lavoro

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

Emanuela Micucci – Italia Oggi

Garanzia Giovani sale a quota 273.124 iscrizioni, di cui 76.003, il 28%, sono giovani presi in carico e profilati. Mentre 29.229 sono i posti di lavoro disponibili. Un trend, quello delle registrazioni, salito negli ultimi due mesi a 50mila iscrizioni al mese, come ha sottolineato in Commissione Lavoro del Senato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti indicandolo come «un buon risultato».

Dedicato ai 2.254.000 giovani tra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano (i Neet), di cui circa 1,27 milioni hanno fino a 24 anni e tra questi 181mila sono stranieri, cioè il 21% dei ragazzi di questa fascia di età, il programma Garanzia Giovani «più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, si è purtroppo rivelato un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte», osserva il Centro Studi ImpresaLavoro nella ricerca “Il labirinto della Garanzia Giovani” (www.impresalavoro.org). Analizzando i report periodici del ministero del Lavoro dall’avvio del programma (il 1 maggio scorso) fino al 9 ottobre, quando vi avevano aderito 250.770 giovani, di cui 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema Garanzia Giovani ed erano stati offerti 25.747 posti di lavoro. Numeri leggermente aumentati a fine ottobre, come riportiamo in apertura del nostro articolo, ma che sostanzialmente confermano la conclusione di ImpresaLavoro: ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.

«Sulla base dei dati sui Neet – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – il nostro Pese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative) pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del programma sarà, pertanto, pari a circa 1.512 milioni di euro». Risorse su cui è intervenuto Poletti in Commissione Lavoro al Senato, indicando in 1,5 milioni la platea massima potenziale di giovani e in 900mila quella ragionevole, ma precisando che le risorse disponibili sono in grado di garantire il servizio potenzialmente a 400-500mila giovani». A oggi, ha aggiunto, «complessivamente sono stati impiegati 561 milioni di euro».

Secondo l’analisi di ImpresaLavoro, la maggior parte delle occasioni di lavoro è concentrata al Nord, ben il 71,7%, contro il 14,3% al Centro e il 13,9% al Sud mentre quelle all’estero rappresentano solamente lo 0,1%: percentuali rimaste invariate nel corso del mese.

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alessandro Giovannini e Ilaria Maselli – Il Sole 24 Ore

Riformare davvero il mercato del lavoro in Italia, non vuol dire soltanto affrontare il tabù dell’articolo 18, ma costruire un mercato del lavoro nuovo. Una sfida che sembra essere raccolta dalla legge delega, la quale prevede anche l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive (ispirati alle linee guida della Strategia europea per l’occupazione e al modello di flexicurity) e la creazione di un salario minimo legale. Tutti elementi cruciali per trasformare il sistema nel suo complesso e aumentare l’efficienza del mercato del lavoro, ma sul cui merito si è poco discusso.

Per esempio, non si è discusso delle coperture. Nel testo approvato al Senato si legge: «dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». La legge di Stabilità prevede poi solo 2 miliardi per l’attuazione della legge delega. È credibile promettere un sistema di flexicurity a spesa praticamente invariata? Basta confrontare la situazione italiana con quella del resto d’Europa, dove il sistema già esiste, per capire che difficilmente funzionerebbe.

L’Italia ha speso all’anno, in media, per le politiche del lavoro l’1,5% del Pil a fronte di una media europea dell’1,9 per cento. Se però si divide questa spesa per i disoccupati si scopre che la spesa per le politiche del lavoro in Italia è molto lontana da quella dei Paesi della flexicurity. Nel 2012 l’Italia ha speso in media 7.800 euro per il sostegno al reddito dei disoccupati, a fronte dei 18.100 in Danimarca e 21mila in Belgio. Nello stesso anno, l’investimento medio in politiche attive è stato di 1.800 euro in Italia, 16.900 in Danimarca e 6.500 in Belgio. È realistico promettere un sistema di flexicurity senza avere un chiaro piano per le finanze pubbliche?

