debito pubblico

Una “spirale velenosa” s’aggira per l’Eurozona

Una “spirale velenosa” s’aggira per l’Eurozona

Alessandro Merli – Il Sole 24 Ore

Sepolta sotto una montagna di debito che, invece di diminuire, aumenta, l’economia mondiale rischia una nuova crisi dopo quella gravissima della fine del decennio passato. C’è una «spirale velenosa» fra l’alto livello del debito pubblico e privato e la bassa crescita nominale, avverte l’ultimo Rapporto di Ginevra, pubblicato ieri dal Centro internazionale di studi bancari e monetari. Fra gli autori, Lucrezia Reichlin, della London Business School e già capo della ricerca della Banca centrale europea, e Luigi Buttiglione, ex Banca d’Italia ed economista di uno dei più grandi hedge fund macro, Brevan Howard. Il circolo vizioso fra alto debito e bassa crescita, spiega Buttiglione, è evidente nell’eurozona più che altrove e, all’interno dell’eurozona, nel caso dell’Italia.

Il Rapporto smentisce anzi tutto la convinzione che il mondo stia attraversando una fase di deleveraging dopo la crisi del 2008-2009: anzi, il debito pubblico e privato (con l’esclusione di quello del settore finanziario), che era attorno al 60% del prodotto interno lordo all’inizio del decennio passato, è balzato al 200% nel 2009, dopo lo scoppio della crisi, e ha toccato il 212% nel 2013. Con una differenza fondamentale, che prima della crisi l’accumulazione di debito è avvenuta soprattutto nei Paesi avanzati, dove si è ora stabilizzato più o meno ai livelli del 2009. Dopo la crisi, invece, si assiste a un balzo del debito soprattutto nei Paesi emergenti, in particolare in Cina, il punto più fragile assieme all’eurozona, dove le autorità dovranno scegliere fra un rallentamento della crescita per frenare l’aumento del debito totale (che si è impennato dal 140% del pil del 2001 al 240% attuale) o un pericoloso aumento continuo del debito per continuare ad alimentare la crescita su ritmi vicini a quelli degli anni scorsi. Il rischio di una prossima crisi è reale, secondo il Rapporto, ed è particolarmente vivo in quei Paesi che non hanno fatto i conti del tutto con quella precedente, come quelli della periferia dell’eurozona, fra cui l’Italia.

La risposta della politica economica è decisiva. Il Rapporto di Ginevra mette a confronto quella delle autorità di Stati Uniti e Gran Bretagna con quella europea. Nel primo caso, si è scelta la strada di una forte espansione del bilancio della banca centrale (soprattutto da parte della Federal Reserve) attraverso il quantitative easing. Al deleveraging del settore privato e in particolare del sistema finanziario, ha corrisposto un aumento dell’indebitamento pubblico. L’uscita è in corso adesso, con la cessazione del Qe, e dovrà avvenire in modo graduale per non produrre nuovi sconquassi, ma ha evitato, dopo la crisi, una ricaduta nella recessione e una paralisi del credito. Cosa che è avvenuta invece in Europa, dove un possibile Qe è ancora oggetto di discussione e di forte opposizione e i vincoli anche politici dell’unione monetaria, dove ogni intervento diventa anche un trasferimento da un Paese all’altro, hanno frenato la risposta nei tempi e nei modi, anche se è stato evitato il collasso, grazie all’azione della Banca centrale europea.

L’Europa ha puntato sulla riduzione prima del debito pubblico, attraverso l’austerità fiscale e non ha ricapitalizzato il settore bancario. A differenza che negli Stati Uniti, il debito totale dell’eurozona resta oggi una percentuale più alta del pil rispetto a prima della crisi, mentre la perdita di reddito è del 5% circa negli Stati Uniti e quasi il doppio per l’eurozona. La revisione ormai ultimata dei bilanci delle banche europee, bassi tassi d’interesse e il possibile varo del Qe (che il Rapporto suggerisce) possono essere d’aiuto, ma il «veleno» del mix di alto debito e bassa crescita nominale appare più pericoloso nell’eurozona che altrove.

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

È vero. Il problema della bassa crescita economica non è solo italiano, ma di tutta l’area dell’euro. Si crescerà, in media, nei prossimi dieci anni, non più dell’1% (se va bene). La metà, o meno della metà, di quanto cresceranno, invece, gli Stati Uniti. E questa bassa crescita deriva da due fattori fondamentali: il basso livello di investimenti in Europa (si pensi solo alla bassa dotazione infrastrutturale storica dell’intera area) e l’ulteriore caduta degli ultimi 7 anni, quelli della crisi: -20% (di un livello, abbiamo detto, già troppo basso in partenza).

Non è un caso se la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale continuano a richiamare la Germania con riferimento al suo eccessivo surplus delle partite correnti, auspicando, per rientrare nei parametri europei, un aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture e servizi. I benefici si allargherebbero a tutto il sistema economico europeo. Ma se ancora oggi la Germania non spende in casa propria, nonostante un rapporto deficit/Pil praticamente pari a zero, come potevamo pretendere che la politica economica europea degli anni della crisi, germanocentrica, fosse orientata agli investimenti? I risultati del dogma del rigore fine a se stesso e dell’austerità a tutti i costi, che si è tradotto in sangue, sudore e lacrime per gli Stati dell’eurozona, si sono visti. E il cambiamento di rotta è oggi più che mai necessario.

Il combinato disposto del basso livello infrastrutturale storico e l’ulteriore caduta degli anni della crisi ha ridotto la competitività dell’area euro. Per questo l’Europa deve uscire in maniera strutturale dalla crisi non solo con la politica monetaria, non solo con le riforme ma anche e soprattutto lanciando il suo New deal.

