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Il grande gelo degli investimenti

Il grande gelo degli investimenti

Riccardo Gallo – Corriere della Sera

Il governo non ha abbastanza tempo e soldi per fare tutte le riforme necessarie. L’ideale sarebbe individuarne una che fosse tanto virtuosa da rendere le altre meno urgenti. Questo bandolo della matassa però non l’ha cercato ancora nessuno. Cominciamo col dire che ci può essere crescita economica e lavorativa solo se le imprese private tornano a investire. L’ha detto anche Mario Draghi.

In un lavoro di ricerca abbiamo analizzato dal 1992 al 2013 l’insieme delle imprese industriali censite da Mediobanca. È venuto fuori che l’anzianità dei mezzi di produzione è raddoppiata: nove anni nel 1992, undici nel 2003, diciannove nel 2013. Da tempo le imprese non rinnovano gli impianti, tirano il collo a quelli vecchi, con rischi per ambiente e sicurezza. Per ridurre i costi fissi, fanno fare sempre più cose ad altri. Il valore aggiunto, si sa, è quanto un’impresa ci mette di suo in quello che vende. Ebbene si è quasi dimezzato: nel 1992 era il 27% del prodotto, nel 2005 era sotto il 20%, nel 2013 appena il 15%. Gli impianti più vecchi sono già ammortizzati, perciò gli ammortamenti ancora da fare sono pochi e così, finché le fabbriche reggono, e nonostante il crollo del valore aggiunto, restano margini per utili incredibili.

Tutti festeggiano, anche il Fisco. Non spendendo per nuovi investimenti, né per impianti né per acquisire aziende, la cassa è piena e serve a ridurre l’esposizione bancaria. Alla fine, anche se i prodotti continuano ad avere domanda di mercato, le imprese chiudono gli impianti vecchi. Perciò mese dopo mese la produzione e gli ordini calano, ma mica solo per congiuntura avversa. È che l’Italia si deindustrializza. Dall’analisi si vede che gli indicatori sono peggiorati un po’ dopo l’euro. Ciò fa pensare a una resa degli imprenditori per la rigidità del cambio. Tra tutti gli indicatori però ce n’è uno che fa eccezione. Il surplus di cassa (per mancati investimenti) comincia a essere evidente già nel 1999, un istante prima del debutto dell’euro. La causa originaria del declino va dunque cercata in un momento antecedente.

Qualcos’altro dev’essersi rotto nella seconda metà degli anni Novanta nel modello industriale italiano. Per cinquant’anni gli imprenditori avevano evaso il Fisco, avevano portato capitali all’estero, avevano promosso investimenti di ampliamento, avevano chiesto mutui agli istituti di credito industriale, li avevano ottenuti dopo un esame di merito, spesso a condizione che prima ricapitalizzassero la società, avevano ubbidito e avevano riportato dall’estero i capitali a casa, senza condoni, anzi orgogliosi. Quasi mai licenziavano i loro collaboratori. È stato il modello di un’Italietta irregolare che se la cavava e cresceva.

Nel 1993 il varo della banca universale ha superato la bipartizione tra banche commerciali che finanziano il breve e istituti di credito industriale a medio-lungo termine. Tra il 1994 e il 1999 le banche commerciali hanno incorporato sei istituti di credito industriale e ne hanno disperso il mestiere. A quel punto le imprese industriali non hanno più chiesto o ricevuto mutui. Nel 1992 su 100 euro di capitale di rischio ce n’erano 60 di mutuo, nel 1998 ne restavano 37. Le imprese hanno smesso di fare investimenti tecnici, poche hanno fatto shopping societario all’estero. Tutto si è ridotto al breve: magazzino, incasso dai clienti, pagamento dei fornitori. Sono aumentate le sofferenze delle banche verso le imprese più piccole. Stentano i titoli ABS, le cartolarizzazioni. Abrogato il modello dell’Italietta, non è decollato l’altro per un’Italia moderna. Può essere questo del finanziamento degli investimenti il bandolo della matassa?

La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

Mario Rodriguez – Europa

Non è per attizzare lo scontro sui massimi sistemi, le visioni del mondo, le ideologie (in accezione positiva). In un partito davvero plurale si dovrebbe preferire confrontarsi sulle conseguenze dei principi piuttosto che sui principi stessi. Ma forse il Pd non è ancora del tutto un partito plurale e allora il confronto apertosi sul Jobs Act per il suo un significato più generale, simbolico, “diciamo” di cultura politica, acquista una sua importanza. Si dice confronto sul Jobs Act ma in fondo si parla del fare impresa.

Mi pare particolarmente significativo che Matteo Renzi nella sua replica abbia fatto riferimento agli interventi di Soru, Scalfarotto e del ministro Poletti tutti centrati su una specifica visione del fare impresa e dell’imprenditore. E non a caso la polemica più significativa è stata attorno all’uso della parola “padrone” fatta da Massimo D’Alema. Lo scontro sul ruolo del fare impresa racchiude anche una questione forse ora in via di soluzione nella sinistra italiana e che ebbe già ai tempi del saggio su Proudhon, firmato da Craxi, un momento cruciale: un’altra sinistra non di ispirazione (più o meno) marxista è possibile. Quindi, non solo chi ha preso origine dal movimento comunista o socialista massimalista è titolato a usare il brand “sinistra”.