Oltre l’aspetto finanziario, vi è poi quello della capacità amministrativa. I centri per l’impiego italiani sono capaci di svolgere l’attività di matching tra domanda e offerta dei mercati del lavoro locali? Sono capaci di soddisfare la domanda di formazione delle aziende nei loro distretti? Se no, perché e di quali strumenti avranno bisogno? I dati arrivati finora da Garanzia giovani non sembrano incoraggianti: a più di cinque mesi dal lancio dell’iniziativa, meno del 25% dei giovani registrati sono stati presi in carico e profilati dai Centri per l’Impiego (CpI). Questo nonostante le risorse siano già disponibili (più di 1,5 miliardi di euro). Come il Jobs Act vuole intervire su questo punto? Il testo approvato al Senato prevede un’«Agenzia nazionale per l’occupazione», che riesca a superare la frammentazione territoriale dei CpI attuali. Un’agenzia composta anche da «personale proveniente dalle amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati». Ma queste persone sono in grado di effettuare attività di front-office o andranno a ingrossare le fila della burocrazia di questa agenzia?

Considerato che con il Jobs Act cambia radicalmente l’impianto delle politiche del lavoro, volte non più alla tutela del posto di lavoro sempre e comunque, ma orientate verso la tutela dell’occupazione in generale e del reddito in caso di disoccupazione, è bene proporre una riforma solida e credibile altrimenti l’innesto di un sistema nuovo in un sistema che già fa resistenza rischia di creare un bel nulla. Per andare in questa direzione ciò che serve è prima di tutto ricordare che la flexicurity è un pacchetto e va implementata nel suo insieme. Non ha senso infatti pensare di attuare la flexibility prima e la security poi. In secondo luogo, è importante tenere a mente che la gestione moderna delle politiche del lavoro necessita di un approccio moderno alle politiche pubbliche, fatto di progettualità, monitoraggio e formazione. Non si possono infatti trasformare i funzionari dei centri per l’impiego semplicemente cambiando il loro job title. In maniera complementare rispetto a questo, è anche necessario stanziare risorse adeguate per finanziare politiche attive e passive, cosa che aiuterebbe a superare lo scetticismo di chi teme di passare da un regime a un altro.

Ricercatori precari a vita, solo uno su cento ce la fa

Ricercatori precari a vita, solo uno su cento ce la fa

Flavia Amabile – La Stampa

Solo un ricercatore precario su 100 nelle università italiane ha davanti a sé una possibilità vera di stabilizzazione, gli altri 99 stanno perdendo tempo. O, più semplicemente, stanno preparando le valigie per andare altrove, a molti chilometri di distanza da un’Italia che, lontano dai proclami dei consigli dei ministri di governi di ogni colore politico, non riesce a fare nulla per i suoi cervelli. L’Apri, associazione dei precari della ricerca, ha analizzato i dati attuali del ministero dell’università. Il ritratto che ne è emerso non è dei più lusinghieri per le università e per la politica italiana. Esistono 2450 ricercatori a tempo determinato di tipo A, cioè quelli che hanno durata triennale, rinnovabili per altri due anni e poi fine, si fermano lì, non possono fare altro. Ci sono 15.237 titolari di assegni di ricerca di vario tipo, in pratica persone che lavorano nelle facoltà come dei borsisti, dopo essersi procurati da soli i fondi per la loro attività ma che non otterranno mai alcuna stabilizzazione. Ed esistono 224 fortunati ricercatori a tempo determinato di tipo B, con contratti di tre anni, gli unici che possono portare alla promozione a professore associato se, al termine dei tre anni, avranno conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale. Sono 224 persone in tutt’Italia, assunte con contratti basati su una legge del 2010 che ha portato ai primi bandi solo dopo tre anni di attesa, nel 2013. A queste condizioni, quasi 99 ricercatori su 100 saranno espulsi dal sistema accademico, una cifra ancora più negativa di quella dello scorso anno, comunque drammatica, di 96 ricercatori che il sistema avrebbe buttato fuori.

