paese si colloca così agli ultimi posti delle rispettive classifiche tra tutti i Paesi dell’Unione europea a 28, in quanto ad arretramento nel periodo temporale considerato. È quanto risulta da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Produzione nel settore delle costruzioni

L’indicatore misura le variazioni complessive nel volume di output del settore costruzioni, depurate dall’inflazione. In buona sostanza misura l’andamento del volume della produzione nel settore e la sua variazione dal 2010 al 2016. L’Italia fa segnare un arretramento del 32,2%: in Europa solo Slovenia (-45%), Cipro (-47%), Portogallo (-47,1%) e Grecia (-47,6%) fanno peggio mentre tutti i nostri principali competitor registrano viceversa dati nettamente più positivi. Se la Francia e la Spagna arretrano rispettivamente del 12,9% e del 3,2%, altri Paesi registrano invece un andamento fortemente positivo: Germania (+7,6%), Regno Unito (+11,3%) e Irlanda (+25,1%). Desta soprattutto impressione che il dato italiano registri un andamento 8 volte peggiore di quello registrato dalla media dei Paesi dell’Unione europea a 28: -32,2% contro -3,9%.

Ore lavorate

Crollano simultaneamente anche le ore lavorate, uno degli indicatori che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. Sempre rispetto al 2010, in Italia nel 2016 si sono lavorate nel settore costruzioni quasi un terzo in meno delle ore (-28,6%), con evidenti ripercussioni sull’occupazione e sul numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. In Europa solo Cipro (-41,0%) e Portogallo (-44,1%) registrano un dato peggiore del nostro. Tutti i nostri principali competitor segnalano invece dati nettamente più positivi. Arretrano anche la Grecia (-17,4%) e la Francia (-9.6%) ma in misura decisamente più contenuta della nostra. Le ore lavorate aumentano invece in Gran Bretagna (+11,2%), in Germania (+11,8%) e soprattutto in Irlanda (+32,6%). In particolare va sottolineato come il dato italiano nel periodo di riferimento risulti quasi 17 volte peggiore di quello della media dei Paesi dell’Unione europea a 28 (-28,6% contro -1,7%).

Permessi di costruzione

A trainare verso il basso il nostro mercato delle costruzioni c’è certamente anche l’andamento dei permessi di costruzione concessi per l’edificazione di nuove residenze civili: il loro numero, rispetto al 2010, si è più che dimezzato facendo registrare un preoccupante -65,7%. Questo è un importante indicatore del ciclo economico poiché fornisce alcune informazioni sul carico di lavoro nell’industria edile nel prossimo futuro. In Europa solo Cipro (-74,5%) e Grecia (-86,2%) registrano un dato peggiore del nostro. Se in generale la media dei Paesi dell’Unione europea a 28 risulta stabile (-0,1%), diversi nostri competitor assistono a una flessione del dato: Francia (-4,8%), Irlanda (-11,4%), Portogallo (-52,9%) e Spagna (-53,4%). Va infine osservato come una crescita a ritmi molto sostenuti sia invece riuscita al Regno Unito (31,2%) e soprattutto alla Germania (+80,6%). Anche in questo caso desta allarme la straordinaria sproporzione del dato italiano con la media dei Paesi dell’Unione europea a 28 (-65,7% contro -0,1%).

«I dati evidenziati dalla nostra ricerca son a tal punto negativi da non poter essere giustificati solamente dalla crisi economica ormai sistemica in cui si dibatte il nostro Paese» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «A incidere vi sono i provvedimenti adottati via via dagli ultimi governi (Monti, Letta, Renzi), che hanno finito per trasformare la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”. A un prolungato blocco del mercato immobiliare (che solo adesso sembra registrare tenui segnali di risveglio) è così corrisposto quello ben più pericoloso dell’intero comparto delle costruzioni, che da sempre costituisce uno dei maggiori traini dell’intera economia. Le nostre performance sono da ultimi della classe: un dato che davvero non può non allarmare».

Quanto ci costano i ritardi della Giustizia

Quanto ci costano i ritardi della Giustizia

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia reale del Bel Paese? Una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario.
Il punto di partenza dell’analisi è la posizione piuttosto arretrata dell’Italia nelle varie classifiche internazionali che considerano le variabili chiave utili a misurare sotto vari punti di vista l’efficacia della macchina giudiziaria. Un rapido confronto tra Paesi è possibile, ad esempio, grazie alla base dati armonizzata Cepej-Stat, messa a disposizione dalla Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa; risultati analoghi, tuttavia, trovano conferma nei dati Doing Business incrociati con le statistiche di Eurostat.
In particolare gli ultimi dati, benché riferiti al 2014, permettono di inquadrare il problema nella sua gravità. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, all’ultima rilevazione rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania.