Per semplificare da un lato (chiamiamoli per comodità contrari al Jobs Act) c’è chi sostiene o teme che la nuova legge possa rappresentare il ritorno dell’arbitrio padronale nelle relazioni di lavoro, un’idea servile del lavoro, il ritorno all’800. E logicamente, per loro l’impresa è un meccanismo che spinge il “padrone” per sua stessa natura (dati i rapporti di forza) a schiacciare il lavoratore, a limitarne la dignità umana, lo aliena, lo rende merce. Anche se non lo si esplicita quella dei “contrari” è la visione residua di una concezione classista del rapporto capitale lavoro anche se impacchettata in una terminologia neo keynesiana. L’impresa è il luogo della “contraddizione insanabile”, è il motore unico o privilegiato della società, è il luogo dove si produce il valore ma anche l’emancipazione. E sotto, sotto c’è sempre l’idea che il ruolo del capitalista sia residuo, possa essere surrogato da un operatore collettivo, dallo stato. La società senza capitalisti può esistere e funzionare!

Dall’altro ci sono coloro (chiamiamoli per comodità favorevoli al Jobs Act) che vedono l’impresa come uno dei luoghi della generazione della ricchezza (non il solo), vedono il profitto come incentivo ad investire e misura di efficacia, non come meccanismo di sfruttamento abolibile; generatore di opportunità collettive (attraverso la fiscalità) e non solo come avidità egoistica individuale. Vedono l’imprenditore come soggetto socialmente meritorio oltre che utile, come contribuente e non come potenziale evasore. Come inventore, portatore di visioni e aspirazioni. Un innovatore capace di imporre un nuovo modo di soddisfare bisogni. Forza da imbrigliare in regole precise (per contrastare la naturale propensione a cercare posizioni di dominio o di rendita e spesso scorciatoie illecite) ma non tali da frustrarne le potenzialità. Più Schumpeter che Marx per intendersi.

Anch’egli, come i leader carismatici, forza da domare per utilizzarne il potenziale non da demoralizzare. Per questo i “favorevoli” pensano che sia opportuno che l’imprenditore abbia – soprattutto in momenti di crisi – maggiori certezze regolamentali e maggiori possibilità di fare le proprie scelte sui collaboratori e i lavoratori della sua impresa. Pensano che le valutazioni di un giudice – variabili di luogo in luogo, di soggetto in soggetto – non solo non siano all’altezza delle scelte da compiere ma non possano surrogare le decisioni manageriali.

Detta così una visione sembra tutta conflitto e lotta e l’altra tutta armonia e amore per il prossimo. Ovviamente non è così. Il sindacato, anche la Fiom di Landini, sa negoziare tenendo presenti le esigenze produttive e le scelte manageriali come nel caso Ducati. E Poletti, Soru e Scalfarotto sanno benissimo che il conflitto non solo non è eliminabile in qualsiasi società ma è utile, è fisiologico, aiuta a migliorare, difende i più deboli e contrasta arroganza e abuso di potere. Una visione democratica prevede la competizione, la cooperazione e il conflitto, riconosce le diseguaglianze e combatte le discriminazioni. E non si preoccupa solo della discriminazione sul luogo di lavoro come parte del conflitto di classe: mi licenzi perché sono sindacalizzato o lotto contro i padroni. Ma la combatte come un problema sociale di libertà individuale e autorealizzazione umana, di dignità. Le discriminazioni per ragioni di genere, razza, opinioni devono essere combattute ovunque e il ricorso alla tutela della legge deve essere diffuso in tutta la società affinché diventi costume generalizzato.

Per questo credo che il confronto sul Jobs Act serva per riprendere un cammino avviatosi con la nascita stessa del Pd e abortito con il rilancio della bocciofila: quello della costruzione di un partito di sinistra plurale e post ideologico a vocazione maggioritaria, non il partito di una classe (anche se quella operaia) ma della nazione. In questo forse sta l’importanza poetica e non solo prosaica del confronto della direzione pd.

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Federico Fubini – Affari & Finanza

Pochi Paesi sono ossessionati come l’Italia dal proprio declino, pochissimi sembrano così incapaci di venirne a capo. Dalle regole del lavoro alla burocrazia, alle tasse, ovunque vengono additati dei colpevoli. Una categoria però sembra attraversare indenne il crollo della produzione industriale del 25% in questi anni: coloro che ad essa hanno presieduto, gli imprenditori. Valutazioni sulla capacità e competenza di molti di loro non entrano nei dibattiti sulle riforme strutturali. Qualche indizio dice che è il caso di iniziare a farlo. Non sarà tutta colpa dell’articolo 18 se le imprese italiane sono fra le più fragili in Europa: nelle loro strutture finanziarie, il capitale proprio è il 15% (il resto è debito), contro il 24% della Francia, il 28% della Germania, il 44% della Gran Bretagna. Gli imprenditori non mettono i loro soldi in azienda e non lasciano che lo facciano altri, magari in Borsa.

