imprese

La beffa delle certificazioni

La beffa delle certificazioni

Luca Antonini – Panorama

Molti piccoli imprenditori negli ultimi mesi hanno diligentemente attivato le procedure per ottenere la certificazione dei crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni, attenendosi a quanto prevede la nuova normativa sulla cessione pro soluto dei crediti certificati e assistiti dalla garanzia dello Stato (art. 37, comma 3 del d.I. n. 66/2014). Ottenuta una notevole pila di carta (le certificazioni) si sono rivolti ai principali istituti bancari accreditati per sottoscrivere il contratto di cessione del credito. Qui però sono iniziati i problemi: non tutte le banche avevano ancora predisposto specifiche procedure interne per gestire le operazioni di smobilizzo del credito certificato, né erano in grado di dire se e quando tali procedure sarebbero state approntate.

Non solo la pila di carta non si è tramutata subito in euro, ma si è aggiunto il danno: le pubbliche amministrazioni per certificare il credito hanno indicato la data prevista di pagamento sfruttando il tempo massimo, 12 mesi, consentito dalla legge (anche nel caso di crediti già ampiamente scaduti) e fino a quel momento per effetto della sottoscrizione dell’istanza di certificazione rimane paralizzata per legge la possibilità di avviare le normali procedure esecutive di recupero crediti. Ma oltre il danno è arrivata anche la beffa: infatti in televisione appariva intanto uno spot informativo della presidenza del Consiglio dove si dichiara che con il provvedimento sopra citato erano stati risolti tutti i problemi di liquidità che affliggono gli imprenditori che lavorano prevalentemente con le pubbliche amministrazioni. Non sappiamo a oggi quante banche siano riuscite ad attivare le procedure.

È fallita una PMI ogni cinque

È fallita una PMI ogni cinque

Tino Oldani – Italia Oggi

Il solco che separa il bla-bla del governo dalla cruda realtà dei fatti sta diventando preoccupante. Prendiamo le piccole e medie imprese (pmi), che da sempre sono la vera spina dorsale dell’economia italiana. Il primo rapporto Cerved dedicato a questo settore, potendo contare su una messe di dati senza eguali, ha rivelato pochi giorni fa che, dall’inizio della crisi economica (2008) ad oggi, una piccola e media impresa su cinque è uscita dal mercato. In dettaglio: su 144 mila pmi censite, 13 mila sono fallite, più di 5 mila hanno avviato una procedura concorsuale non fallimentare, altre 23 mila sono state liquidate volontariamente.

L’amministratore delegato del Cerved, Gianandrea De Bernardis, ha tenuto a precisare che le pmi considerate, secondo la definizione Ue, sono quelle con un fatturato tra 2 e 50 milioni di euro e tra 10 e 250 dipendenti. In questa forchetta, in Italia ci sono 144 mila società che generano un giro d’affari di 851 miliardi, con un valore aggiunto di 183 miliardi, pari al 12% del pil nazionale. Dunque, una colonna portante dell’economia, che purtroppo si sta sgretolando sempre di più.

Poiché la crisi dura da ben sette anni, cosa hanno fatto finora i vari governi per le pmi? Cercando una risposta su Google, si scopre che il 28 agosto scorso il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha emesso un comunicato grondante ottimismo sul successo dei mini bond, introdotti con il decreto Competitività per aiutare le pmi, con un carico fiscale ridotto. «Lo strumento dei mini bond» recitava il comunicato, «è ormai decollato e diventa sempre più diffuso tra le piccole e medie imprese che intendono accedere al mercato per reperire risorse di finanziamento in alternativa al credito bancario. Negli ultimi due mesi sono ben 26 le pmi che, per la prima volta, si sono affacciate sul mercato dei capitali e hanno emesso mini bond per un valore complessivo di un miliardo. Le emissioni vanno da un minimo di 5 milioni a un massimo di 200 milioni». Concludeva entusiasta Padoan: «Porteremo questa positiva esperienza all’attenzione dei partner europei in occasione dell’Ecofin di Milano».