In questa situazione che cosa sta facendo il governo Renzi? La riforma Gelmini che prometteva di risolvere il problema del precariato nelle università ha soprattutto cancellato il problema come dimostrano i dati e come denunciano le associazioni. La ministra Gelmini aveva anche previsto che il 40% delle risorse degli atenei per il turnover fossero destinate obbligatoriamente a posti di ricercatore a tempo determinato. Dopo di lei Francesco Profumo eliminò il vincolo e introdusse l’obbligo di creare un posto da ricercatore a tempo determinato di tipo B ogni nuovo professore ordinario per dare spazio vero ai giovani. Ora che stanno ripartendo i concorsi, la Crui, la Conferenza dei rettori, ha chiesto più volte di abolire la norma di Profumo. Il governo Renzi ha ceduto con una manovra molto furba: nella legge di stabilità si è esteso il vincolo rendendolo valido anche per i ricercatori di tipo A, quelli che non hanno speranze di trovare una sistemazione stabile nelle università.

«Ovviamente nessun ateneo avrà interesse ad assumere ricercatori di tipo B che costano di più e creano problemi in fatto di organico – commenta Luigi Maiorano, presidente dell’Apri -. È inutile, quindi, che anche questo governo annunci di poter risolvere il problema dei precari. L’esito delle decisioni prese dal governo è facilmente prevedibile: avremo più promozioni di associati ad ordinari e più precariato». «Si tratta di una mano di vernice su un sistema ormai arrugginito», spiega Antonio Bonatesta, segretario nazionale dell’Adi, l’associazione dottorandi e dottori di ricerca. «Ci troviamo dinanzi a interventi di maquillage che non si pongono in modo serio e credibile l’ obiettivo di risolvere strutturalmente la drammatica situazione dei giovani ricercatori in Italia». Ed estendere il vincolo, come ha fatto il governo Renzi, significa che – prosegue l’Adi – «Gli atenei -si orienteranno verso la figura che richiede il minor aggravio e cioè quella del ricercatore di tipo «a», sprovvisto di tenure track e più precario».

Soltanto la (buona) flessibilità crea lavoro

Soltanto la (buona) flessibilità crea lavoro

Giuliano Cazzola – Il Garantista

«Eppur si muove». Il tasso di disoccupazione alla fine del terzo trimestre dell’anno in corso si attesta al 12,6 per cento. Un livello dal quale il mercato del lavoro sembra incapace di lasciarsi alle spalle. Si intravedono, però, alcune modifiche – modeste ma significative – per quanto riguarda l’occupazione giovanile nelle coorti (tra i 15 e i 24 anni, quelle che ormai vengono prese a riferimento): il tasso di occupazione cresce dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente e dello 0,5 rispetto ai precedenti dodici mesi. Anche il tasso di disoccupazione giovanile vede una piccolissima inversione di tendenza (-0,8 sul mese precedente) in un contesto complessivo caratterizzato da un incremento del trend negativo pari a 58mila unità.

Più interessante la diminuzione degli inattivi (-0,9 e -2,1 per cento nei confronti di un anno prima). Sta a significare che i giovani si mettono in numero maggiore sul mercato in cerca di un impiego. I dati delle comunicazioni obbligatorie ci dicono che la riforma del contratto a termine sta producendo degli effetti sul piano delle assunzioni, anche se rimane tuttora d’ostacolo il “Generale inverno” della crisi economica. Come vedremo fra poco la flessibilità “buona” (il nuovo contratto a termine) ha scacciato quote consistenti di flessibilita “cattiva” (le collaborazioni e le partite lva, per esempio), in quanto la liberalizzazione progressiva del contratto a tempo determinato è stata accompagnata dal precedente giro di vite sui rapporti atipici, di cui alla legge n.92/2012 (la riforma Fornero, appunto).