Obiezione scontata: dove si trovano le risorse per tutti gli investimenti necessari per colmare il gap infrastrutturale europeo? Risposta: attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei). Oppure facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Oppure ancora, attraverso una riconversione del Fondo salva-Stati, quell’orribile mastodonte che oggi, contrariamente alle ragioni per cui è stato creato, utilizza le risorse versate dai paesi dell’area euro (con conseguente aumento dei relativi debiti pubblici) per acquistare titoli del debito sovrano di Stati con rating AAA, come i Bund tedeschi, che hanno rendimento pari a zero.

Per non trovarsi isolato in Europa e per non fallire nel suo semestre di presidenza dell’Unione, Renzi rilanci. Vada oltre la proposta Juncker di 300 miliardi, e presenti un piano europeo di misure concrete che triplichi gli importi del presidente della Commissione europea, fino a 1.000 miliardi. Un piano finalizzato a una maggiore integrazione del mercato interno, in particolare nel settore dei servizi; a migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; a costruire nuove infrastrutture; a migliorare I piani di approvvigionamento energetico; a dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano.

Come fare? Innanzitutto si dovrebbe sfruttare meglio la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e la sua capacità di assunzione di rischio, mediante lo Strumento di Finanziamento Strutturato (Sfs), che eroga prestiti, e/o altri strumenti come la cartolarizzazione. Si potrebbe pensare anche a un moltiplicatore della capacità di intervento della Bei, prendendo come riferimento il modello previsto per le operazioni di finanziamento della stessa Banca Europea per gli Investimenti nei paesi extra-Ue: in concreto si tratta di un fondo di garanzia capitalizzato per una certa quota del totale degli impegni (circa il 9%) che genera un moltiplicatore di 11 a 1 sulle operazioni in questione.

La quota capitale da inserire nel fondo di garanzia varierebbe in relazione al rischio legato al settore d’intervento. In caso di operazioni a rischio limitato (es. infrastrutture ad alto potenziale di redditività), l’effetto moltiplicatore sarebbe ancora maggiore: con il 3% di capitalizzazione si può garantire il 100% dei finanziamenti. Capitalizzazione da attuare con una semplice redistribuzione interna nel bilancio dell’Unione o con fondi devoluti dagli Stati membri (da stabilirsi sulla base degli stessi parametri di contribuzione al bilancio Ue), che non rientrerebbero nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil.

L’Unione potrebbe ricorrere essa stessa all’emissione di un debito mirato. Il servizio di questo debito, poi, verrebbe finanziato da appositi capitoli di spesa del bilancio Ue, e il suo status in qualche modo negoziato con le agenzie di rating, in modo da mantenere un solido rating AAA per le emissioni. Non è una cosa del tutto nuova: il cosiddetto “Sportello Ortoli”, della fine degli anni Settanta, prevedeva proprio la raccolta di fondi da parte dell’Unione, per destinarli a iniziative specifiche. In alternativa, il fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Le quote dovrebbero essere considerate trasferimenti a fondo perduto, con la possibilità per la Bce (che sarebbe la custode delle quote trasferite) di vendere il metallo per finanziare le eventuali perdite sulle garanzie (le riserve auree sono infruttifere, mentre il sistema di garanzie del fondo può dover fare fronte a perdite). Last but not least: impiegare, per finanziare investimenti in infrastrutture, la liquidità di fatto ora bloccata nel Fondo salva-Stati. Quanto, infine, ai capitali privati, essi possono dare un impulso considerevole al potenziale di crescita dell’Europa. Ma la realizzazione di partenariati tra soggetti pubblici e privati (o di altre forme di cooperazione tra pubblico e privato) richiede un impegno finanziario certo da parte degli investitori istituzionali.

Il combinato disposto di tutti questi strumenti potrebbe consentire, in un quinquennio/decennio, 1.000 miliardi di investimenti freschi. Risorse nuove. Più di 3 volte l’ammontare del piano su cui sta lavorando il presidente Juncker, e che potrebbe rivelarsi l’ennesima delusione di istituzioni comunitarie poco coraggiose, in quanto mera ridestinazione di fondi già esistenti nel bilancio europeo. Mille miliardi che avrebbero un grande impatto non solo sul Pil dell’Unione, ma sulla competitività strutturale dell’Europa. Non si tratterebbe, infatti, di un moltiplicatore keynesiano di breve periodo, ma di un acceleratore di impatto sul medio-lungo termine. Ne deriva una miscela ottimale, se al New deal europeo da 1.000 miliardi di euro si unisce la politica espansiva della Banca centrale europea e un piano sorvegliato e coordinato di riforme strutturali in tutti i paesi dell’eurozona. Una grande strategia di lungo periodo (5-10 anni), finalizzata alla modernizzazione dell’Unione. Modernizzazione da fare attraverso le reti, materiali e immateriali: infrastrutture, telecomunicazioni, energia, sicurezza, ricerca scientifica, capitale umano.