Purtroppo per Padoan, il presunto «decollo» dei mini bond viene ora smentito dai dati del Cerved, che descrivono una realtà ben diversa. Su 144 mila imprese, sono soltanto 29 quelle che hanno emesso finora obbligazioni finanziarie, per un valore che si è fermato a 226 milioni; la torta complessiva dei mini bond agevolati sul piano fiscale, pari a 4,2 miliardi, è andata per il 95% alle grandi imprese. Di certo, spiega la ricerca Cerved, su questi dati ha influito un certo ritardo culturale delle pmi italiane, che, a differenza di quelle tedesche e francesi, dipendono per il 98% dai finanziamenti bancari. E poiché il credit crunch non ha mollato la presa, e poiché i pagamenti dei clienti e dello Stato hanno accumulato ritardi pazzeschi, ecco spiegati i fallimenti che hanno costretto una pmi su cinque a chiudere i battenti.

È evidente che senza una vera ripresa dei flussi del credito bancario, non vi sarà alcuna ripresa. Lo sa bene anche Matteo Renzi, che sul sito che porta il suo nome (matteorenzi.it) ha postato qualche tempo fa una proposta dettagliata, con un titolo roseo: «250 miliardi di credito garantito per le aziende». Recita il testo: «Oggi molte imprese, anche sane, soffrono, e in alcuni casi chiudono perché il credito non è disponibile. E quando è disponibile, è erogato a condizioni molto onerose. Tante aziende sono inoltre messe in difficoltà dai crediti verso la pubblica amministrazione. In queste condizioni, competere con i tedeschi e gli olandesi è quasi impossibile».

Ecco allora la soluzione di Renzi: «Riteniamo che l’accesso al credito sarà una delle leve principali per consentire alle piccole imprese di sopravvivere e per avviare un nuovo ciclo di crescita. Per questo prevediamo di riallocare sui fondi di garanzia del credito almeno 20 miliardi di fondi europei, in modo da garantire almeno 250 miliardi di crediti a piccole e medie imprese, dando all’imprenditoria sana, in particolare nel Sud, l’ossigeno per ripartire, a tassi competitivi con le imprese tedesche e olandesi».

Dettaglio importante: il post reca la data del 14 novembre 2012, quando Renzi era ancora sindaco di Firenze, ma parlava già come se fosse il presidente del Consiglio. I fondi di garanzia del credito, infatti, erano una sua idea: voleva che ne sorgesse uno in ogni Regione, con fondi del programma europeo Jeremie (Joint european resources for micro to medium enterprises). Peccato che da quando è premier se ne sia completamente scordato, per dare la precedenza a riforme controverse (Jobs act, articolo 18, Senato regionale, legge elettorale), buone per stare ogni giorno sul teatrino mediatico, ma del tutto inutili per favorire la ripresa delle pmi, o quanto meno per ridurre il numero dei loro fallimenti.

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Il Tempo

Lo Stato paga i debiti vecchi ma non quelli nuovi. Con il risultato che lo stock di fatture non saldate ai fornitori è rimasto pressocché invariato. A spiegare che il vizietto dei pagamenti lunghi è rimasto una consuetudine nella pubblica amministrazione è il Centro Studi “ImpresaLavoro”. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.

«Nel caso concreto – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa». Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta. Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi. E le imprese che non ricevono il loro saldo in tempo sono costrette ad andare in banca e a pagare 6 miliardi in più complessivamente di interessi.