Bruno Pellegrino dell’Università della California e Luigi Zingales di Chicago stanno per pubblicare uno studio per il National Bureau of Economic Research, il primo think tank economico degli Stati Uniti, dove mostrano un fallimento. Gli imprenditori italiani hanno azzoppato la produttività del Paese perché spesso hanno preferito circondarsi di manager scarsi ma fedeli piuttosto che bravi. Il virus del familismo ha portato al potere nelle imprese troppi incompetenti, che non sono riusciti a cavalcare la rivoluzione tecnologica. Dicono Pellegrino e Zingales: «Il clientelismo e favoritismo nelle imprese sono le cause ultime della malattia italiana». L’aspetto sorprendente è che non è vero ovunque.

C’è un ceto di imprese italiane fra i 500 milioni e i tre miliardi di fatturato, spesso leader mondiali di settore, che in questi anni sta prosperando. Intercos nella cosmetica, Ima o Gd nel packaging, Interpump nella meccanica, Danieli nell’acciaio e vari altri. Nomi che alla maggioranza degli italiani dicono poco, ma non solo perché non sono a contatto con i consumatori. Se non se ne parla, è perché i loro azionisti e manager non cercano sponde nei partiti o nelle lobby. È gente che sa lavorare, cresce sul serio e, in questo caos di Paese ha rinunciato da un pezzo a esercitare la prerogativa più preziosa: il potere dell’esempio. Preferiscono sparire, volare sotto al radar per non attrarsi guai, piuttosto che mostrare ai colleghi come si fa e tutti gli italiani che vincere si può. Su questo ceto di aziende, medie su scala globale, adesso grava una responsabilità. Devono assumere il ruolo delle grandi imprese che l’Italia non ha più. Nella moda, nel packaging, nella meccanica o nell’alimentare è ora che cadano le logiche di famiglia, le rivalità di distretto o le gelosie di marchio per creare, nel tempo, nuove realtà con muscoli davvero globali. Soggetti aggregatori senza passaporto francese o indiano, ma italiano. È una riforma strutturale che non necessita accordi nelle sedi di partito: forse, per una volta, si può.

L’insostenibile (quanto sproporzionata) pesantezza del Fisco

L’insostenibile (quanto sproporzionata) pesantezza del Fisco

Stefano Natoli – Il Sole 24 Ore blog

L’Italia ha uno dei sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa. Durante la crisi la situazione è ulteriormente peggiorata per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica. Lo evidenzia una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei: Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna. Considerando la pressione fiscale dal 1990 al 2012, si osserva come negli ultimi anni l’Italia – assieme alla Francia – abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali (quattro punti di Pil) nonostante la gravissima crisi economica.
Da uno studio diffuso sempre oggi dalla Uil emerge, inoltre, che 7,2 milioni di contribuenti si sono ritrovati nel 2014 buste paga più leggere – in media di 58 euro – per “colpa” delle addizionali regionali. Nell’anno in corso sei Regioni (Piemonte, Liguria, Umbria, Lazio, Molise e Basilicata) hanno aumentato o rimodulato in alto le aliquote a fronte di due che le hanno diminuite (Provincia Autonoma di Bolzano e Abruzzo), mentre le restanti le hanno confermate. Il federalismo fiscale è anche questo.
Bruxelles, intanto, invita l’Italia ad accelerare decisamente nell’attuazione della legge delega di riforma fiscale entro marzo 2015, approvando i decreti che riformano il Catasto. Fra gli altri obiettivi: sviluppare ulteriormente il rispetto degli obblighi tributari, semplificare le procedure, migliorare il recupero dei debiti fiscali, modernizzare l’amministrazione fiscale. Fra le questioni calde resta la madre di tutte le battaglie, ovvero la lotta all’evasione fiscale. Se le tasse le pagassero tutti, avremmo infatti conti pubblici e privati più a posto e un welfare decisamente diverso.

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

Romano Prodi – Il Messaggero

Nella sua visita in California il Presidente del Consiglio ha incontrato un nutrito gruppo di giovani imprenditori italianiche, a migliaia di chilometri di distanza, sono andati a costruire delle “start up”, cioè delle nuove imprese che nascono a grappoli dove esiste un ambiente favorevole. Dove sono disponibili risorse finanziarie e, soprattutto, energie umane giovani e coraggiose. In fondo anche noi abbiamo avuto il periodo delle nostre start-up quando, dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta, fiorivano i nostri distretti industriali, con sempre nuove aziende che fra di loro si integravano e nello stesso tempo si facevano feroce concorrenza. Questo era allora possibile perché le imprese si fondavano su tecnologie semplici e su accessibili fenomeni imitativi, mentre la tumultuosa crescita del mercato permetteva un rapido ritorno degli investimenti. Il tutto era molto adatto all’Italia di allora: pur con tutti i nostri problemi si è perciò potuto parlare di miracolo italiano e vedere le nostre piccole e medie imprese indicate come esempio di efficienza e di innovazione nei manuali di tutte le Business School del mondo.