È questa la proposta che l’Italia deve fare all’Europa. È questo che, probabilmente, l’Europa, delusa dai primi 200 giorni di governo, si aspetta da Matteo Renzi. Per il presidente del Consiglio italiano, una prova di sopravvivenza. Ma, se vorrà seguire i nostri consigli, una prova facile. L’Italia si è storicamente modernizzata grazie al vincolo esterno, come lo chiamava Guido Carli. Rispetto al dibattito attuale: altro che commissariamento. Meglio Juncker che Landini…

A luglio nuovo picco del debito: 2.168 miliardi

A luglio nuovo picco del debito: 2.168 miliardi

Il Sole 24 Ore

A luglio il debito pubblico italiano ha toccato un altro record: 2.168,6 miliardi di euro, 0,2 miliardi in più rispetto al precedente massimo di giugno. Le cifre sono contenute nel bollettino della Banca d’Italia. Nei primi sette mesi dell’anno – si legge – il debito pubblico è aumentato di 99,2 miliardi, riflettendo il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche (32,7 miliardi) e l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (72,1 miliardi). Nel complesso, l’emissione di titoli sopra la pari, l’apprezzamento dell’euro e gli effetti della rivalutazione dei BTP hanno contenuto l’incremento del debito per 5,6 miliardi. Sul fabbisogno dei primi sette mesi ha inciso per 4,5 miliardi (8,7 miliardi nel corrispondente periodo del 2013) il sostegno finanziario ai Paesi dell’area dell’euro (la quota italiana del sostegno ai Paesi dell’area era pari alla fine dello scorso luglio ai 60,1 miliardi). A luglio gli investitori esteri possedevano 728 miliardi di debito pubblico italiano, di cui 687 miliardi in titoli di Stato, in calo rispetto ai 692 miliardi di giugno.

L’incubo quotidiano sui conti

L’incubo quotidiano sui conti

Gaetano Pedullà – La Notizia

Dacci oggi il nostro incubo quotidiano. In tempi di crisi e di sfiducia nel futuro sembra che lo si faccia apposta a non far passare giorno senza spaventarci con qualche previsione allarmante sulla nostra economia. Centri studi, rapporti di ogni genere, i bollettini periodici di Ocse e Banca centrale si aggiungono al normale flusso dei dati che fotografano i nostri conti. E pur ripetendo spesso sempre le stesse cose, questo fiume di calamità bibliche ci fa sprofondare in una depressione generale. Proprio il contrario di quello che ci serve per ripartire. Ieri così abbiamo appreso che la Bce vede a rischio l’obiettivo del 2,6% nel nostro rapporto tra deficit e Pil. La situazione dei conti pubblici italiani la conoscono tutti e Renzi ha già detto che su questo parametro puntiamo al 3%; meglio di Parigi per capirci. Gli euroburocrati che compilano il bollettino – in genere quindici giorni prima della pubblicazione – fanno però il loro compitino e una stampa acritica e pronta a bersi tutto pur di fare un titolo a sensazione, pubblica. Abbiamo tanti difetti e tanto da fare, soprattutto sulle riforme, ma andando avanti in un certo modo poi non lamentiamoci se andiamo sempre più a fondo.

Debito d’incoscienza

Debito d’incoscienza

Davide Giacalone – Libero

L’impressione, pessima, è che non vi sia consapevolezza di quanto il problema del debito pubblico sia drammatico e di come il tempo a nostra disposizione si stia accorciando. Leggo le dichiarazioni di Matteo Renzi e trasecolo. Le divido in tre concetti, riportandone il  testo: a. “non esiste nessuna operazione taglia debito”, nel senso che il governo non la sta né studiando né proponendo; b. “per risolvere il problema del debito dobbiamo tornare a crescere”; c. “se facciamo le riforme potremo avere più tempo per il rientro del debito”. Questa è una dottrina cieca, che porta alla rovina.

Ci siamo impegnati per anni nel dimostrare che la condizione del bilancio pubblico italiano non è compromessa. Che ci sono punti di forza. Che la voragine del debito può essere colmata, perché esistono vantaggi da sfruttare. Non ripeto il tutto, che i nostri lettori conoscono, o possono facilmente rintracciare. Ma il presupposto della riscossa è la consapevolezza. Quella che si mette in scena, invece, è l’Italia di Caporetto: arroganza, supponenza, incapacità dei comandi militari, totale ignoranza circa le forze in campo. Per arrivare all’Italia di Vittorio Veneto ci volle un trauma, costato fiumi di sangue. Ora che deve accadere? Con un governo che si propone di assumere 150mila dipendenti pubblici, nella scuola, strologando di riduzione delle tasse. E con che li si paga? So bene che la politica è anche propaganda. Che questo è uno dei succhi della democrazia. Ma quando la propaganda perde il senso della realtà è segno che il vuoto regna nella testa di chi parla.

Tra il 2001 e il 2004 il debito pubblico è costantemente sceso in rapporto al prodotto interno lordo, pur restando sopra la soglia patologica del 100% (dal 108,3 al 103,7). Frutto dei tanto vituperati tagli lineari e di una crescita ancora non cancellata dalla crisi del debito (prima privato e statunitense, poi sovrano ed europeo). Dal 2008 a oggi, dopo anni di tante tasse e pochi tagli, è costantemente cresciuto, passando dal 106,1 al 133%. Se la ricetta di Renzi consiste nel ridurre progressivamente quel rapporto, puntando sulla crescita del pil, posto che dobbiamo ancora vederla, l’Italia s’infila da suicida nel toboga del fiscal compact. Con questi ritmi ci mettiamo 30 anni per tornare ai livelli di produzione di prima della recessione, tempo che si allunga anche a causa degli oneri indotti dal debito. Che ogni hanno ci porta via circa 80 miliardi, divorando la sensazionale serie positiva degli avanzi primari, per i quali abbiamo un record mondiale. Con tale dottrina la riduzione del debito prende lo stesso passo, allungandosi nei decenni a venire.