Debiti PA: lo stock complessivo del debito resta invariato

Debiti PA: lo stock complessivo del debito resta invariato

NOTA

Sbaglia chi pensa che in questi giorni la pubblica amministrazione stia finalmente riducendo in tutto o in gran parte i suoi cospicui debiti nei confronti delle imprese creditrici. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Ogni giorno infatti, le imprese che lavorano con la PA consegnano i beni ed erogano i servizi richiesti; ogni giorno, le imprese incassano i crediti per le forniture chiuse in passato.
Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.
Nel caso concreto, stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa.
Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto.
Già su questa cifra occorre dire che ImpresaLavoro, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40, fonte: http://www.mef.gov.it/primo-piano/article_0118.html), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta.
Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi circa e che l’intervento del governo, pur meritorio, è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse ulteriormente.

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Rassegna Stampa:
Il Tempo
La Notizia
Aziende italiane, la forza delle donne

Aziende italiane, la forza delle donne

Roger Abravanel – Corriere della Sera

Chi scrive è stato tra i primi fautori delle quote rosa per avere più donne nei consigli di amministrazione italiani (Cda). L’obiettivo era di migliorare la qualità del Cda perché nelle aziende all’estero è dimostrato che il contributo femminile li rende migliori. Può sembrare strano che un fautore della meritocrazia possa avere spinto per le «quote», ma la logica era quella delle «azioni positive» del mondo anglosassone: per un periodo limitato bisogna forzare l’inserimento di generi (o razze) discriminate, altrimenti il cambiamento non avviene. C’era anche la speranza che avere più donne nei Cda avrebbe portato a un’altra ricaduta: la crescita dei ruoli nel management, rompendo quel «soffitto di vetro» che riduce la percentuale di donne man mano che si sale nella gerarchia aziendale.

Dopo molte opposizioni (anche da parte di donne ) il concetto è passato ed è partito un vero tsunami, culminato con una proposta di legge bipartisan. L’idea di chi scrive era inserire un «incoraggiamento» nel codice di autodisciplina delle società quotate ad avere almeno due donne nei loro Cda. Ma per la politica l’occasione era troppo ghiotta: la legge è passata e comunque è stata una cosa positiva. Dopo cinque anni, i risultati sono impressionanti. La percentuale di donne nei Cda è quadruplicata, l’Italia è diventata un modello per l’Europa e i presidenti di Eni, Enel, Terna e Poste sono oggi delle donne. Sorge una domanda: questa inondazione «rosa» nei nostri Cda li ha davvero migliorati? Secondo gli addetti al lavoro sembrerebbe di si. A un recente convegno milanese sul tema della governance si è celebrato un grande miglioramento del funzionamento dei Cda italiani. Effettivamente sotto certi aspetti le cose sono migliorate.

Per un quarto di secolo abbiamo assistito a illeciti più o meno gravi in gran parte creati da azionisti di maggioranza e ignorati dai Cda: conflitti di interesse mostruosi a scapito degli azionisti minoritari, corruzione e collusione diffuse, frodi contabili. Oggi è raramente così: le norme che regolano il diritto societario vengono controllate seriamente e la cosiddetta Compliance (rispetto della legge) occupa molto del tempo nei Cda. Per quanto ho potuto osservare, le donne arrivate nei Cda hanno dato un notevole contributo in questo senso non solo perché sono spesso ottime professioniste e avvocati (anche più precise e meticolose degli uomini), ma perché sono delle outsider, davanti alle quali molti consiglieri maschi insider si sentono in difficoltà nell’ignorare
le regole.

Ma i Cda avevano bisogno di un miglioramento ben oltre il rispetto della legalità. Oltre alla C della Compliance nei migliori Cda si trovano altre 4 C. Per 3 di queste serve una grande esperienza manageriale: il Controllo (dei conti e della performance aziendale, non solo dal punto di vista contabile ma del business), il Coach, allenatore dell’amministratore delegato (che ha sempre bisogno di un altro «specchio di se stesso»), il Contribuire al management (per esempio contatti nel settore, punti di vista su potenziali acquisizioni di aziende o di dirigenti). Su queste 3 C le professioniste entrate nei Cda italiani sono riuscite a fare poco perché raramente hanno esperienza manageriale e autorevolezza che viene dopo anni di posizioni di leadership nelle aziende ai massimi livelli. Non per colpa loro, ma perché le aziende italiane negli ultimi 25 anni non hanno mai creato opportuni- tà per donne eccellenti di risalire la gerarchia aziendale.