Il peso dell’arretrato si riflette anche nella minore capacità del nostro Paese, nonostante gli sforzi, di far diminuire l’indicatore della durata media dei processi: per noi fluttua attorno all’anno e mezzo a prescindere dal periodo di rilevazione. In termini comparati, i 532 giorni medi necessari per le sentenze di primo grado sono sostanzialmente il doppio rispetto alla media europea e hanno pochi eguali se si pensa che con la sola eccezione di alcuni Paesi dell’Est e di Malta tutti gli ordinamenti se la cavano con durate (ampiamente) inferiori all’anno. Analisi più estese, che tengono in considerazione anche il secondo e terzo grado di giudizio (dati non sempre confrontabili tra Paesi, stanti le diversità esistenti tra i vari ordinamenti giuridici), mostrerebbero numeri ancor più impietosi: da noi servono quasi tre anni, in media, per gli appelli e altri tre e mezzo per i giudizi in cassazione.

Prendendo in considerazione le ricadute squisitamente economiche dell’inefficienza giudiziaria, diversi studi scientifici hanno tentato di catturare in termini numerici la relazione esistente con alcune variabili fondamentali. I risultati sono di assoluto interesse e colgono nel segno rispetto a diversi annosi problemi che presenta la nostra economia.

A migliorare con la rapidità dei giudizi e la riduzione degli arretrati sono ad esempio i tempi di pagamento tra imprese, con tutti i relativi effetti in termini di maggiore liquidità in circolazione, minor numero di insolvenze e minore disoccupazione. Anche i tempi e i costi di recupero dei crediti sono direttamente collegati all’efficacia della giustizia e ciò dovrebbe far riflettere sul problema della valorizzazione e dello smaltimento della montagna di crediti deteriorati accumulati dalle nostre banche. Uno studio basato su un campione di Paesi mostra inoltre che l’efficienza del sistema giudiziario migliora i tassi di imprenditorialità e di innovazione nelle imprese: tutte virtù sulle quali, nuovamente, il nostro Paese arranca.

ImpresaLavoro ha provato a quantificare ulteriori aspetti, partendo inizialmente dal punto di vista di un investitore internazionale. Com’è evidente e assodato in finanza, nell’economia globale l’attenzione dei capitali si rivolge ai Paesi in cui è migliore il rapporto tra redditività attesa e livello di rischio. Se non supportata da solide prospettive di crescita, la possibilità di creare valore per le imprese passa certamente da una riduzione degli elementi di incertezza: quelli di tipo giudiziario pesano, eccome, e sono in grado di frenare in modo netto il flusso di investimenti nei Paesi meno efficienti come il nostro.

Se ci riferiamo al caso italiano, la media degli ultimi tre anni evidenzia investimenti netti annui provenienti dall’estero per un magro 0,72 per cento del PIL. Com’è noto, il dato non si riferisce solo alle acquisizioni di nostre imprese da parte di soggetti stranieri, ma all’effettiva apertura di nuovi centri, filiali e strutture in genere da parte dei non residenti: si tratta dunque di nuovi investimenti privati provenienti da investitori internazionali, il cui livello, molto inferiore alla media UE, mostra la scarsa attrattività del nostro Paese. Ebbene, secondo i numeri di un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è collegata all’incremento di questo tipo di investimenti: per il nostro Paese, portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (in sostanza tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale).

Ma non è l’unica via che contribuirebbe sicuramente a una più sana e robusta crescita del nostro Paese. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali in Italia potrebbe infatti di per sé aumentare il tasso di natalità delle imprese e cioè incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143mila unità all’anno: una volta e mezza il tasso attuale. Lo shock positivo sarebbe ancora più evidente nel caso i tempi si dimezzassero, portandosi dunque alla media europea: la stima in questo caso varia tra le 192 mila e le 240 mila nuove imprese all’anno in più rispetto ai ritmi correnti.
Se si potesse raddoppiare la velocità dei tribunali potremmo attenderci anche una crescita della dimensione delle nostre imprese, per circa l’8,5% in media, come stimato in un raffinato tema di discussione pubblicato da Banca d’Italia. È condiviso inoltre che un sistema giudiziario meno tempestivo fornisce minori incentivi agli investimenti e all’assunzione di nuovo personale, decisioni sulle quali l’incertezza può solo fungere da deterrente. Il dato, peraltro, non è poco rilevante per un Paese come il nostro in cui il 70 per cento del valore aggiunto è prodotto da piccole e medie imprese.

