Matteo Renzi

L’asse fragile con la Francia

L’asse fragile con la Francia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un punto che accomuna le due capitali, è piuttosto il tentativo di non soffocare un’economia già debole con un’ulteriore stretta ai conti. Entrambi i leader, Matteo Renzi e Hollande, sono in cerca di investimenti, consumi delle famiglie, un qualche segno di ripresa all’orizzonte. Ma entrambi stanno toccando con mano lo stesso limite: nella loro situazione di fragilità, c’è ormai pochissimo che i due governi nazionali possono fare per far ripartire la domanda nell’immediato. Per l’Italia provare a farlo con il deficit, o mettendo in tasca ai lavoratori gli accantonamenti pensionistici nelle aziende, è un gioco ad altissimo rischio e rendimento minimo. La spinta alla domanda ormai spetta quasi solo a dei progetti europei, alla Bce, all’euro che si svaluta o a una eventuale svolta della Germania. Renzi e Hollande possono solo pensare a modernizzare i propri Paesi, a metterli al passo con l’economia globale del ventunesimo secolo. Ed è qui che avanzano, in questo davvero insieme, come nella giungla di notte.

Se l’Italia seguisse le orme di Parigi sul deficit il suo debito salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo. Se l’Italia pagasse interessi sul debito come la Francia, sarebbe la Germania. E se la Francia pagasse interessi sul debito come l’Italia, sarebbe sul punto di chiamare la troika. Naturalmente niente di tutto questo succede nella realtà, ma la situazione nei due Paesi è tanto simile in superficie quanto diversa a una seconda occhiata. I due governi hanno molti degli stessi problemi e delle stesse idee, ma non hanno interesse a prendersi l’un l’altro a modello. Parigi gestisce un esercizio di bilancio anche più fragile di quello italiano, stando ai dati della Commissione Ue. Prima ancora di pagare gli interessi su un debito che ormai sfiora il 100% del Pil, il governo francese è già in rosso di oltre l’1,5% del prodotto lordo. L’Italia invece è in surplus di bilancio quasi quanto la Germania (almeno per ora), cioè di oltre il 2% del Pil prima di onorare le cedole sui suoi titoli di Stato e gli altri strumenti di debito. Se la Francia non ha un deficit ancora più alto, una dinamica del debito ancora più esplosiva e costi di finanziamento delle imprese più insostenibili, è per un solo motivo: paga tassi d’interesse più bassi dell’Italia e allineati a quelli tedeschi.

Ancora oggi, dopo anni di compressione degli spread fra i vari Paesi dell’euro, i titoli a dieci anni della Francia rendono ben 100 punti-base (cioè l’1%) meno di quelli italiani. Nella psiche degli investitori, Parigi è ancora assimilata con Berlino come nucleo base del progetto europeo. In quei prezzi di mercato così simili fra le due capitali è racchiusa l’identificazione politica fra i due grandi Paesi dell’area e l’idea che la Germania potrà sì lasciar cadere l’Italia, la Spagna o la Grecia; ma il suo alleato sull’altra sponda del Reno, questo mai. Viene di qui la storica riluttanza di tutti i governi di Parigi a effettuare un vero cambio di alleanze, ammesso che davvero il gioco europeo funzioni così. Se l’Eliseo cercasse di saldare un presunto «asse» con Palazzo Chigi, in contrasto con Berlino, gli investitori ne prenderebbero atto e tratterebbero la Francia di conseguenza: i tassi d’interesse sul debito di Parigi si allontanerebbero da quelli tedeschi, si avvicinerebbero a quelli italiani, e gli equilibri dell’economia transalpina salterebbero.Questa Francia così poco competitiva, così minacciata dal Front National di Marine Le Pen, può resistere solo se assimilata dal mondo esterno al «nucleo duro» d’Europa. Non alla cosiddetta «periferia».

Allo stesso tempo, neanche il governo di Roma ha interesse a seguire le orme di François Hollande. È vero che se l’Italia avesse un costo del debito «francese» – al 2,5% e non al 5% del Pil – il suo deficit scenderebbe automaticamente a zero come in Germania. Ma questo è solo un periodo ipotetico dell’irrealtà. I fatti invece dicono che la Francia, paralizzata dalla crisi di legittimità della sua vecchia élite politica, non riesce a gestire i suoi conti eppure per ora non ne paga il prezzo: forse succederà tra tre o quattro anni quando, di questo passo, il debito transalpino sarà a livelli italiani. Ma se l’Italia seguisse le orme francesi sul deficit oggi, il suo debito pubblico salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo subito. Lo farebbe anche se il Fiscal Compact semplicemente non fosse mai stato scritto. Per questo né Roma né Parigi, con tutta la simpatia reciproca, hanno voglia di imitarsi a vicenda.