La carenza più grave è però sulla ultima delle 5 C, il cosiddetto Challenge. Che vuole dire sfidare il vertice aziendale avendo posizioni diverse sulla strategia, sulla struttura organizzativa del top management, sul programma di successione, sugli obiettivi di budget, sul meccanismi di incentivazione della remunerazione. Per farlo, oltre a una grande autorevolezza ed esperienza nel capire il business è necessaria una vera «indipendenza» morale. Molte neoconsigliere hanno queste doti, ma non riescono ad esercitarle perché sono una minoranza in un Cda maschile dove il Challenge è una pratica poco corrente. Anche perché in molti Cda manca quella figura del presidente leáder-senza deleghe che orchestra le 5 C con l’aiuto del Cda Nella maggior parte delle aziende italiane il presidente è l’imprendittore che fa anche il capo-azienda, mentre in quelle publiche (per esempio ex statali) è una presenza molto poco attiva e presente soprattutto sull’esterno.

Resto comunque ottimista che, col tempo, la ricaduta che le quote rosa avranno nell’aumentare la leadership femminile nel management metterà a disposizione dei Cda più donne capaci di migliorarne radicalmente la qualità. Per il Challenge sarà però necessaria una condizione: che oltre alle quote rosa si introducano le «quote azzurre» per avere più maschi con forte indipendenza morale e leadership.

Debiti con le imprese, pagati 32,5 miliardi. «Il grosso degli arretrati è degli Enti Locali»

Debiti con le imprese, pagati 32,5 miliardi. «Il grosso degli arretrati è degli Enti Locali»

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Per saldare ivecchi debiti della pubblica amministrazione il governo ha già erogato 40,1 miliardi tra ministeri, organi nazionali dello Stato e enti locali. Ai creditori, però, fino al 30 ottobre scorso sono stati effettivamente pagati 32,5 miliardi. Un aggiornamento viene dal ministero dell’Economia, dopo la promessa fatta dal premier Matteo Renzi: in Parlamento e in tv, a «Porta a Porta», il presidente del Consiglio aveva detto che sarebbero stati saldati i debiti arretrati «entro il 21 settembre», giorno del suo onomastico. Pena una passeggiata di 23 chilometri per l’ex sindaco da Firenze al santuario di Monte Senario. A prescindere da come è finita la scommessa con Bruno Vespa (Renzi sostiene di non aver perso), il meccanismo pianificato dall’esecutivo si basava sull’accordo tra governo, banche e Cassa depositi e prestiti (che faceva da garante): un imprenditore doveva solo registrarsi sul sito del ministero dell’Economia e, dopo avere ottenuto la certificazione del proprio credito, poteva andare in una banca o in una finanziaria a riscuotere (il costo dell’operazione di cessione del credito era dell’1,6% e per gli importi inferiori ai 50mila euro saliva all’1,9%). Molti imprenditori, però, si sono visti voltare le spalle da finanziarie e istituti di credito perché l’accordo non prevedeva alcun obbligo.

Comunque «il governo ha provveduto a mettere a disposizione degli enti debitori oltre 56 miliardi per smaltire il debito patologico», precisa il Tesoro. Di questi, quelli effettivamente assegnati agli enti sono 40 miliardi, ma quelli effettivamente erogati non superano appunto i 32,491 miliardi. Le amministrazioni centrali dello Stato sono responsabili di una quota del «debito patologico stimata nel 5-10% – aggiungono dal ministero -.La gran parte del debito è responsabilità di Regioni, Province, Comuni», Asl, enti e società delle autonomie locali. Insomma, dice l’Economia, la responsabilità dei mancati pagamenti è di Regioni ed enti locali.