Si può dire: ma neanche gli altri furono capaci di cose diverse. Vero. Non a caso si tratta di una classe dirigente fallimentare e fallita. Mi sfugge la ragione per cui ciò dovrebbe costituire un’attenuante, essendo un’aggravante. Per tale ragione, da anni, si riflette su modelli e sistemi diversi per operazioni straordinarie di abbattimento del debito, che sono la sola via praticabile. Senza entrare nei dettagli, tante altre volte illustrati: scambiare patrimonio pubblico contro abbattimento del debito. Molti sono colpevoli di non averlo saputo fare, ma ora Renzi lo esclude. Senza presentare alternative, che non ci sono.

Se faremo le riforme, però, avremo più tempo per rientrare dal debito. Questa è una dannazione, non una conquista. E’ la logica del galleggiamento, ma nella palta. A noi servono sia le riforme che l’abbattimento del debito. Le une funzioneranno meglio con il secondo. Le une al posto del secondo, invece, è solo svenamento. E di che riforme parliamo, poi, se nella scuola preferiamo l’occupazione alla formazione?

Renzi smentisce Padoan, sul punto delle privatizzazioni. Quando il ministro ha annunciato la cessione di un ulteriore 5% di Eni ed Enel, abbiamo obiettato: queste non sono privatizzazioni, ma vendite, e devono andare a riduzione del debito, non del deficit. Ma Renzi dice: quell’operazione non mi convince. Ma allora non tornano più i conti elaborati dal ministero dell’Economia. Il ministro, che svolge anche la funzione di garante dei nostri conti, ne esce demolito nella sua credibilità. E come si sostituisce, quel flusso di ricchezza, con la privatizzazione di Poste? E’ inimmaginabile nei conti del 2014.

Per dire di queste cose non basta non avere idee con cui risolvere i problemi, ci vuole anche inconsapevolezza dei problemi stessi. La cosa migliore che possa accadere, in tali condizioni, è che altri diluvi d’interviste correggano il tiro. Naturalmente dando la colpa a noi, che non siamo capaci di capire.

La doppia strada per ridurre il debito

La doppia strada per ridurre il debito

Mario Sensini – Corriere della Sera

Doveva entrare già nello sblocca Italia, ma è rimasto fuori come altre norme solo perché quel decreto rischiava di divenire troppo pesante. Ma il nuovo meccanismo per favorire il cambio di destinazione d’uso degli immobili è pronto, il governo Renzi lo considera uno dei passaggi fondamentali per riavviare l’attività economica e valorizzare il patrimonio pubblico, e sarà inserito nel pacchetto della legge di Stabilità. Nel frattempo il governo sta ripensando i rapporti con gli enti locali, andando oltre il federalismo demaniale. Il sottosegretario al ministero dell’Economia Pier Paolo Baretta ha appena definito con i Comuni il trasferimento di 9.000 immobili a titolo gratuito: se saranno venduti entro tre anni, lo Stato avrà il 25% del ricavato, altrimenti saranno riacquisiti al Demanio.

Il governo di Matteo Renzi si muove sulla strada della valorizzazione e della dismissione del patrimonio immobiliare. All’orizzonte non c’è nessun piano straordinario di abbattimento del debito pubblico, come ha ricordato anche ieri il premier Matteo Renzi nell’intervista al Sole 24 Ore. Giocare tutto sulle dismissioni, date le condizioni attuali del mercato immobiliare, sarebbe un suicidio, anche economico e non solo «reputazionale». Piuttosto, quella che sta prendendo corpo, sempre con l’obiettivo di ridurre il debito, pare una strategia articolata, basata su tre piani: la razionalizzazione degli immobili a uso governativo o comunque pubblico, la valorizzazione e le dismissioni. E che potrebbe comunque prendere spunto anche dai tanti contributi di economisti e banche d’affari arrivati sul tavolo di Palazzo Chigi, ultimi quelli del gruppo Rothschild che hanno consegnato a Renzi alcune «idee» di metodo che potrebbero consentire un taglio del debito tra i 100 e i 300 miliardi.

In attesa che le dismissioni divengano appetibili, si prova intanto a valorizzare, anche superando i colli di bottiglia della burocrazia e della normativa. In questo contesto, mettendo in campo anche i fondi immobiliari pubblici come Invim.It, si potrà tentare qualche operazione di calibro importante nei prossimi mesi, sempre per spuntare il debito. Renzi e Padoan non sembrano credere ai piani shock che da un giorno all’altro possano abbattere quella montagna. Ma sanno che sul fronte del debito bisognerà intervenire, e anche molto presto, se vorranno tempi un po’ più lunghi rispetto a quelli concordati con l’Europa per arrivare al pareggio di bilancio. Dal 2015 scatta infatti la nuova regola del debito, quella che prevede la riduzione di un ventesimo l’anno della differenza tra il livello attuale e il valore di riferimento dei Trattati del 60% del Prodotto interno lordo. Ma già quest’anno si sarebbe dovuto fare qualche cosa per avvicinarsi al traguardo. Il che oggi sembra ancora più difficile dopo la frenata del premier sulla cessione di ulteriori quote Eni ed Enel controllate dal Tesoro.

In ogni caso, nel 2014 il debito pubblico italiano raggiungerà il 134,9% del Pil, secondo il Documento di economia e finanza di aprile, al suo settimo anno consecutivo di crescita (dal 2007). È vero che ha pesato il pagamento delle fatture arretrate della Pubblica amministrazione, e che senza i prestiti alla Grecia saremmo sette-otto punti sotto, ma siamo arrivati al record storico assoluto. Nel 2015, secondo i piani del governo dell’aprile scorso, dovrebbe ricominciare la discesa, anche a ritmi piuttosto sostenuti. Secondo il piano di aprile, si poteva scendere velocemente fino al 120% circa del 2018, sempre rispettando la regola del «ventesimo».