Dal “benaltro” al “ditino alzato”

Dal “benaltro” al “ditino alzato”

Il Foglio

Il giorno prima dicevano che sarebbe stato necessario “benaltro”. Il giorno dopo affermano con la stessa sicumera che bisognava fare “di più e di meglio”. Gli indiziati sono i soliti: confindustriali, sindacati, opinionisti vari. Molti fra loro – non tutti, ben inteso, infatti Repubblica ieri per esempio titolava a tutta pagina “Articolo 18, vince Renzi” – non sembrano essersi accorti che due sere fa, alla direzione nazionale del Partito democratico, il segretario del principale partito della sinistra ha sostenuto che “l’imprenditore ha il diritto di licenziare”, lo ha ripetuto ieri in inglese al Washington Post nel caso non si fosse capito, e il partito in questione ha votato compatto una mozione per riformare di conseguenza il mercato del lavoro italiano. La minoranza ha fatto la minoranza, perfino in maniera meno granitica e originale di quanto ci si potesse attendere da politici così esperti.

Ma il punto resta: se la delega sarà approvata in Parlamento, e se il governo scriverà i decreti promessi, il mercato del lavoro sarà un po’ più flessibile di prima e perfino l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – concentrato legislativo di un’ideologia ormai fuori dal tempo – sarà completamente superato per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Sia chiaro: non fossero esigenti per definizione, i commentatori – noi inclusi – avrebbero poco da commentare. Ma dopo che per mesi si è tentato di sviare l’italiano medio, sostenendo che scalfire ancora l’articolo 18 era poi piccola cosa, diventa incomprensibile la puntigliosità riformatrice e simil-thatcheriana del giorno dopo. Proprio adesso che, a riforma politicamente acquisita, sarebbe perfino legittimo parlare di “benaltro” – dal welfare alla contrattazione aziendale – e su questo incalzare il governo.

Insistere, insistere, insistere

Insistere, insistere, insistere

Il Foglio

Mentre si inasprisce il dissenso nell’ala minoritaria del Pd e nei sindacati sull’abrogazione dell’articolo 18, abrogazione che il premier Renzi pone nel Jobs Act col contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, arrivano i dati sulla disoccupazione in agosto. Anche in Italia, come in Europa, la disoccupazione ha registrato una flessione. Rispetto ad agosto del 2013, da noi, la riduzione dei disoccupati e dello 0,9 per cento, mentre a livello europeo è dello 0,4. Rispetto a luglio, in Italia vi è una diminuzione di 2,4 punti, mentre nell’Unione europea vi è una sostanziale stabilità. Certo, il nostro tasso di disoccupazione è comunque più alto della media del Vecchio continente: è al 12,3 per cento, contro il livello medio dell’11,5 per cento. Ma la nostra riduzione è maggiore, nonostante che la dinamica del nostro pil non sia positiva, a differenza di quella europea che è di modesta crescita.

La spiegazione della nostra migliore performance sta nell’effetto benefico della riforma dei contratti a termine, attuata nei mesi scorsi. E ciò indica che la strada della liberalizzazione del mercato del lavoro, che Renzi persegue nonostante i mal di pancia nel Pd e nella Cgil, è quella giusta. D’altra parte, l’Istat informa che ad agosto la disoccupazione giovanile e aumentata di 0,7 punti rispetto all’agosto del 2013: 88 mila giovani occupati in meno in un anno, a un tasso del 44 per cento. Un record negativo su cui soffia Camusso per guadagnare un titolo sui giornali. Eppure il premier ha ragione a dare battaglia per il nuovo contratto privo di articolo 18: mira a eliminare la discriminazione a danno dei giovani, e chi lo avversa pensa solo al posto degli anziani.

Cambiare tutto senza cambiare nulla

Cambiare tutto senza cambiare nulla

Tito Boeri – La Repubblica

La mediazione via sms all’interno del Partito Democratico, di cui ha dato conto questo giornale sabato scorso con il testo dei messaggini fra Matteo Renzi e Sergio Chiamparino, rischia di rendere il Jobs Act del tutto inefficace nell’incoraggiare incrementi di produttività e più assunzioni con contratti a tempo indeterminato. Speriamo che, mettendo da parte i cellulari, e affrontando il merito dei problemi, vi si ponga rimedio.