Ieri il ministro Pier Carlo Padoan era a Bruxelles per la riunione dell’Ecofin, dove ha parlato anche del problema del budget Ue. La commissione ha chiesto finanziamenti aggiuntivi al Regno Unito e all’Italia. «È un argomento difficile, ma oggi (ieri ndr) non c’è stato alcun negoziato sulle quote che i Paesi devono pagare all’Europa. In questa fase è troppo presto per dire che cosa faremo». Secondo le cifre della Commissione, sono circa 340 i milioni che l’Italia deve versare per il ricalcolo di fine anno, 2,1 miliardi il Regno Unito. Per quanto riguarda la legge di Stabilità, Padoan ribadisce che finora «nessun Paese ha ricevuto bocciature». Nel frattempo prosegue il cammino della manovra alla Camera: sono stati presentati 3.707 emendamenti (oltre un migliaio solo dal Pd), compreso quello con il quale l’esecutivo ha modificato il testo dopo le richieste dell’Ue. Martedì è prevista la verifica di ammissibilità ma un numero così alto di emendamenti è molto probabile che spingerà il governo a chiedere la fiducia.

L’origine della crisi è Mani pulite: troppe norme uccidono l’impresa

L’origine della crisi è Mani pulite: troppe norme uccidono l’impresa

Giorgio Oldoini – Libero

Nessuno ha il coraggio di ammettere che la perdita di competitività del Paese ha le sue radici nei primi anni Novanta. Da allora, tutte le leggi sono state concepite al solo scopo di «reprimere» il malaffare economico e tutti i cittadini sono diventati presunti colpevoli. Con un crescendo rossiniano inarrestabile: quando ci si accorgeva che nulla stava cambiando, si so- no aumentati i reati e inasprite le pene. I consigli di amministrazione delle società sono occupati da specialisti di diritto penale, mentre chi deve produrre ricchezza, è passato in seconda fila. Nessuna persona onesta e capace ha interesse a occuparsi della cosa pubblica, considerata la continua produzione di dossier e gli arresti facili. In questo modo abbiamo distrutto ciò che restava dell’autonomia individuale, il fattore di sviluppo più spontaneo, originale e utile a disposizione dei governi.

Cari «difensori dell’etica» rinchiusi in polverose stanze, nulla si muove senza l’iniziativa degli imprenditori e lo spirito d’iniziativa è un fattore altamente personale e dinamico, che si basa sugli «incentivi». Il più grande incentivo all’economia è convincere masse d’individui a lasciare il posto fisso e diventare imprenditori. Sarebbe questa l’azione opposta a quella svolta dai governi negli ultimi trent’anni. Occorrono incentivi potenti perché gli individui si decidano ad abbandonare posizioni sicure e per indurre il risparmiatore a rischiare i propri capitali nello sfruttamento di nuovi prodotti.

La prima rivoluzione è di natura culturale: il profitto d’impresa rappresenta un «valore», al pari del lavoro, perché senza il primo non c’è il secondo. La vera sicurezza sociale esiste solo con un alto livello di produzione e un’economia di espansione. Per molti italiani sicurezza significa certezza di conseguire un salario senza troppi sacrifici. Si tratta di una pericolosa illusione perché il mondo è in continuo mutamento e la sicurezza per certi gruppi accresce l’incertezza degli altri. Perché un individuo dotato di normale buon senso s’impegni nella vita d’impresa, è necessario che le possibilità di guadagno superino quelle di perdita. Queste prospettive devono essere chiare e attraenti in modo da stimolare le energie nuove: certezza del diritto, riduzione del costo dello stato sociale e della fiscalità allargata, eliminazione delle burocrazie oppressive, rivoluzione copernicana nelle scuole.