Il peggioramento della congiuntura, però, è stato evidente. E se questo non ci espone a grossi rischi di infrazione europea per lo sforamento del limite di indebitamento, perché il 3% non dovrebbe comunque essere a rischio, l’impatto della congiuntura negativa potrebbe mettere l’Italia in seria difficoltà con il rispetto delle nuove norme sul debito. Anche per questo, senza far affidamento sulle ricette miracolose, il governo si sta attrezzando. Il prossimo passaggio sarà la facilitazione delle procedure per il cambio di destinazione d’uso degli immobili. Era una delle norme inserite da Enrico Letta nel pacchetto «Destinazione Italia», ma come il resto è rimasta lettera morta. Ora si appresta a essere resuscitata. E potrebbe non essere l’unica misura per agevolare la valorizzazione e la dismissione degli immobili pubblici. La stessa legge di Stabilità, dicono al Mef, potrebbe avere un capitolo specifico dedicato alla privatizzazione del patrimonio.   

Giuseppe Pennisi – Consigli a Renzi: le tre mosse che valgono più dello sblocca-Italia

Giuseppe Pennisi – Consigli a Renzi: le tre mosse che valgono più dello sblocca-Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Agli economisti e ai commentatori economici spetta di essere criticamente da stimolo, specialmente in una situazione come quella di oggi. Gran parte dei commenti sull’ultimo Consiglio dei ministri sono positivi. E non possono non esserlo dato che, secondo il comunicato di palazzo Chigi e gli interventi del Presidente del Consiglio e dei principali Ministri competenti per le materie trattate (non si conoscono ancora i testi dei provvedimenti), sono stati affrontati e verosimilmente risolti alcuni nodi della giustizia (specialmente di quella civile) e dell’investimento pubblico. Tuttavia, occorre chiedersi se: a) è stata data una risposta adeguata alle aspettative suscitate; b) si è tenuto conto del peggioramento della situazione economica italiana (quale risulta dalle statistiche più recenti); e, soprattutto, c) cosa può essere fatto di concreto e di attuabile nelle prossime settimane nel predisporre la Legge di stabilità.Le aspettative suscitate riguardano non solamente il vasto comparto della scuola (per il riassetto del quale ci è stato chiesto di pazientare solo alcuni giorni), ma soprattutto le inefficienze dell’azione pubblica quali risultanti del Rapporto Cottarelli (soprattutto nel comparto del socialismo municipale e regionale), abilmente centellinate dal servizio stampa di palazzo Chigi ai giornali e, quindi, all’opinione pubblica. La situazione economica riguarda l’evidente scivolamento dell’Italia dalla più lunga recessione del dopoguerra e una fase di deflazione in cui rischiamo di avvitarci su noi stessi perdendo ogni anno un po’ di reddito reale (sia nazionale, sia familiare, sia individuale).Non conosco personalmente Matteo Renzi, ma non nego di provare simpatia per questo quarantenne (alla prese con problemi gravissimi) che si atteggia a trentenne e utilizza le metodiche di comunicazione dei ventenni nella convinzione (vera o presunta) di avere esiti positivi, in tal modo, anche sugli “umori” degli ottantenni. La conferenza stampa (dal “gioco del gelato” all’ultima slide) è stato un piccolo capolavoro di quella che un tempo si chiamava “persuasione occulta”. Ha probabilmente diminuito il divario tra attese e risultati, ma i problemi restano poiché in sostanza l’esito è stato un modesto rilancio dell’investimento pubblico (ridotto, nel lasso degli ultimi dieci anni, di due terzi per rapporto al Pil) e una velocizzazione della giustizia civile, che avverrà solo se si supereranno le resistenze di varie oligarchie.Se gli esiti sono questi, ipotizzando che tra brevissimo verranno sciolti (e bene) i nodi sulla scuola, cosa deve entrare nella Legge di stabilità per tirarci fuori dalla deflazione? L’Italia ha poche frecce al proprio arco. Quelle monetarie sono in mano alla Banca centrale europea ed è da dubitare che le possa utilizzare vista l’opposizione di molti paesi (non solo la Germania) e la necessità della preliminare revisione del proprio regolamento (che la obbliga a non fare superare più del 2% l’anno la crescita del tasso armonizzazione dell’indice dei prezzi al consumo). Quelle di bilancio sono spuntate dalla decisione “politica” di contenere l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni entro il 3% del Pil anche se, giuridicamente, nella situazione di grave recessione (e di deflazione), si potrebbe superare temporaneamente il vincolo.Al Governo resta, essenzialmente, la messa in atto di misure per ridurre la spesa pubblica e renderla più efficiente (alleggerendo così quella che è una vera oppressione fiscale e regolamentare) e una strategia dell’offerta. Come? In primo luogo, i provvedimenti della spending review richiedono una cornice che può essere inclusa nella riforma della Costituzione (in discussione in parallelo alla Legge di stabilità). Si potrebbe introdurre nella Carta il fatto che: a) che tutte le leggi (e regolamenti e circolari varie) siano “a termine” (una “sunset regulation” generalizzata) e non possano essere estese con marchingegni quali il “mille proroghe” per impedire il formarsi di un Himalaya di norme (la fonte principale di sprechi e inefficienze); b) le società in disavanzo per più di tre esercizi del socialismo municipale (e regionale, nonché di quel che resta di quello provinciale) vengano messe in liquidazione forzosa, con commissari provenienti da regioni differenti da quelle in cui l’azienda ha la sede sociale.In secondo luogo, serve un’energica strategia dell’offerta basata sulla liberalizzazione dei mercati delle merci e dei servizi per spingere imprese grandi e piccole a essere più competitive, e quindi più produttive. Ci vuole una terapia shock che azzeri resistenze settoriali e morda davvero.In terzo luogo, occorre tenere conto del “convitato di pietra”, il fardello del debito pubblico che frena da anni la crescita e aggrava ora la deflazione. Non mancano proposte: prima di chiudere i battenti del Cnel si potrebbe incoraggiare un confronto, con esperti e Parti sociali, tra le varie proposte sul tappeto per giungere a un programma concreto.
La guerra dei prezzi e l’arma del debito