Oggi viviamo in un pianeta diverso: le imprese fondate sull’imitazione non reggono più di fronte ai nuovi concorrenti mentre le nuove iniziative si fondano su tecnologie raffinate, hanno bisogno di nascere e vivere vicino a università e laboratori di ricerca d’avanguardia e, anche nei casi in cui richiedono capitali modesti, il ritorno del capitale di rischio è a lungo termine. Questo in conseguenza della complessità delle conoscenze da mettere insieme, delle laboriose prove sperimentali e delle autorizzazioni pubbliche necessarie. Il tutto senza tenere conto della difficoltà di reperire credito bancario, data la maggiore facilità nel giudicare il rischio di un prestito concesso a una fabbrica di piastrelle o di abbigliamento che non a un laboratorio che propone nuove molecole o raffinati processi di software. D’altra parte queste sono le aziende del futuro e la loro esistenza condiziona anche la vita e lo sviluppo delle aziende tradizionali.

Non è quindi sorprendente dovere constatare le difficoltà della nostra industria, presa nella tenaglia fra i Paesi a basso costo del lavoro e quelli che fanno tanta ricerca, soprattutto ricerca applicata. Tuttavia, come capita in tutti i casi della vita, se si vuole cambiare qualcosa bisogna prima di tutto partire dalle risorse che abbiamo e cercare di utilizzarle al meglio, sperando di potere in seguito preparare il complesso ecosistema che caratterizza i distretti dove nascono le nuove imprese. Partiamo dal fatto che le nostre risorse spese in ricerca applicata sono scarse, anzi infime, rispetto agli altri Paesi moderni. Abbiamo tuttavia centri di dimensioni non trascurabili, almeno attorno aI politecnici di Torino e Milano, alle università di Bologna e Pisa e al complesso delle università romane e napoletane. Senza nominare la non trascurabile presenza del CNR e dell’Enea. Ho inoltre in mente l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) che è stato opportunamente creato proprio per promuovere la ricerca applicata dedicata a fare avanzare il nostro sistema produttivo e che sta facendo bene il suo mestiere.

Ebbene quando mi sono messo ad analizzare se questi centri di ricerca promuovono nuove imprese sono rimasto profondamente deluso. Le imprese generate sono pochissime e quasi sempre abbandonate a se stesse. E quindi non si sviluppano. I contatti fra le università e le imprese sono scarse, le “start up” non sono capite e non nascono le strutture dedicate a farle vivere. Strutture che, non a caso, nel linguaggio internazionale, sono chiamate “angeli“. Certo gli impedimenti burocratici e le regole allucinanti a cui sono sottoposte le nostre università e le nostre imprese costituiscono la prima difficoltà, ma ho dovuto constatare come siano difficili e complessi i rapporti perfino fra i laboratori d’avanguardia come quelli dell’IIT e la città di Genova che ne ospita le strutture portanti. Ancora ostacoli burocratici ma anche un quasi totale disinteresse del mondo produttivo per capire che cosa si può ricavare da quei ricercatori e da quei laboratori d’eccellenza. Almeno in questi casi la colpa non è certo tutta del governo. Sappiamo che i nuovi business sono difficilmente individuabili, altamente rischiosi e diversi fra di loro. Tra le nuove imprese solo una su cinque (o forse una su dieci) avrà successo ma sappiamo anche che, come accade in tutti gli altri Paesi, il guadagno che deriva dall’impresa di successo costituisce una remunerazione del capitale impiegato molto più elevata della media, anche tenuto conto del costo dei fallimenti.

Mi chiedo perciò come mai, intorno a questi ed altri centri di ricerca, non nascano gli “angeli” in grado di adempiere il complesso compito di legare le imprese all’ecosistema della ricerca, della finanza e delle altre imprese. E mi chiedo perché le autorità pubbliche non ne aiutino in modo prioritario la nascita, impegnandosi anche a contribuire in modo proporzionale agli impegni degli operatori privati. Parlo naturalmente di una presenza minoritaria, perché questo non è un mestiere adatto al pubblico. Ma quanti e dove sono gli operatori privati disposti a rischiare? Ben pochi! Eppure in Italia vi sono sufficienti persone che hanno preparazione, esperienza e conoscenza di uomini per aiutare i giovani ricercatori che si vogliono fare imprenditori, per consigliare a loro gli specialisti di cui hanno bisogno nelle nuove imprese e per dotare le imprese stesse delle necessarie risorse finanziarie. In Italia i potenziali “angeli” non mancano. E non mancano di certo le risorse finanziarie.