In una democrazia, la principale funzione dell’istruzione è quella d’unire piuttosto che dividere e di diffondere la tolleranza e il mutuo rispetto. È necessario insegnare ai giovanissimi alcuni principi fondamentali dell’economia. Bisogna dimostrare la relazione tra produzione e consumo e che gli elevati salari dipendono dalla produttività dei singoli lavoratori. Si può spiegare in che modo i vari fattori della produzione sono interdipendenti e che i problemi economici del Paese non consistono nel conflitto di classe. Più difficile sarà impedire a un magistrato di motivare una sentenza in funzione dei grandi «principi», costringendolo al semplice richiamo alla legge. Per questo bisognerà attendere un cambio generazionale e un mutamento dell’organo di autogoverno, che punisca i protagonismi diffusi e la tendenza alla giurisprudenza «creativa».

Bisogna insegnare ai giovani che il peggior governo è sempre stato quello del burocrate: esso complica a furia di teorizzare anche le cose più semplici, pensa in termini di regolamenti e di leggi, desidera costruire una socie- tà che abbia una regolarità geometrica e non si rende conto che in questo modo distrugge la libertà esistente e l’attività dei singoli. L’uomo semplice che govema un’impresa, che conosce per esperienza professionale il piacere e l’efficacia del lavoro concepito e compiuto in libertà, è meno pericoloso quando è al potere perché non c’è bisogno di dirgli che la legge è una cosa pericolosa, che può distruggerlo invece di aiutarlo.

Per le imprese l’incognita dell’imposta versata dalla PA

Per le imprese l’incognita dell’imposta versata dalla PA

Matteo Mantovani e Benedetto Santacroce – Il Sole 24 Ore

La lotta alle frodi Iva si arricchisce di un nuovo strumento: lo split payment nelle operazioni effettuate con la Pa. Il Ddl di Stabilità 2015 prevede, in estrema sintesi, che l’imposta venga versata dal soggetto pubblico che acquista un bene o un servizio da un privato. Il fornitore, pertanto, riceve dal cliente l’importo fatturato al netto dell’Iva. Il meccanismo serve a inibire le frodi basate sul missing trader, in cui il debitore dell’imposta, dopo averla riscossa dal proprio cliente, omette di versarla per poi “scomparire”. Lo split payment riguarderà solo i rapporti di fornitura (di beni e servizi) con lo Stato, gli organi dello Stato e, in generale, con tutti gli enti pubblici, laddove l’operazione non sia assoggettata al reverse charge. La Pa, pertanto, assume il ruolo istituzionale di collettore del gettito Iva verso l’erario.

Non mancano, però, le incognite. Sia perché il sistema – solo tratteggiato nel Ddl – non sarà implementabile se non previa autorizzazione dell’Ue e le modalità tecniche di funzionamento saranno dettagliate in seguito con un decreto ministeriale. Sia perché rischia di creare complicazioni ai fornitori sotto il piano degli adempimenti e su quello finanziario. Il fatto che il cedente/prestatore emette nei confronti della Pa una fattura con Iva esposta (come sembra emergere dalla relazione al Ddl Stabilità) crea il problema di come gestire contabilmente tali documenti. Le imprese saranno chiamate a modificare i sistemi informatici tenuto conto che alla rivalsa dell’Iva non conseguirà un’entrata finanziaria e la relativa imposta (solo esposta) non andrà computata a debito nella liquidazione di periodo. Sarebbe più semplice consentire la fatturazione senza Iva, ma oggi manca un valido titolo per non applicare l’imposta.

Sul versante finanziario, lo split payment porta coloro che lavorano prevalentemente con la Pa a trovarsi in una costante situazione di credito Iva. Certo, a tali soggetti è esteso il diritto al rimborso, sia annuale che trimestrale, dell’eccedenza a credito. Tuttavia, il rimborso è vincolato al trascorrere di tempi tecnici: ciò può condurre a squilibri nei flussi di cassa, con la conseguente necessità per le imprese di rivedere la gestione della tesoreria. Inoltre il Dlgs semplificazioni (atteso all’approvazione definitiva del Governo dopo il secondo parere parlamentare) mira a facilitare la procedura di rimborso Iva eliminando la prestazione delle garanzie: questo in parte mitiga l’onerosità della procedura ma non risolve il problema legato ai tempi. Del resto, le difficoltà dello split payment sono state segnalate anche a livello comunitario. La comunicazione sul futuro dell’Iva – Com(2011)851 – riporta che la proposta di implementazione di tale sistema ha suscitato reazioni tendenzialmente negative da parte di imprese e consulenti, preoccupati dell’impatto che lo split payment può produrre sul flusso di cassa e sui costi di conformità.