Secondo un recente studio dell’Osservatorio dei lavori, che ha preso a riferimento i dati della Gestione separata presso l’Inps, nel 2013, rispetto al 2012, i parasubordinati sono diminuiti di 166.867 unità (-11,7 per cento), i professionisti con partita Iva di 3.740 unità (-1,27) secondo l’Inps: quest’ultimi, di 11.757 (-4) secondo stime realizzate e contenute nello studio. Contrariamente a quanto si crede tali categorie di lavoratori sono quelle che hanno subito i tagli più vistosi dalla crisi e, nell’ultimo anno della ricerca, hanno subìto anche la penalizzazione normativa loro imposta dalla legge Fornero, «la quale imponeva», è scritto nello studio, «nel tentativo di aumentare il costo di questi contratti e favorire lo spostamento verso il lavoro dipendente, l’introduzione per i collaboratori dei minimi tabellari dei dipendenti».

Dal 2007 al 2013, i “contribuenti-collaboratori” sono passati da 1,67 milioni a 1,25 milioni (con una diminuzione di oltre 400mila unità pari al 24,7 per cento di cui circa 167mila nell’ultimo anno, a legge n.92/2012 in vigore). Pur essendo in calo anch’essi nel 2013, negli anni della crisi sono aumentati (quasi del 31 per cento dal 2007) i professionisti (questa è la definizione che attribuisce loro la Gestione separata) titolari di partita Iva, passando da 222mila a 291mila (altro che i milioni come lasciano credere le solite leggende metropolitane che mettono in conto anche le partite iva delle aziende). I lavoratori parasubordinati, in Italia, con il loro

In Italia il divario coi maschi vale quanto una busta paga

In Italia il divario coi maschi vale quanto una busta paga

Giacomo Galeazzo – La Stampa

Mezzo secolo di ritardo: di questo passo per arrivare alla parità di stipendio, secondo le ultime statistiche, bisognerà aspettare il 2058. E così nel 2014 il gap con i colleghi maschi costa alle lavoratrici italiane una busta paga. In Europa la differenza retributiva penalizza in media le donne del 16% (in Estonia il 27%), in Italia la distanza scende al 6,7% solo perché la proporzione di donne che lavorano è più bassa e nel Mezzogiorno solo due giovani su dieci hanno un impiego.

Il tasso di occupazione delle italiane è appena del 46%. Perciò il campione delle donne che lavorano, per le quali quindi si osservano i salari, comprende in misura relativamente maggiore donne laureate ed esclude quelle che, sulla base delle loro caratteristiche, avrebbero prospettive di remunerazione più basse. «In passato le italiane non lavoravano per un ritardo culturale, oggi invece si scoraggiano prima degli uomini nella ricerca di un salario e ripiegano sugli impieghi domestici – spiega a La Stampa il sociologo del lavoro Domenico De Masi-. Quando un’azienda deve ridurre la manodopera, si libera prima delle donne». E gli stipendi più bassi dipendono da «una questione contrattuale», cioè «il datore di lavoro tende a pagarle meno e loro accettano di guadagnare meno perché altrimenti non vengono prese», precisa De Masi. Quindi «incide molto la maternità: se resta incinta l’imprenditore continua a pagarle una parte dello stipendio (l’altra la paga l’Inps) senza poter contare su di lei per un lungo periodo». Negli Stati Uniti, «la gravidanza viene trattata come una malattia e indennizzata per settimane non per mesi come nel nostro Welfare». Insomma, in Italia la proporzione delle donne nel mondo del lavoro è nettamente inferiore che in altri Paesi, dove guadagnano meno degli uomini, ma almeno riescono a lavorare. Molte italiane, o non entrano affatto nel mondo del lavoro o ne escono presto.

L’Institute for women’s policy research attesta che «l’altra metà del cielo» rappresenta quasi la metà della forza lavoro, quattro volte su dieci è capofamiglia, e più istruita degli uomini eppure continua a guadagnare meno. In Gran Bretagna il divario salariale è del 19,1%, nella Germania della cancelliera Angela Merkel arriva addirittura al 22,4%, in Francia al 14,8%. La differenza di stipendio è maggiore negli inquadramenti medi e bassi. Tra gli impiegati raggiunge il 15%, in ambito operaio si ferma al 10%. Mentre dirigenti e quadri si attestano al 10% e 6%. Secondo l’ultimo rapporto Almalaurea, in Italia a un anno dal titolo gli uomini guadagnano in media il 32% in più delle loro colleghe (1.194 euro contro 906). A cinque anni dalla laurea, il divario passa al 31% (1.587 contro 1.211).