Ma non è finita qui, perché anche dal punto di vista della disponibilità di credito le conclusioni sono altrettanto importanti. Diversi studi hanno esaminato il legame tra tempi della giustizia, costo dei finanziamenti e loro disponibilità presso il canale bancario: secondo le relazioni più significative, raggiungere il livello medio UE nei tribunali potrebbe aprire l’opportunità di nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,7 per cento rispetto allo stock attuale, in un settore che da anni continua a registrare segni negativi.

E infine, come se non bastasse, anche il mercato del lavoro ne potrebbe beneficiare direttamente. Si pensi che un’analisi di ImpresaLavoro basata sugli ultimi dati del Ministero della Giustizia suddivisi per distretti giudiziari ha individuato in ben 5,7 punti il potenziale di disoccupazione riducibile nel nostro Paese, con riferimento alle aree più disagiate. La stima è del resto coerente, oltre che con tutte le altre variabili economiche sin qui evidenziate, anche con quanto rilevato in un report del Fondo Monetario Internazionale, il quale confermerebbe un incremento di diversi punti della probabilità di impiego in seguito a un tale efficientamento della macchina giudiziaria. Altri studi hanno evidenziato i benefici che si avrebbero, oltretutto, in termini di riallocazione più efficiente e rapida delle risorse umane, di produttività e di maggiore intensità di capitale nelle nostre aziende.

A fronte di tutti questi dati, almeno due elementi emergono al di là di ogni altra considerazione. Il primo è indiscutibile: l’inefficienza giudiziaria agisce come un freno allo sviluppo della nostra economia. Il secondo è più difficilmente quantificabile, ma altrettanto rilevante: ridurre il peso di questa inefficienza potrebbe finalmente liberare un volume importante di potenzialità ancora inespresse.

Famiglia: l’Italia spende solo l’1,5% del Pil, pari a 414 euro pro capite

Famiglia: l’Italia spende solo l’1,5% del Pil, pari a 414 euro pro capite

Per il sostegno alla famiglia e alla natalità l’Italia spende risorse pari a solo l’1,5% del Pil: una cifra inferiore all’1,7% del Pil che i paesi dell’Unione a 28 e dell’area Euro spendono in media a favore dei nuclei con figli a carico. È quanto emerge da un’indagine del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati Eurostat (2015).

In pratica si tratta di quella parte di spesa pubblica destinata a: protezione sociale a favore di famiglie con figli a carico; indennità o sovvenzioni per maternità, nascita di figli o congedi per motivi di famiglia; assegni familiari; sovvenzioni per famiglie con un solo genitore o figli disabili; sistemazione e vitto fornito a bambini e famiglie su base permanente (orfanotrofi, famiglie adottive, ecc.); beni e servizi forniti a domicilio a bambini o a coloro che se ne prendono cura; servizi e beni di vario genere forniti a famiglie, giovani o bambini (centri ricreativi e di villeggiatura).

Ordinando il totale della spesa di ogni singolo Paese in percentuale al Pil, l’Italia si piazza – con il suo 1,5% – in 17° posizione (sulle trenta nazioni prese in considerazione da Eurostat). Tra i grandi Paesi europei, peggio di noi fanno Portogallo e Olanda (1,1%), Grecia e Spagna (0,6%) mentre questa spesa è analoga nel Regno Unito (1,5%) e superiore in Belgio (2,4%), Austria (2,3%), Irlanda (2,0%), Germania (1,6%) e Francia (2,5%).

La posizione dell’Italia in questa classifica cambia leggermente se, invece che come percentuale del Pil, la spesa è calcolata pro-capite. In questo caso il nostro Paese sale dal 17° al 15° posto (sempre su 30). Molto concretamente questo significa che ogni anno in Italia vengono stanziati e spesi per la famiglia 413,99 euro a cittadino. Una cifra in valore assoluto superiore a quella di Spagna, Grecia e Portogallo (dove però la vita costa sensibilmente di meno) ma nettamente inferiore a quella di tutti gli altri grandi paesi continentali. Tralasciando i paesi nordici e il Lussemburgo, che rappresentano eccezioni oggettive, non si può fare a meno di notare come in Francia la spesa pubblica a favore della famiglia sia il doppio della nostra: 813,17 euro a cittadino (399,18 in più dell’Italia). Meglio di noi fanno anche la Germania (595,12 euro pro capite) e il Regno Unito (590,18 euro pro capite). Il nostro dato è sensibilmente inferiore sia rispetto a quello dell’Unione Europea a 28 (dove la media è di 501,67 euro pro capite) sia rispetto a quello dell’area Euro (530,93 euro pro capite).