Imprese, stangata di fine anno: arriva una tassa ogni due giorni

Imprese, stangata di fine anno: arriva una tassa ogni due giorni

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

In 61 giorni lo Stato si farà un’abbuffata di tasse e balzelli da 91 miliardi di euro a spese di famiglie e imprese. È quanto ha rilevato la Cgia di Mestre. A novembre e dicembre i contribuenti saranno impegnati in un vero e proprio tour de force per assolvere a una serie di obblighi fiscali che prosciugheranno le casse del sistema-Italia. Giusto per fare qualche esempio, si tratta del versamento delle ritenute Irpef dei dipendenti, delle ritenute per i lavoratori autonomi e dell’Iva. A queste si aggiungeranno gli acconti Irpef, Ires e Irap, il versamento dell’ultima rata dell’Imu e della Tasi per un totale di 25 scadenze fiscali che, escludendo sabati e domeniche, significano una tassa da pagare ogni due giorni.

«Una pioggia di scadenze che potrebbe mettere in seria difficoltà moltissime piccole imprese a causa della cronica mancanza di liquidità», osserva il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, ricordando che «la fine dell’anno è un periodo molto delicato per le aziende perché, oltre all’impegno con il fisco, devono corrispondere anche le tredicesime ai dipendenti». Visto il perdurare della crisi, «questo impegno economico costituirà un vero e proprio stress test», aggiunge. L’unico politico a raccogliere l’appello di Bortolussi è stato Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc. L’eccesso di tasse «rischia di mettere definitivamente in ginocchio il Paese», ha commentato formulando «l’auspicio è che il governo intervenga a stretto giro per alleggerire il carico fiscale, apportando anche dei miglioramenti alla bozza della legge di Stabilità». La priorità, ha concluso, è «salvare le nostre Pmi o la crescita resterà un miraggio».

La confederazione degli artigiani mestrini si è poi peritata nel determinare il numero complessivo delle gabelle e, tra queste, nell’individuare le più astruse. Il risultato è parzialmente sorprendente. «Tra addizionali, bolli, canoni, cedolare, concessioni, contributi, diritti, imposte, maggiorazioni, ritenute, sovraimposte, tasse e tributi, gli italiani ne pagano un centinaio», annota l’Ufficio studi della Cgia. Nella piccola galleria degli orrori fiscali, invece, si possono annoverare: l’addizionale regionale all’accisa sul gas naturale (una tassa sulla tassa) e l’imposta provinciale di trascrizione (una particolarità italiana che consiste nel versare un tributo alle Province per l’acquisto di un’auto nuova). Nell’elenco si trovano anche astrusità come l’imposta sulle riserve matematiche, cioè la tassazione dei fondi che le compagnie di assicurazione devono accantonare per garantire le polizze. Nell’epoca del commercio globale, poi, esistono ancora i dazi doganali che si chiamano «sovraimposta di confine» e si applicano al gas, agli spiriti, ai fiammiferi, ai sacchetti di plastica non biodegradabili, alla birra e agli oli minerali.