La guerra dei prezzi e l’arma del debito

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Ieri il Consiglio dei ministri ha dovuto registrare l’entrata dell’Italia nella deflazione, in senso tecnico, ovvero la caduta dei prezzi che dura da più di un anno. Molti analisti si ostinano a fare il verso alla Bce chiamando questo processo inflazione negativa, ma ogni cittadino che sa quanto costa un litro di latte e deve programmare il rientro dalle vacanze comprende ciò che sta dietro questo calo dei prezzi: la contrazione della produzione, per il calo dei profitti, e quindi dell’occupazione. Ed ecco la conferma nei dati della disoccupazione, che a luglio è risalita, dopo il lieve calo di maggio, al 12,6%. Un dato fortemente negativo se lo mettiamo a confronto con quello del novembre 2013, quando venne toccato il massimo storico con il 12,7%. Inoltre, non solo la disoccupazione si mantiene alta ma cala soprattutto la componente maschile dell’occupazione, mentre quella giovanile oscilla attorno al 43% con una stabilità che desta preoccupazione. Va pure sottolineato che la disoccupazione colpisce soprattutto i lavoratori con contratto a tempo indeterminato e che gli unici aumenti sono nel part-time e nei lavori stagionali. Deperisce quindi la qualità degli occupati, ossia vengono espulsi i lavoratori anziani e altamente qualificati, non trovano lavoro i giovani altamente scolarizzati, aumentano i divari territoriali con alcune aree del Nord che addirittura registrano un calo della disoccupazione mentre nel Sud essa sta dilagando. Pensare che nell’oceano della disoccupazione ci sono isole che potrebbero essere abitate da lavoratori volonterosi che non si trovano, come gli operai specializzati, i fresatori, i manutentori, gli operatori cad-cam, eccetera.

Come risolvere il problema? Dal ministero dell’Economia e dalla Ragioneria generale si continuano a suonare le trombe delle riforme strutturali. La gente ha qualche speranza. Siamo infatti abituati a pensare che le riforme migliorino la situazione. Il punto è che tutte le riforme ventilate sono a mio avviso il contrario del cambiamento positivo, perché poggiano sul parametro dell’abbassamento del debito pubblico e quindi della riduzione della spesa tout-court, dell’aumento delle tasse e infine delle privatizzazioni che dovrebbero togliere qualche ditale d’acqua dall’oceano del debito. Il contrario, insomma, di ciò che richiederebbe un progetto di crescita. Intravedo perciò il pericolo che il premier Renzi perda di vista il suo compito originario, e che risponda a questi dati arretrando politicamente e non invece spingendosi a «cambiare verso». Ma è proprio questo cambiare verso di cui l’Italia e l’Europa avrebbero bisogno per contrastare tanto la deflazione quanto la disoccupazione, così intimamente legate. E oggi ne avremo la prova durante il Consiglio europeo. 

E’ una presidenza italiana che inizia in un contesto non proprio desiderabile, vista la precarietà dei rapporti interni e di quelli con gli Stati Uniti, soprattutto dopo la disastrosa divisione avvenuta nel recente summit della Nato. Da un lato gli Usa, la Polonia e i Paesi Baltici che vogliono dare all’alleanza un tono sempre più spiccatamente antirusso, sfregiando così irreversibilmente non solo l’Europa ma il cuore del mondo che è nell’Eurasia; dall’altro lato Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna e  Germania che non vogliono approfondire il divario con la Russia ma che però non sanno che pesci pigliare e perciò si muovono in ordine sparso. Su tutto ciò aleggia il dramma del crollo delle spese per la Difesa, che coinvolge tutta l’Europa perché anche qui l’austerity ha provocato danni che potrebbero riflettersi sugli stessi europei. Vale infatti ricordare che i “mozzateste” del autoproclamato califfato non sono al Polo Nord, ma a 50 chilometri da Pantelleria, a 200 chilometri da Malta, lungo il confine della Turchia. Insomma, sono dietro l’angolo. E forse anche dietro l’angolo di casa. 

Abbandonare l’ordoliberalismo che mitizza l’austerity è perciò un dovere non solo verso la deflazione e la disoccupazione, ma anche per rispetto alle vite stesse degli occidentali, sempre più in pericolo. Renzi dovrebbe rileggersi i discorsi di Winston Churchill, quando sferzava un’aristocrazia inglese che voleva venire a patti con la Germania nazista. Da grande statista, giunse addirittura a fare abdicare un re, a travolgere il pacifismo dei laburisti, a suscitare l’energia creatrice di un’isola che era consapevole di dover continuare a governare il mondo, difendendo l’Occidente. Se avesse dato ascolto al Cancelliere dello Scacchiere, scacciato sdegnosamente, l’equilibrio dei conti non gli avrebbe consentito quelle alzate d’ingegno. A questo Churchill pensavo recentemente, quando uno studente mi ha chiesto se Renzi abbia o meno la caratura da statista. Gli ho risposto che statisti non si nasce, si diventa. Per Renzi è giunto il momento di diventarlo, perché solo a chi ha questa ambizione vengono concesse le mediazioni e i grandi compromessi. Si cerchino tutte le alleanze possibili, ma si ricordi che solo smontando dall’interno e lavorando per eliminare gli sprechi, le rendite parassitarie, il clientelismo, i mille corporativismi, si può rimettere in moto la macchina della crescita, in Italia e in Europa. E per farlo occorre cambiare musica, il che vuol dire che occorre cambiare i trombettieri. Così non si salverà soltanto l’Italia e l’Europa, ma si porranno anche le basi per salvare l’Occidente.