Da quando, nel 2011, è stata inaugurata la Giornata europea per la parità, il divario salariale fra uomini e donne in Europa è passato dal 17,5% al 16,4. Ma la differenza grava come un macigno e si può tradurre in giorni di lavoro extra. In Italia ne servono trentasei alle donne per riempire il gap nel settore dei servizi, quello più «rosa»›, dove si concentra un terzo delle occupate (segretarie, impiegate, assistenti). La retribuzione oraria netta parla chiaro. In agricoltura ci vogliono due mesi per arrivare alla parità, in banca e nelle compagnie assicurative 59 giorni, nella pubblica amministrazione 39. «Al momento di assumere un dipendente il datore di lavoro tiene conto del percorso lavorativo futuro- osserva De Masi-. Nella programmazione di un imprenditore non è la stessa cosa prendere in azienda una ventenne o un coetaneo maschio». Sono 702mila, infatti, le occupate con figli minori di otto anni che hanno interrotto temporaneamente l’attività lavorativa per almeno un mese dopo la nascita del figlio più piccolo: il 37,5% del totale delle madri occupate. L’assenza temporanea dal lavoro per accudire i figli continua a riguardare solo una parte marginale di padri. Anche il congedo parentale è utilizzato prevalentemente dalle donne, riguardando una madre occupata ogni due, a fronte di una percentuale del 6,9% dei padri.

Un mercato del lavoro a due facce

Un mercato del lavoro a due facce

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

L’economia cresce, ma la popolarità del presidente Barack Obama è puttosto bassa. Sembra essersi interrotto il legame tra l’andamento dell’economia e il consenso per l’Amministrazione federale. Cosa è accaduto? Sono molte le cause della disaffezione degli americani per Obama, e alcune sono tutte politiche. Il presidente ha giocato tutto sulla creazione delle aspettative, le quali a volte possono davvero essere più importanti delle politiche concrete, purché si conservi credibilità. Gli americani si aspettavano un nuovo patto sociale, ma l’Amministrazione ha fatto troppo poco. Ha varato Obamacare, l’ampliamento del sistema sanitario pubblico, ma non è bastato.

E l’occupazione in crescita, la ripresa ormai stabile, l’uscita dalla crisi? I numeri non ingannino. Gli Stati Uniti, visti dagli europei, sono in una posizione invidiabile, ma gli americani non sono contenti. La disoccupazione è calata al 5,9%, ma a fine 2013 – l’ultimo dato disponibile – solo il 72,5% degli americani in età di lavoro aveva o cercava attivamente un’occupazione: è un numero piuttosto basso, il minimo dal 1980. Per i più giovani – 15-24 anni – la partecipazione era intanto ai minimi dal 1963, al 54,8%, e il 45% che non lavorava non era composto da persone che continuavano tutte a studiare: il numero degli scoraggiati è alto anche negli Usa, dove la disoccupazione giovanile è ancora al 13,5%, sia pure in calo dal 19,5% di agosto 2010.

Il malessere del mercato del lavoro non finisce qui. Negli Stati Uniti le protezioni al posto di lavoro sono limitate – e dipendono da Stato a Stato, da azienda ad azienda – ma il precariato è considerato un’anomalia. Nell’attuale situazione, molte persone chiedono un lavoro a tempo pieno, ma trovano solo part-time. Questo disallineamento tra domanda e offerta è considerato un problema, per esempio dalla Federal reserve che anche per questo motivo continua a mantenere una politica monetaria comunque molto espansiva, anche se la crescita appare quantomeno stabile. È anche a livelli molto alti il numero delle persone che cercano attivamente lavoro da più di sei mesi, o un anno, e non lo trovano. Anche la disoccupazione di lungo periodo è considerata un’anomalia, perché distrugge capitale umano: più passa il tempo, più le competenze delle persone si perdono e più le aziende sono disincentivate ad assumerle. Un fenomeno che negli ultimi tempi si è particolarmente accentuato.