Nelle città indicate, ma non solo in queste, basterebbe una infima (ma proprio infima) percentuale delle risorse immobiliari o mobiliari parcheggiate all’estero per dare un contributo concreto all’occupazione giovanile, per rallentare la fuga dei cervelli e per fare si che almeno i colleghi migliori degli imprenditori che Renzi ha incontrato in California possano operare con successo in Italia. Diamo pure alla burocrazia le colpe che si merita ma non dimentichiamo che il coraggio ed il senso del futuro hanno importanza determinante per costruire il nuovo. Ricordiamo Inoltre che i nostri padri, al loro tempo, lo hanno avuto. E, soprattutto, ricordiamo che senza “angeli”non si può arrivare in paradiso.

Che cosa insegna la lezione americana

Che cosa insegna la lezione americana

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Vista dal quartier generale di Auburn Hills, dove la Fca ha recuperato tutta la produzione e l’occupazione in un primo tempo perdute da una Chrysler data per spacciata, la guerra di religione italiana sull’articolo 18 appare ancor più “lunare” di quanto già non appaia a casa nostra nel suo angusto recinto culturale tutto novecentesco. Matteo Renzi e Sergio Marchionne hanno confermato una stagione di consonanza: al premier interessa creare lavoro e guarda a un Paese con un tasso di disoccupazione del 6,1% (da noi è il doppio); al supermanager italo-canadese interessa una chiarezza di strategia e di scelte di sistema che il giovane primo ministro italiano sembra garantirgli. In comune – parole di Marchionne – hanno il coraggio.

È il giorno dell’orgoglio esibito da Oltreoceano. È auspicabile che sia anche quello della consapevolezza. Si comparano grandezze omogenee o almeno commensurabili, per cui può sembrare ingenuo o velleitario accostare la situazione dell’Italia e quella degli Stati Uniti. Ma non lo è quando nelle stesse ore si deve dare conto di un crollo della fiducia delle imprese in ogni settore nel paese europeo e del boom del Pil Oltreoceano. E quand’anche si comparassero due grandezze statisticamente più accostabili, come sono ad esempio l’Europa e gli Usa, le conclusioni non sarebbero molto diverse. Purtroppo.

Questi due dati, pur se parziali e abbinati da un capriccio di calendario, aiutano a fissare, in modo non fallace, il risultato di culture, di atteggiamenti singoli e collettivi, di modelli di sviluppo, di strategie per accrescere e tutelare il capitale umano. E per queste vie rappresentano le scelte per creare fiducia, per investire, per indicare direttrici di sviluppo e di nuova modernità, magari attenta alla sostenibilità dello sviluppo e a una gestione meno selvaggia della globalizzazione. Non si può fare degli italiani altrettanti americani (o tedeschi), ma si può prendere atto delle lezioni che le scelte di quei Paesi offrono a chi le osservi senza pregiudizi. E ha fatto bene Renzi a dire che cambierebbe con gli Usa il modello di istruzione e trasferimento tecnologico ma non quello di welfare. Ma l’Italia non è ancora in grado di sbloccarsi e di usare al meglio il potenziale delle sue energie e risorse. Che la fiducia sia in caduta libera è dimostrato anche dal crollo dei consumi – per nulla scalfiti della pioggia degli 80 euro – dal gorgo della deflazione, dal crollo della produzione e dal primo, drammatico, scricchiolio anche per l’export, in flessione in vari settori dopo anni di crescita continua, unico antidoto alla gelata della domanda interna di un’Italia paralizzata e impaurita del suo stesso futuro. Dagli Usa arriva una lezione su come siano cruciali l’industria, l’innovazione e la flessibilità per ricostruire la fiducia di un intero Paese.

La nuova guerra di religione sul tema sensibile del lavoro che si sta combattendo per l’ennesima volta nel nostro Paese va nella direzione contraria alla fiducia. Se ne parla poco, ma anche negli States esiste in linea teorica il reintegro: ma non lo impone quasi mai il giudice e, soprattutto, non lo considera conveniente il lavoratore che, in genere, monetizza un indennizzo e cerca altre opportunità altrove. Perché lì il mercato – funzionante – lo consente. Ed è questa la vera posta in gioco: creare un mercato del lavoro degno di questo nome in cui la gran parte delle assunzioni siano affidate a contratti a tempo indeterminato flessibile. Superando una concezione assistenziale del welfare, degna più di sudditi che di cittadini-lavoratori consapevoli. E archiviando la stagione del dualismo squilibrato tra gli insider iperprotetti e gli outsider iperflessibili. È un fatto di equità e di efficienza.

Significa una rete di agenzie per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (pubbliche e private in rapporto di sussidiarietà); risorse per gestire formazione per migliorare i curricula di chi perde l’impiego; risorse per garantire un forma di ammortizzatore sociale universale per chi perda il lavoro e si impegni a cercarne un altro. Significa superare le lacune di un federalismo sbilenco che ha destinato alle Regioni la creazione delle agenzie per l’impiego (con drammatici divari territoriali di efficienza) e il tema della formazione, in genere slegato rispetto alle reali esigenze delle imprese che dovrebbero assumere.