Ora diamoci un taglio

Ora diamoci un taglio

Maurizio Maggi – L’Espresso

Duemilacentosessantotto miliardi di curo. È il debito pubblico-monstre accumulato dall’Italia. Una zavorra, in costante aumento, pronta a raggiungere a fine anno, a bocce ferme, l’impressionante livello del 135 per cento rispetto al prodotto interno lordo, cioè al totale della ricchezza prodotta dall’intero Paese. Economisti e commentatori invitano l’Italia ad affrontare sul serio il tema della riduzione dell’indebitamento, ma l’argomento non pare in cima ai pensieri del governo guidato da Matteo Renzi. Da anni piovono sul tappeto le ricette taglia debito e, anche se l’impressione è che l’esecutivo non abbia intenzione di intervenire nel breve, prima o poi anche chi sta a Palazzo Chigi e chi comanda al ministero dell’Economia il nodo dovrà provare a scioglierlo. I suggerimenti, anche fantasiosi, fioccano, però si sa che l’Italia è riottosa quando è il momento di mettersi a tagliare. “Il Sole 24 Ore”, il quotidiano della Confindustria, a metà agosto, è salito in cattedra e di proposte ne ha addirittura avanzate tre.

Le strade maestre per alleggerire il debito sono tre: tagliare la spesa, per avere meno bisogno di emettere nuovi titoli pubblici; vendere società e immobili controllati dallo Stato; consolidare-ristrutturare il debito pubblico esistente. Quest’ultima strada la si imbocca riducendo le cedole, oppure allungando la scadenza dei Btp e degli altri titoli del Tesoro e degli enti locali in circolazione, ma è politicamente la più sensibile. La necessità di intervenire alla svelta sul debito è il cavallo di battaglia di Lucrezia Reichlin. Docente alla London School of Economics, già direttore della ricerca alla Banca Centrale Europea, Reichlin dice che la limatura andrebbe fatta in seguito a un’intesa a livello europeo, certo, ma anche che l’idea che uno Stato possa non pagare una parte delle proprie obbligazioni non dev’essere ritenuta un tabù. Lo ha dichiarato tre mesi fa a “l’Espresso” e lo ha ribadito qualche giorno fa a “la Repubblica”. Giacché, sostiene, «acquistare un titolo di Stato comporta dei rischi, è una leggenda metropolitana che il capitale sia garantito». D’altronde Daniel Gros, che dirige il Centre for European Policy Studies di Bruxelles, a “Class Cncb” ha sottolineato come il rapporto debito-Pil pericolosamente vicino al 140 per cento sia una mannaia che per ora resta sospesa ma è pronta ad abbattersi non appena il mercato dovesse volgere al brutto. Da questo orecchio, però, il governo non ci sente. Il viceministro dell’Economia e delle Finanze, per esempio, di ristrutturazione proprio non vuol sentir parlare: per Enrico Morando, infatti, le conseguenze sarebbero peggiori del problema che si intende risolvere. Meglio puntare, eventualmente, sulla cessione di una fetta del patrimonio immobiliare pubblico.

Gira e rigira, si va sempre a finire lì, sulle taumaturgiche doti del mattone di Stato da vendere. «L’idea di costruire un fondo è in pista da molti anni, ma non sboccia mai e l’esperienza delle cartolarizzazioni targate Giulio Tremonti è stata un fiasco», commenta Emilio Barucci, economista del Politecnico di Milano e figlio di Piero, ex ministro del Tesoro. Sul fronte delle privatizzazioni di società pubbliche, poi, secondo Barucci non è rimasto granché da fare. «Anche cedendo quote di Eni ed Enel, o privatizzando le Poste e le Ferrovie, operazioni peraltro assai complicate, al massimo si può sperare di incassare 10 o 20 miliardi». Inoltre, aggiunge Tito Boeri, prorettore alla Ricerca della Bocconi, già consulente di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, «con il calo del costo al servizio del debito, anche cessioni che erano vantaggiose fino a un anno fa ora non lo sono più, visto che i rendimenti offerti dai titoli di Stato risultano sensibilmente inferiori ai rendimenti delle partecipazioni in Eni ed Enel». Per Boeri, bisognerebbe riuscire a vendere non solo i pezzi pregiati – come ha fatto il Milan con Mario Balotelli, esemplifica l’economista da grande tifoso rossonero deluso – ma cercare di alienare tutte le società dove si annida l’inefficienza, che abbonda nelle partecipate e nelle municipalizzate. «Temi», dice Boeri, «su cui ha lavorato molto il commissario Carlo Cottarelli e che dovrebbero rappresentare buona parte della politica di spending review». Per il banchiere Gianluca Garbi, amministratore delegato di Banca Sistema, il mirino va puntato proprio sulle municipalizzate e bisogna far di tutto, intanto, perché il debito smetta di crescere: «Nel decreto Salva Italia c’era una norma perfetta, che andrebbe immediatamente resa operativa. In sintesi: se perdono, le municipalizzate vanno cedute e per gli stessi servizi il Comune si rivolgerà ad altri. Così pagando ciò che gli serve, senza avere una struttura inefficiente sulle spalle. Non dimentichiamoci che l’Argentina è fallita a causa dei debiti locali, non di quelli statali». Sulla vendita degli immobili, invece, Garbi è perplesso: «I prezzi del mattone sono già bassi e le compravendite languono: se lo Stato aumenta l’offerta di immobili in assenza di domanda, la situazione non può che peggiorare».