La direzione Pd lunedì ha approvato a larga maggioranza, non prima di deflagranti polemiche e minacce di scissione, un ordine del giorno che mantiene in vigore, fin dal primo giorno di vita di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la reintegrazione del lavoratore in caso “di licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”. Questo significa che i licenziamenti individuali continueranno a essere fin da subito molto costosi, trattando un neo-assunto come un lavoratore già presente da 20 anni nell’azienda. In barba a quelle “tutele crescenti con l’azienda aziendale” cui fa esplicitamente riferimento l’emendamento governativo al disegno di legge delega recentemente approvato dalla Commissione Lavoro al Senato. Vediamo di capire perché.

Oggi un datore di lavoro che volesse licenziare un dipendente può addurre sia ragioni di natura disciplinare (legate al comportamento del lavoratore) che economica (legate alla performance dell’impresa). Se il giudice ritiene che queste motivazioni siano infondate (si parla di “manifesta insussistenza” nel caso di licenziamenti economici), può imporre la reintegrazione del lavoratore. Si vuole ora mantenere questa possibilità per i soli licenziamenti disciplinari. Ma il confine fra licenziamenti economici e licenziamenti disciplinari è molto sottile. I datori di lavoro avranno, nel caso in cui questa modifica entrasse in vigore, l’incentivo a perseguire solo la strada dei licenziamenti economici, anche nel caso di comportamenti opportunistici di un proprio dipendente, dato che, almeno sulla carta, i licenziamenti economici costano di meno dei licenziamenti disciplinari. Mentre un lavoratore licenziato per ragioni economiche potrà sempre far valere davanti al giudice il fatto che l’azienda volesse in realtà punirlo per il proprio comportamento. In questo caso, anche se il difetto del lavoratore fosse documentabile, ma l’impresa avesse altri modi di “punire” il lavoratore senza licenziarlo (ad esempio cambiando gli orari di lavoro), il giudice potrà imporre all’azienda il reintegro del dipendente. Si tratta perciò di una modifica marginale, del tipo di quella imposta dalla Legge Fornero con il principio della “manifesta insussistenza”, che viene peraltro in questo caso introdotta solo per i nuovi assunti, mentre la legge Fornero cambiava le regole per tutti i lavoratori.

Per quanto il legislatore possa definire con precisione i licenziamenti disciplinari (“la qualificazione specifica della fattispecie” cui fa riferimento il testo approvato lunedì), con questa mediazione si crea una forte asimmetria fra licenziamenti illegittimi di diversa natura, aprendo lo spazio al contenzioso. Nei paesi Ocse, la norma è quella di trattare tutti i licenziamenti illegittimi allo stesso modo, indipendentemente dalle ragioni inizialmente addotte dalle imprese. Da noi, invece, si mettono paradossalmente in una posizione di vantaggio i lavoratori coinvolti in un procedimento disciplinare rispetto a quelli coinvolti in una crisi aziendale di cui non hanno colpa alcuna. Se il licenziamento viene considerato legittimo, non riceveranno nulla come pure i lavoratori che hanno perso il lavoro per motivi economici. Se, invece, il licenziamento venisse considerato dal giudice senza giusta causa, il lavoratore licenziato per questioni disciplinari potrà essere reintegrato sul posto di lavoro, a differenza di chi ha avuto la sfortuna di trovarsi in un’azienda in crisi. Gli incentivi sono perversi: per aumentare la produttività bisognerebbe proprio scoraggiare i comportamenti opportunistici.

A chi oggi deve creare lavoro in Italia importano due cose. Primo, vuole essere rassicurato sul fatto che un eventuale errore nella selezione dei candidati, inevitabile quando si assume per le prestazioni più complesse richieste dalla stragrande maggioranza dei nuovi lavori, questo errore fosse rimediabile con costi certi e contenuti, tipo una compensazione monetaria fissata per legge. Secondo, vuole essere sicuro che il dipendente si impegnerà a svolgere sempre meglio le proprie mansioni “imparando facendo”. Il Jobs act uscito dalla direzione del Pd non cambia nulla su questi due piani. Di più, non viene neanche a sanare la contraddizione introdotta dal decreto Poletti che, permettendo di fatto un periodo di prova di tre anni, scoraggia qualsiasi assunzione a tempo indeterminato e la stessa conversione dei contratti temporanei in contratti permanenti, come certificato dai dati sulle comunicazioni obbligatorie raccolti dal ministero di cui Poletti è titolare.

È sconcertante, infine, che materie così importanti, che riguardano milioni di lavoratori, vengano negoziate via sms. Credevamo che con la nuova politica, l’arte del confronto, della mediazione e della ricerca del consenso, fosse un’altra cosa.

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari nella direzione, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l’essenza della riforma, ma ha gettato un po’ d’acqua sull’articolo 18. Ora c’è il reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai “conservatori”.