Se la Fed, che in fondo deve occuparsi di questioni monetarie, è preoccupata, a maggior ragione dovrebbe esserlo la politica, e l’Amministrazione in particolare. Una buona parte dei problemi dell’occupazione americana sono strutturali: negli Usa più che altrove, c’è un forte disallineamento tra le competenze offerte dai lavoratori e quelli richiesti dalle aziende (che cercano invano, per esempio, muratori e camionisti, non solo superlaureati…). Un problema che richiederebbe politiche molto ben disegnate, e non sempre immediate nei loro effetti.

Gli italiani vedono nero: ancora 5 anni di crisi

Gli italiani vedono nero: ancora 5 anni di crisi

Rosaria Amato – La Repubblica

Più soddisfatti dei propri redditi ma solo perché hanno imparato ad accontentarsi di poco e a stringere la cinghia, fortemente delusi dall’euro ma europeisti perché prevale la sfiducia verso le istituzioni nazionali, più ottimisti ma solo perché si sono rassegnati: gli italiani ormai considerano la crisi economica come una situazione quasi stabile, si aspettano di venirne fuori almeno tra cinque anni.

Dall’indagine Ipsos-Acri, presentata come ogni anno alla vigilia della Giornata Mondiale del Risparmio, emergono diversi aspetti positivi, che farebbero quasi pensare alla “luce fuori dal tunnel” di cui nessuno negli ultimi mesi si azzarda più a parlare. Eppure, guardando meglio i dati del sondaggio, le percentuali positive in rialzo sembrano più frutto di adattamento a uno stile di vita decisamente peggiorato rispetto al passato che di un rinato ottimismo. Infatti l’87% degli italiani pensa che la crisi sia ancora “molto grave”. Però è in recupero la fiducia nelle prospettive personali: ottimista il 24% contro il 21% di sfiduciati, percentuali ribaltate rispetto al 2013. Gli italiani non se la prendono con l’Europa (rimane favorevole all’Unione il 51%), anche se il 74% si dichiara insoddisfatto dall’euro. Però le colpe della crisi sono attribuite ai politici di casa nostra: il 56% ritiene che la situazione attuale sia dovuta al malgoverno e alle mancate riforme, appena il 5% dà la colpa alla Ue. Inoltre gli italiani convinti che tra 20 anni essere nell’euro sarà un vantaggio salgono dal 47 al 52%. La sfiducia nella nostra classe dirigente è tale che la maggioranza degli intervistati dall’Ipsos, il 66%, è pronto a delegare la tutela del risparmio all’Unione Bancaria europea, anche se poi solo il 7% sa veramente di cosa si tratta.

Sulla gestione di consumi e risparmi le famiglie, così impoverite che una su quattro non riuscirebbe a far fronte a una spesa imprevista di 1000 euro, hanno da tempo attuato una strategia difensiva. Tutti, anche i più abbienti, hanno rivisto al ribasso i propri consumi: viaggi e vacanze sono stati ridotti dal 60% degli italiani, la frequenza dei ristoranti è calata per il 59%, quella agli spettacoli per il 55%, tagli anche nell’abbigliamento, solo la spesa per i farmaci è rimasta invariata.

Rispetto al 2013 è aumentata la percentuale di chi preferisce investire sulla qualità della vita attuale (42% contro il precedente 39%), anche se la maggioranza (54%) investe pensando al futuro. E infatti gli italiani continuano a risparmiare: il 46% dichiara di non dormire tranquillo se non mette qualcosa da parte, solo l’8% si dichiara allegramente cicala. Però l’utilizzo di questo risparmio è molto cambiato rispetto al passato: due intervistati su tre scelgono la liquidità, crescono i sottoscrittori di polizze assicurative e fondi pensione, risalgono lievemente titoli di Stato e anche le azioni. Ma soprattutto il mattone non ha mai avuto così poco appeal: se nel 2004 era la scelta preferita dal 70% degli italiani, adesso la percentuale è scesa al 24%, il minimo storico dall’inizio dell’indagine, il 2001.