Barucci, Boeri e Garbi, come tanti altri esperti di finanza e conti pubblici, si schierano senza se e senza ma contro qualsiasi gioco delle tre tavolette, come il passaggio delle passività dall’Esfs (il fondo europeo di stabilità finanziaria) all’Esm (il meccanismo europeo di stabilità, noto come fondo salva Stati). Un trasferimento che permetterebbe di far uscire dal debito pubblico italiano una quarantina di miliardi. «Parliamo di operazioni puramente contabili e l’Italia non deve convincere l’Europa ma i mercati, che certo non si farebbero ingannare da soluzioni non in grado di risolvere i problemi reali», è il monito di Boeri. Il quale, in realtà, è convinto che il debito non sia in cima ai pensieri del governo e neppure delle autorità europee: «Credo che a Bruxelles diano per scontato che l’Italia non riuscirà a raggiungere gli obiettivi sulla riduzione del debito». C’è da sperare che il governo non lo prenda come un via libera alla galoppata dell’indebitamento pubblico. Altrimenti, quando mai dovesse arrivare, la ristrutturazione del debito sarà ancora più dolorosa di quanto sarebbe adesso.

In economia meno potere agli Stati

In economia meno potere agli Stati

Stefano Lepri – La Stampa

Mario Draghi è oggi il primo degli europeisti. E si tratta di un europeismo democratico, non tecnocratico. Il suo discorso dell’altro giorno rappresenta in primo luogo una svolta radicale nella dottrina della Bce: l’economia nell’area euro non ripartirà senza un impulso – uno stimolo, per dirla all’americana – dai bilanci pubblici. Per realizzarlo occorreranno decisioni che esprimano l’interesse dei cittadini dell’area euro nel loro insieme; non basta la sommatoria delle politiche dei governi, che ci ha condotto nel vicolo cieco dove ci troviamo. Questo risulta dalla stringente analisi economica condotta da Draghi; ovviamente trarne le conclusioni spetterà ai politici. Ne saranno all’altezza?

Nei mesi scorsi, il presidente della Bce era stato accusato di muoversi con troppa lentezza, timoroso di nuove rotture con i tedeschi. Per molto tempo, aveva proceduto a passi piccoli, talvolta quasi impercettibili, seppur con costanza. Infine, davanti a un pubblico americano a lui più vicino per studi e mentalità, ha compiuto un balzo. Alcune cose che ha detto stanno facendo, faranno scandalo in Germania. Ha detto che l’austerità degli anni 2011-12 era «necessaria» a causa dei difetti di costruzione dell’area euro, ma è stata anche eccessiva. Continua a sostenere che le riforme strutturali sono urgenti ma vi aggiunge – novità assoluta – che per la ripresa occorrono «politiche di domanda» ossia meno rigore di bilancio.

Si attenua l’ansia per l’eccessivo debito pubblico, di fronte a troppe persone senza lavoro. In parte, la crescita la può ottenere ciascuno Stato tagliando spese poco utili e abbassando le tasse (operazione politicamente ardua, perché le resistenze delle relativamente poco numerose vittime dei tagli sono più forti, all’inizio, della gratitudine dei contribuenti). Ma non basta.

Tuttavia non si possono infrangere le regole di bilancio europee, frutto della diffidenza reciproca tra gli Stati, giustificata dai passati comportamenti irresponsabili di alcuni tra essi. Ne risulterebbero contrasti capaci solo di condurre alla paralisi. Ma la somma di politiche nazionali che rispettano le regole produce, oggi, un bilancio troppo restrittivo, recessivo, per l’insieme dell’area euro. Questa è la vera «cessione di sovranità» che Draghi propone. Non dunque di esautorare governi liberamente eletti a favore di qualche gelido progetto tecnocratico. Tutt’altro: in nome degli interessi dei cittadini dell’area euro – soprattutto di quelli che sono disoccupati – occorre vedere che cosa aggiungere alle politiche dei governi nazionali. Ovvero, se lo Stato italiano ha troppi debiti per spendere, gli investimenti necessari al futuro benessere nostro e del resto dell’area euro dovranno venire dal bilancio della Germania e degli altri Stati dai bilanci sani, o da quel programma comune promesso dal neopresidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e a cui Berlino fa resistenza.

Nel gioco europeo sono dunque cambiate molte carte in tavola. Ricordiamoci che fino a ieri la Bce sosteneva che le regole del Fiscal Compact, casomai, non erano severe abbastanza. D’ora in poi, pignolerie eccessive contro l’Italia sono escluse. Tanto più quando Draghi ricorda che la stessa Commissione europea esprime dubbi su uno dei parametri usati per definire l’«obiettivo di medio termine» dei bilanci pubblici. Dove sono gli ostacoli da superare? C’è in realtà una simmetria perversa tra il nazionalismo economico conservatore dominante in Germania e un nazionalismo di sinistra che, presente da tempo in Francia, trova ora le sue forme anche in Italia. Una Europa più vicina ai cittadini si costruisce, appunto, in Europa; non ridando potere alle classi politiche nazionali.