Si tratta di un impianto riformista – e la delega in discussione al Senato sembra recepirne l’ambizione, anche se con formulazioni ancora ampie e ambigue – ma ha bisogno di una dote ingente di risorse per funzionare davvero. Invece che dibattere tra i guelfi del sì-articolo 18 e i ghibellini del no-articolo 18 alla ricerca di uno “scambio” pasticciato tra tutele crescenti che abbiano prima o poi anche la “reintegra” sarebbe bene organizzare uno “scambio” tra semplificazione delle regole e dotazione delle risorse per le politiche attive. Anche perché si rischia l’eterogenesi dei fini: una riforma nata per togliere il reintegro per il 5% delle imprese italiane, quelle sopra i 15 addetti, rischia di introdurlo (dopo 5, 7 o 10 anni) per il 100% delle imprese italiane. In sostanza: si estenderebbe invece che ridursi.

La politica attiva è e resta il tema vero per il legislatore. Per le parti sociali, che hanno una storia importante e unica in Italia, l’impegno dovrebbe diventare invece quello di creare e distribuire la produttività. Rimasta finora negletta in questa Italia coperta dalle coltri delle polemiche sui diritti che ha reso impossibile una discussione serena su come creare ricchezza e come allocare gli investimenti. È questa la nuova frontiera di relazioni industriali avanzate, la vera sfida per imprese e sindacati. Negli Usa lo hanno capito. A un passo dal baratro. E si sono salvati. Non è il caso di tenerne conto?

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

Oscar Giannino – Il Messaggero

Raffaele Bonanni anticipa la sua successione alla guida della Cisl nel culmine della battaglia sull’articolo 18. E dà in questo un epilogo a una vita di passione sindacale che l’ha visto spesso impegnato in battaglie molto difficili. Se Pierre Carniti l’ha rimproverato di aver troppo rimarcato la “differenza” riformista della Cisl, rispetto all’antagonismo spesso risorgente nella Cgil e nella Fiom, al contrario è per il senso di responsabilità di Bonanni e di chi lha sostenuto alla Cisl su molti accordi innovativi – una per tutte la vicenda Fiat- che, ancora recentemente, purtroppo la confederazione si è trovata ad avere sedi vandalizzate e dirigenti minacciati.

Ora che l’addio di Bonanni è nelle cose, molti argomentano che il punto centrale è la distanza o la vicinanza del sindacato rispetto a questo o quel governo, a quelli Berlusconi un tempo, a quello Renzi oggi. Ma il nodo più essenziale non è il rapporto con la politica, se vogliamo interrogarci sul rilievo e sull’apporto che il sindacato può dare a un Paese che ha molto perduto – in termini di reddito, lavoro e prodotto – ma che al contempo sente di potersi battere per difendere il suo posto sui mercati mondiali.

È invece il suo rapporto con il mondo del lavoro, la sua vicinanza o distanza rispetto a come il lavoro è diventato concretamente in Italia. In Italia i fatti non sono andati come si poteva immaginare ai tempi di Carniti o di Lama. Non siamo diventati un Paese in cui la stragrande maggioranza degli occupati sarebbe stata ineluttabilmente a tempo indeterminato e in imprese sempre più grandi. Quelle attese erano maturate negli anni Cinquanta e Sessanta, scambiando il salto che l’Italia compiva, agganciando in soli 15 anni le economie industriali da una realtà postbellica che era ancora agro-pastorale, come un anticipo di una tendenza volta a confermarsi nei decenni.

Non è andata così. Contiamo nelle graduatorie internazionali meno grandi e grandissime imprese italiane di quante erano 20 anni fa. Restiamo un Paese in cui il tessuto d’impresa, anche nel settore manifatturiero, ha visto le piccole e piccolissime aziende resistere accanitamente. Tra i Paesi a forte componente di valore aggiunto manifatturiero sul Pil, siamo quelli con il più alto numero in milioni di lavoratori autonomi, artigiani e commercianti, partite Iva e freelance. E a tutto questo, negli ultimi 15 anni, abbiamo aggiunto un esercito di milioni di lavoratori più giovani a tempo determinato, a bassissimo e incerto reddito, estranei alle tutele immaginate solo ai tempi eroici per i dipendenti a tempo indeterminato delle aziende medio-grandi, a singhiozzante continuità contributiva, e ciò malgrado proprio coloro che più contribuiscono in positivo, oggi, a pagare le ricche pensioni retributive degli ipertutelati di un tempo, pensioni retributive che i più giovani non avranno.

È in questo mondo – un mondo maggioritario tra i 22,4 milioni di lavoratori italiani, cassintegrati compresi – che il sindacato oggi, anzi da un po’ di anni, semplicemente non c’è. Malgrado, per esempio, le intese degli anni più recenti sui criteri di rappresentanza sui posti di lavoro, è ancora più regola che eccezione che i precari non possano votare per le rappresentanze sindacali. Ma per il resto, e per fare un solo esempio, a favore di Daniela Fregosi che, da lavoratrice autonoma malata di cancro, ha coraggiosamente fatto del suo caso personale una battaglia pubblica, perché per il welfare italiano attuale un’autonoma malata non ha diritto alle tutele salariali e contributive dei dipendenti, si batte l’Acta, l’Associazione dei freelance del terziario avanzato, non certo il sindacato.