Pennisi: «Negli Usa un lavoro a tempo è un’occasione per crescere»

Pennisi: «Negli Usa un lavoro a tempo è un’occasione per crescere»

Giulia Cazzaniga – Libero

Ha lavorato negli Stati Uniti, alla Banca Mondiale, è stato dirigente generale ai ministeri del Bilancio e del Lavoro e docente di economia alla Johns Hopkins University e della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Oggi Giuseppe Pennisi è presidente del board scientifico del centro studi ImpresaLavoro e insegna all’Università Europea di Roma.

Pennisi, dai dati sembra che i contratti in Europa stiano prendendo un’altra direzione rispetto a quella che il governo ha messo sotto la lente della Riforma. Aumentano i contratti in somministrazione. Come lo spiega?
«L’Europa sta prendendo una strada molto diversa rispetto a quella intrapresa dal governo italiano. Occorre una premessa: non credo affatto che il diritto del lavoro e la sua regolamentazione abbiano effetti sull’occupazione, mai si è verificato nel mondo. Trovo il dibattito italiano su articolo 18 e contratto a tutele crescenti stucchevole, a dire il vero».

Perché?
«Sono stato io stesso promotore in passato delle tutele crescenti, ma il modello è sensato bisogna stare attenti. L’interpretazione di questo contratto infatti può essere: ti assumo, ma prima che la tutela sia troppo elevata prendo un altro lavoratore al tuo posto che mi costa meno».

Gli imprenditori le risponderebbero: se la persona è valida non lo licenzieremo.
«Vero, ma i dati sui contratti in somministrazione dimostrano una prassi che ho riscontrato fin dal tempo in cui lavoravo in Banca Mondiale. Negli Stati Uniti il lavoro somministrato da agenzia è la prassi. Viene addirittura preferito il contratto temporaneo, perché si è tutelati dall’agenzia e perché si affrontano nuove sfide in continuazione. In Giappone, ai tempi del boom, ricordo il colloquio con il rettore di un’università molto importante. È un anneddoto, ma spiega bene il mio pensiero. Lui mi raccontò che tutti i professori erano contrattualizzati soltanto per un anno e che in 35 anni di professione non aveva visto nessun licenziato: il sistema funzionava perfettamente e dava al Paese un valore aggiunto sulla formazione che permetteva di crescere in produttività e competitività. Mettersi alla prova in continuazione, ecco il segreto per vincere le sfide della vita».

In Italia non abbiamo mai avuto una cultura del lavoro simile, pensa sia stata questa la fonte della crisi?
«No, io imputo la maggior parte dei problemi di oggi all’entrata nell’euro: non eravamo pronti e già avevo previsto che avrebbe creato disoccupazione e disagio sociale. Non si può pensare che dovendo sottostare ai parametri di Maastricht saremmo diventati più produttivi. Per inciso, studi recenti dimostrano che ogni volta che l’Italia è arrivata al pareggio di bilancio è sempre seguito un periodo di rallentamento dell’occupazione e della crescita economica. Chiedo quindi: ne vale dawero la pena? Sarebbe poi dovuto cambiare il comportamento di molti, dalle famiglie alla classe politica, perché le conclusioni fossero diverse».

Ovvero?
«In Germania – non posso prevedere se sia arrivato anche per questo Paese il momento di uno “stop” – per salvare la Volkswagen fecero leggi che non avevano il nome del ministro che le creò bensì il nome del capo del personale dell’azienda. A tutto il Paese sembrava che una perdita industriale del genere sarebbe stato un po’ come per noi perdere il Colosseo. I sindacati all’interno dell’azienda sono la vera forza dell’impianto industriale tedesco».