Quando, invece, si passa ad analizzare il gettito il catalogo si riduce di molto. Le prime dieci imposte (Irpef, Iva, Ires, Irap, imposta sugli oli minerali, Imu, imposta sui tabacchi, addizionale Irpef regionale, ritenute sugli interessi e altri redditi da capitale e imposta sul lotto) hanno garantito l’anno scorso oltre l’83 per cento del gettito tributario per complessivi 405,6 miliardi su un totale di 485,3. Secondo la Cgia, nel 2014 tra imposte e tributi lo Stato e le autonomie locali incasseranno 487,5 miliardi, con un lieve incremento rispetto al 2013. Ma se si computano anche i contributi sociali, di poco superiori ai 216 miliardi, quest’anno il gettito fiscale complessivo sfiorerà i 704 miliardi di euro. Una cifra da capogiro che mette in evidenza come il costo della macchina statale non sia più sostenibile se, per finanziarlo, gli italiani vengono tosati come pecore.

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Un’operazione a costo zero per le imprese. Da appena 100 milioni per lo Stato. Ma molto costosa per i lavoratori. Il provvedimento sull’anticipo del Tfr (trattamento di fine rapporto) in busta-paga, vistato dalla Ragioneria, entra in extremis nella legge di Stabilità varata ieri sera dal consiglio dei Ministri. Verranno rispettate le due condizioni annunciate dal governo: volontarietà della scelta di incassare anzitempo il Tfr da parte del lavoratore e nessun deficit di liquidità per le imprese, soprattutto quelle medio-piccole. Ma chi sceglierà di avere il Tfr in busta paga subirà su queste somme la tassazione secondo l’aliquota marginale. È questa, secondo le indiscrezioni, l’ipotesi sulla quale è orientato il governo. L’operazione Tfr in busta paga, quindi, non sarebbe conveniente, soprattutto per i redditi medio-alti.

Il testo definitivo non è stato distribuito ieri in conferenza stampa. Il meccanismo prevede che le banche che anticiperanno alle imprese le risorse per pagare il Tfr in busta-paga avranno la stessa remunerazione che oggi viene garantita al Tfr in azienda (1,5% più lo 0,75% del tasso d’inflazione). Il provvedimento dovrebbe avere un arco temporale che terminerebbe nel 2018 (data che coincide con la scadenza delle Tltro, l’operazione di rifinanziamento mirata a lungo termine della Bce).

Il dipendente privato (per quello pubblico la norma non vale) potrà fare richiesta di ottenere il Tfr in busta-paga mensilmente anziché alla fine del periodo lavorativo.Visto che l’accantonamento del Tfr corrisponde a circa una mensilità all’anno, per un lavoratore che incassi 1.400 euro netti significa ottenere in busta-paga più di 100 euro al mese per 13 mensilità. L’impresa per cui lavora dovrà farsi certificare dall’Inps il diritto alla prestazione. Tale certificazione verrà trasmessa alla banca che deciderà se erogare il finanziamento. Al termine del periodo lavorativo del dipendente, sarà l’azienda a dover restituire i soldi alla banca finanziatrice. Se non lo farà, la banca per recuperare le spettanze dovrà rivolgersi al fondo di garanzia dell’Inps. La novità sta nella controgaranzia dello Stato, pari a 100 milioni per il 2015. Tale controgaranzia consente alle banche di non trovarsi in difficoltà con le regole di Basilea perché evita loro di farsi carico di un fardello patrimoniale per i finanziamenti legati al Tfr in busta paga. Il provvedimento, previo decreto attuativo e successivo protocollo tra ministeri competenti e Abi, dovrebbe essere operativo a metà 2015 con effetto retroattivo dall’inizio dell’anno.

Ci sono due aspetti ancora da chiarire. Il primo attiene appunto alla cifra che lo Stato potrebbe incassare per la tassazione della parte del Tfr che entra in busta-paga e che una stima quantifica minimo in un miliardo e mezzo e massimo in 4 miliardi. L’altro aspetto riguarda il fondo Inps che raccoglie i versamenti effettuati dalle imprese sopra i 50 dipendenti, importi che con la nuova normativa potrebbe perdere. La manovra conterrebbe anche un altro aumento secco del prelievo, quello dell’aliquota sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20%.