È questa la più grande lacuna della rappresentanza del mondo del lavoro italiano. E le risposte date in questi anni dalle confederazioni, la nascita di articolazioni come la Nidil (nuove identità di lavoro) in Cgil, o le analoghe rappresentanze dei lavori a tempo e in somministrazione da parte di Cisl e Uil, o gli inseguimenti tra confederali e molteplici sindacati di base nella rappresentanza dei precari della PA e in particolare della scuola, sono stati sin qui tentativi troppo parziali e insoddisfacenti. Volti a organizzare proteste per l’assunzione a tempo indeterminato nel pubblico come nel privato, non a cambiare identità, regole e struttura del sindacato. Accettando pienamente l’idea che i contratti a tempo esistono ed esisteranno comunque, qualunque sia la riforma o meno dell’articolo 18, perché assecondano esigenze dell’offerta di beni e servizi che devono rispondere a una domanda interna ed estera che muta in tempi rapidi, e perché l’esternalizzazione di funzioni e processi dall’unità d’impresa non è solo una furbata per star sotto la soglia dei 15 dipendenti, ma una necessità dovuta all’ottimizzazione dei risultati.

Per tutte questa ragioni, è ovvio che da una parte verrebbe da dire a Bonanni che se un compito dovrebbe avere il suo successore, è quello per esempio di lavorare a unificare Cisl e Uil, la cui persistenza in vita come confederazioni distinte assolve più alla ragione di tenere in piedi organi territoriali e nazionali e quadri e dirigenti doppi, che alla perdurante irriducibilità culturale di due ispirazioni, quella cattolica e quella socialdemocratica, che appartengono irrimediabilmente all’Ottocento e al Novecento.

Ma, dall’altra parte, l’appello vero da rivolgere alla Cisl, alla Uil e alla Cgil, è molto più ampio di una mera riconsiderazione delle proprie distinzioni, o dell’appello alla mitica “unità” delle confederazioni. Dovrebbero capire che è tempo di non maturare più successioni alla leadership a vantaggio di chi ha già passato decenni nelle segreterie nazionali di categoria e confederali, ma invece di chi viene dalla contrattazione decentrata che è il futuro. Si è appena sottoscritto l’ennesimo contratto aziendale – alla Ducati, del gruppo Volkswagen – fortemente innovativo su turni, festività, orari, salari, investimenti dell’azienda e nuove assunzioni. Ma ancora oggi, in Italia, noi non abbiamo neanche una banca dati centralizzata sulle intese aziendali, perché i sindacati temono che realizzarla significhi dare un colpo al sistema che continuano a difendere, quello dei contratti nazionali di lavoro che fissano oltre il 95% del salario: mentre solo accettando che quelli aziendali siano prevalenti su quello nazionale anche per i salari, davvero il sindacato riconquista il proprio ruolo di motore a difesa del lavoro e del suo reddito, a fianco dell’impresa e meglio potendo anche osservarne dall’interno andamenti e investimenti. E soprattutto compartecipando gli effetti positivi di quell’aumento di produttività in assenza del quale, dopo 15 anni di stagnazione, ci sarà sempre meno impresa e meno lavoro.

Non è un problema di età, e neanche di genere, anche se ovviamente più sindacaliste in posizioni di responsabilità è meno scandaloso di una rappresentanza maschile a senso unico. È un problema di testa: accettare l’idea che rappresentare gli autonomi significa sposare l’idea che è ingiusto che la contribuzione a carico degli iscritti al fondo speciale Inps sia maggiore di quella dei lavoratori dipendenti, battersi per un welfare che non è più incentrato sull’idea novecentesca della maggior tutela ai dipendenti, chiedere un fisco che non discrimini la percezione per reddito a seconda della fonte. Per lungo tempo, in Italia, il problema del sindacato è stato quello di non concepire l’impresa come nemica. Oggi, è diventato quello di non considerare milioni di lavoratori come estranei.

Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Il viaggio del Presidente del Consiglio Matteo Renzi negli Stati Uniti ha molteplici obiettivi: partecipare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, essere presente alle manifestazioni su ambiente e clima, visitare la Silicon Valley e discutere con il Presidente della Università di Stanford delle determinanti che hanno portato ad un vasto distretto di forte sviluppo tecnologico.
Su questo argomento, c’è da augurarsi che rientri in Italia con lo stimolo di dare nuova vita a quella “politica industriale” che da qualche tempo sembra quasi una parolaccia. L’Italia è un Paese a vocazione manifatturiera per necessità: privo di materie prime, può solo contare su produzione industriale e mercato mondiale. Dall’inizio della crisi nel 2008, abbiamo perso quasi il 25% del valore aggiunto industriale e in percentuale del Pil la quota della nostra protezione industriale è passata dal 22% a poco più del 15%.
Ai livelli quasi della vicina Francia che conta però su un vasto comparto agricolo altamente sovvenzionato dai contribuenti europei tramite la politica agricola comune. Attenzione: proprio in Francia sono stati prodotti due importanti documenti, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012 che, pur ponendo l’accento sulla competitività dell’industria francese, contenevano proposte per una strategia industriale europea. Il Rapport Beffa ha avuta una certa eco grazie a seminari e dibattiti organizzati dalla Fondazione Ideazione. Il Rapport Gallois è stato semplicemente ignorato nel nostro Paese. In breve l’ultimo documento organico di politica industriale italiano resta quello predisposto da Antonio Marzano nel 2004, quando era Ministro delle Attività Produttive. Restò, però, una bozza di documento a ragione di una malattia di Marzano e del suo trasferimento al CNEL.
Renzi ha senza dubbio tratto utili stimoli dalla Silicon Valley e dagli incontri all’Università di Stanford. Mi chiedo, però, quanto siano pertinenti ad un Paese come il nostro tra gli ultimi in Europa in termini di infrastruttura cablata e banda larga e dove meno del 15% della popolazione in età lavorativa ha un diploma di laurea (rispetto al 30% in Spagna, al 29% in Francia ed al 27% in Germania, nonché al 75% nella Silicon Valley). Forse avrebbe tratto idee più concrete, e più rilevanti alla situazione italiana, dallo studio pubblicato in queste settimane dall’Inter-American Development Banl, o meglio una raccolta di studi curata da Gustavo Crespi ed Eduardo Fernandez Arias (Retinking Production Development: Sound Policies and Institutions for Economic Transformation).
Solamente i gufi schizzinosi possono adombrarsi da riferimenti all’America Latina. Mostrano di essere profondamente ignoranti degli alti tassi di crescita di numerosi Paesi dell’America Centrale e Meridionale negli ultimi vent’anni e di non sapere che per gran parte del Continente è non più l’Europa ma la Corea del Sud. I saggi indicano come riforme istituzionali – tanto care a Matteo Renzi – possono, anzi debbono, essere coniugate a politiche industriali ancorate ad innovazioni fattibili anche se scarseggiano le infrastrutture ed il capitale umano.
Particolarmente utile la sezione sui business incubator – e sul ruolo dello Stato e delle autonomie locali a questo riguardo – anche per ricca di casi di studio di “avventure” che hanno avuto successo in contesti non troppo distinti dal nostro. E’ vero che alcuni capitoli sono difficili da digerire: scritti per economisti quantitativi con una forte formazione matematica, possono scoraggiare i politici dalla loro lettura. Li salti a pie’ pari. E si concentri invece su quelli che possono dare una politica industriale all’Italia.

Nuovo balzo dei fallimenti: +14% nel secondo trimestre

Nuovo balzo dei fallimenti: +14% nel secondo trimestre

Francesco Antonioli – Il Sole 24 Ore

È ancora buio. C’è una nuova impennata dei fallimenti: tra aprile e giugno più di 4mila imprese hanno aperto una procedura fallimentare, registrando un incremento del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013. La crescita a doppia cifra porta i default oltre quota 8mila se si considera l’intero semestre, +10,5% rispetto al livello già elevato dell’anno precedente e record assoluto dall’inizio della serie storica dal 2001. «Stiamo vivendo una fase molto delicata per il sistema delle PMI italiane – commenta Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved -: la nuova recessione sta spingendo fuori dal mercato anche imprese che avevano superato con successo la prima fase della crisi e che stanno pagando il conto al credit crunch e di una domanda da troppo tempo stagnante».

L’incremento più sostenuto si osserva tra le società di capitale, la forma giuridica in cui si concentrano i tre quarti dei casi, che superano nel primo semestre quota 6mila. Minore invece l’incremento del fenomeno tra le società di persone (+5,9%) e tra le altre forme (+1,8%). L’analisi condotta da Cerved, primo gruppo in Italia nell’analisi del rischio del credito e una delle principali agenzie di rating in Europa, mostra come i fallimenti riguardano indistintamente tutta la Penisola. «I tassi di crescita – prosegue De Bernardis – sono ovunque a doppia cifra ad eccezione del Nord Est, in cui si registra un incremento del 5,5%, il livello più basso di tutto il territorio. In crescita del 14% rispetto al primo semestre 2013 i fallimenti nel Mezzogiorno e nelle Isole, del 10,7% nel Nord Ovest e del 10,4% nel Centro».

A livello settoriale, la maglia nera spetta ai servizi che contano un aumento del 15,7%, in netta accelerazione rispetto al primo semestre del 2013. Continuano, anche se con dei ritmi più lenti, le procedure nelle costruzioni e nella manifattura: i fallimenti di imprese edili crescono nei primi sei mesi del 2014 dell’8,2% (+12,8% nel 2013), mentre per le imprese manifatturiere l’aumento è del 4,5% (+10,5% nel primo semestre dello scorso anno). Tra aprile e giugno, con i correttivi legislativi, crollano le domande di concordato in bianco: sono state 665 (-52%); ne è conseguenza una diminuzione dei concordati comprensivi di piano (-12,3% nei primi sei mesi del 2014).