L’Italia è il paese peggiore per fare impresa

L’Italia è il paese peggiore per fare impresa

Il Giornale

L’Italia non è un Paese per imprenditori, nonostante la confermata vocazione all’imprenditorialità dei suoi abitanti. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dello stato dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College. Si tratta di un’analisi puntuale effettuata da quasi un centinaio di Istituti di ricerca e che riesce a mappare il comportamento e le condizioni in cui agiscono gli imprenditori con riferimento al 75% della popolazione e all’89% del prodotto interno mondiale.

L’analisi e l’aggregazione dei 19 indicatori misurati da GEM ha permesso a “ImpresaLavoro” di elaborare un suo “Indice dell’Imprenditorialità” nei 23 principali paesi dell’Europa a 28. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è stata il fanalino di coda della classifica europea e ha perso il confronto con tutti i suoi principali competitor. L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo Paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia ma fanno segnare ottime performance anche Paesi con economie mature quali Olanda, Portogallo o Irlanda.

In particolare, nel 2013 il nostro Paese si è collocato nella classifica europea al 23esimo posto per la percentuale (2,4%) dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori (non pagando salari, stipendi o altre forme di retribuzione da più di tre mesi), ha perso il confronto con quasi tutte le altre economie per la percentuale (17%) di quanti vedono buone opportunità di avviamento di un’impresa nell’area nella quale vivono ed è risultato al 22esimo posto per la percentuale (12%) delle nuove imprese che si aspettano di assumere almeno 5 impiegati nel prossimo quinquennio. L’Italia si è invece collocata al 15esimo posto – vincendo il confronto con Germania, Spagna, Gran Bretagna e Grecia – per la percentuale (9,8%) di quanti nonostante tutto intendono avviare un’impresa nei prossimi tre anni.

«Nonostante gli italiani abbiano, più o meno, la stessa voglia di intraprendere dei colleghi delle principali economie avanzate europee, difficilmente riescono a dar seguito ad iniziative di successo» osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro”. «L’ambiente in cui sono chiamati a muoversi è infatti particolarmente penalizzante rispetto a quello dei competitor europei in tema di tasse, regole, burocrazia. Concretamente questo si traduce in un bassissimo tasso di nuove imprese (siamo ultimi in Europa) e in un dato preoccupante sul fronte occupazionale: solo la Grecia fa peggio di noi in quanto a imprese che hanno intenzione di ampliare la propria base occupazionale nei prossimi cinque anni. In queste settimane – conclude Blasoni – si è a lungo parlato di regole del mercato del lavoro: il tema delle regole è certamente importante ma dobbiamo affrontare anche il tema della produzione di posti di lavoro da parte delle imprese. Se non nascono nuove imprese e se quelle esistenti non si sviluppano, rischia di rivelarsi inutile anche un’eventuale semplificazione delle regole».

A chi giova paralizzare il paese

A chi giova paralizzare il paese

Gaetano Pedullà – La Notizia

Quattro lavoratori disperati feriti, altrettanti poliziotti in ospedale. Il bollettino di una inutile guerra tra poveri segnala che l’autunno caldo sarà lungo. Troppo forte il disagio sociale, troppe le aziende in crisi. Le manganellate ai manifestanti che volevano dirigersi senza autorizzazione alla stazione Termini fanno male però anche al Governo. Sindacati e minoranza del Pd, ormai in rotta totale con Palazzo Chigi, hanno preso la palla al balzo per dimostrare un fantomatico accanimento contro le incolpevoli vittime della crisi. Ovviamente non c’è niente di più lontano dalla realtà, ma quando la politica scade a certi livelli ogni argomento è buono per colpire l’avversario. E nessuno – con Renzi in testa – si è mai illuso che le riforme in questo Paese possano essere fatte a costo zero. Poveri poliziotti minacciati hanno reagito alla tensione della piazza, ma senza sporcarsi le mani solo poche ore prima la Camusso aveva accusato il premier di essere stato messo a Palazzo Chigi dai poteri forti. Con questo continuo avvelenare i pozzi, dopo venti anni di referendum su Berlusconi rischiamo di continuare a paralizzare il Paese. Quello che vogliono Camusso & C. Non possiamo permettercelo.