Conservatori ai quali il premier si rivolge in modo quasi pedagogico per non lacerare il partito più del necessario. Avrebbe potuto scegliere di procedere come un carro armato, come annunciato nei giorni scorsi. Oppure avrebbe potuto dedicarsi alla mediazione, al compromesso a cui lo spingevano i suoi oppositori interni: con la prudenza a cui lo ha invitato D’Alema. In definitiva il presidente del Consiglio ha scelto una via di mezzo. Ha spiegato perché non si può rinunciare alla riforma e vi ha legato di nuovo la prospettiva di rinnovamento della sinistra italiana. È uno scenario alla Tony Blair, ma non alla Margaret Thatcher. Come dire che Renzi si rende conto più che mai che il suo destino politico, nonché la prospettiva di quel 41 per cento da lui raccolto alle europee, si consumerà dentro il recinto della socialdemocrazia europea, qualunque cosa questo termine oggi significhi. Verso tale traguardo il giovane premier, come è noto, vuole traghettare la sinistra italiana. Ma un conto è Blair e un conto la signora Thatcher.

Non perché evocare la “dama di ferro” sia un insulto. Ma per la buona ragione che la sinistra italiana può guardare al leader laburista, come peraltro tentò di fare a suo tempo anche D’Alema, mentre non potrebbe ispirarsi a una leadership conservatrice così dura ed esplicita. Renzi di solito finge di non preoccuparsi quando lo accusano di essersi spostato troppo a destra. Ma poiché l’uomo è accorto, ecco che si sforza di ricollocare l’annosa vicenda della riforma del lavoro, compreso l’art. 18, nel solco di una storia che si colloca a sinistra. E quindi garanzie invece di diritti statici e acquisiti una volta per tutte; confronto con i sindacati su nuovi temi; attenzione ai disoccupati invece che alle categorie iper-protette. Solo parole? Può darsi, ma ieri le parole avevano un significato preciso: avrebbero potuto essere assai più sferzanti e brutali.

Viceversa è emerso soprattutto un dato politico. Il presidente del Consiglio sembra comprendere che il 41 per cento di maggio rappresenta un passo verso le simpatie di un’opinione pubblica più centrista, magari in passato attratta da Berlusconi. Ma la conquista di quei ceti ha un senso se non avviene al prezzo di una frantumazione del centrosinistra. Ora, è vero che ieri sera il Pd si è diviso in tre parti: favorevoli alla riforma, contrari e astenuti. Ma questo dato, a parte segnalare un forte malessere politico, non rende il premier più saldo nel suo percorso verso la nuova Italia, anzi.

Per sedurre l’elettorato di centrodestra Renzi ha bisogno di due cose. Primo, che le elezioni siano vicine in una condizione economica del paese migliorata, cioè positiva. Non sembra che sia questo il caso. Secondo, che il presidente del Consiglio sia percepito come forte e solido da amici e avversari. Vedremo allora come andrà in Parlamento la riforma del lavoro. Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all’art. 18 non ha preso forma alcun partito “thatcheriano”.

Trattamento di fine futuro

Trattamento di fine futuro

Massimo Gramellini – La Stampa

Sono completamente d’accordo a metà con l’Annunciatore di Firenze, quando gigioneggia di inserire la cara vecchia liquidazione in busta paga. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe persino apprezzabile il tentativo di trasformare il lavoratore in un adulto. Per decenni lo si è trattato come un irresponsabile che andava protetto da se stesso. Non gli si potevano dare tutte le spettanze nel timore che le divorasse, arrivando nudo alla meta, solitamente micragnosa, della pensione. Sminuzzando il Tfr in rate mensili, si affida al beneficiario lo scettro del proprio destino: toccherà a lui, non più al datore di lavoro o allo Stato Mamma, decidere la destinazione dei suoi soldi.

Purtroppo la realtà non è fatta della stessa sostanza degli annunci. Intanto il Tfr è un denaro che esiste solo come promessa: nel momento in cui lo si trasformasse in moneta sonante, per pagarlo i datori di lavoro sarebbero costretti a indebitarsi. Quanto allo Stato, passerebbe da Mamma a Matrigna: l’astuto Annunciatore si è dimenticato di dire che in busta paga la liquidazione soggiacerebbe a un’aliquota fiscale più alta. L’imprenditore ci perde, lo Stato ci guadagna. E il lavoratore? Incamera qualche euro da gettare nell’idrovora boccheggiante dei consumi, ma smarrisce l’idea di futuro con cui erano cresciute le generazioni precedenti. La liquidazione era un tesoretto intorno a cui coltivare speranze e progetti per il tempo a venire. Il suo sbriciolamento rischia di diventare l’ennesimo sintomo di un mondo che si sente a fine corsa e preferisce un uovo sodo oggi a una gallina di fine rapporto domani.

Un’ombra sul futuro del governo

Un’ombra sul futuro del governo

Federico Geremicca – La Stampa

Alla fine il dado è tratto, il Partito democratico decide di seppellire quasi per intero e quasi per tutti l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la prima conseguenza è che da ieri quella sorta di pace armata che regnava da mesi all’interno del Pd si è definitivamente tramutata in guerra aperta. Il durissimo intervento svolto davanti alla Direzione da Massimo D’Alema, la gelida distanza dal segretario assunta da Gianni Cuperlo e Pier Luigi Bersani (tutti e tre hanno votato contro la relazione del segretario) ne sono la spia più evidente. «Non è un voto contro il governo», è stato assicurato dagli oppositori di Renzi (la vecchia guardia, come usa dire il premier) ma pochi son disposti a crederlo: a cominciare proprio dal presidente del Consiglio.

Per Renzi si tratta di una vittoria strategicamente rilevantissima, e il risultato così insistentemente cercato è stato alla fine ottenuto: ma i prezzi che rischia di pagare in sede di governo sono, al momento, difficilmente prevedibili. I gruppi dell’opposizione interna si sono divisi all’atto del voto (contrari i «civatiani», spaccati tra no e astensione i bersaniani e i dalemiani) ma è credibile che possano tornare ad unirsi quando la parola passerà ai gruppi parlamentari di Camera e Senato. A Palazzo Madama, come è noto, i numeri sono quelli che sono e assicurano a Renzi una maggioranza assai risicata: a conti fatti – e come temuto e ipotizzato già da giorni – la vita del governo rischia di esser appesa alle decisioni che assumerà Silvio Berlusconi. Sosterrà la riforma del lavoro su cui tanto investe Matteo Renzi? E se decidesse di sì, in cambio di cosa permetterà la sopravvivenza dell’esecutivo?

Non è un bell’affare per il governo del giovane ex sindaco di Firenze, ma tutto lascia pensare che si tratti di un rischio attentamente e a lungo calcolato. Chi può volere, infatti, una crisi di governo e magari elezioni anticipate in tempi brevi? Non Berlusconi, a quel che è dato intuire. E ancor meno le minoranze interne, che rischierebbero di pagare la «sfida» al segretario con una vera e propria decimazione dei propri parlamentari. È per questo che Matteo Renzi non temeva – anche se non la cercava – la prova di forza sull’articolo 18. Ma nei bizantini rituali della politica italiana, non esistono solo rotture clamorose e voti anticipati: esiste anche – praticatissimo – il lento logoramento, rischio per il premier ancor maggiore…

Dunque, la sordina messa ai toni eccessivamente polemici non ha permesso al segretario-presidente di aggirare le obiezioni e le vere e proprie contrarietà delle opposizioni interne. Arrivare in Direzione con aperture capaci di allentare le tensioni, era stato il consiglio fornito a Renzi dal Capo dello Stato durante un colloquio svoltosi in mattinata al Quirinale. Il Presidente della Repubblica, che appena una settimana fa era sceso in campo chiedendo alle forze politiche «coraggio» in materia di riforma del lavoro, aveva infatti chiesto al premier di compiere un ultimo tentativo per recuperare l’unità del partito: Renzi ha obbedito (più nei toni che nella sostanza, in verità) ma lo sforzo – come il voto ha poi dimostrato – non ha prodotto il risultato sperato.

Era del resto impossibile immaginare che la separazione del Pd da uno dei punti cardine della propria azione politica (la tradizionale e secondo alcuni superata «difesa dei diritti» in materia di lavoro) potesse avvenire senza traumi, a maggior ragione in un clima avvelenato da avvertimenti, minacce reciproche e bracci di ferro annunciati e praticati. Per il premier, però, l’abolizione quasi definitiva dell’articolo 18 era ormai diventata qualcosa di più di una semplice riforma, assumendo l’altissimo valore simbolico – in qualche modo come la fine del bicameralismo paritario – della sua capacità di cambiare dalle fondamenta non solo lo Stato ma il suo stesso partito. Il risultato è raggiunto. A quale prezzo lo si capirà nelle prossime settimane…

La svolta del leader

La svolta del leader

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Renzi stavolta è stato meglio di Renzi. Concreto, deciso, quando serviva tattico e conciliante. Decisamente poco renziano. Quasi che, giunto al primo snodo veramente decisivo della sua esperienza a Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio si sia rassegnato all’inellutabilità del salto da molti reclamato: passare dalle parole ai fatti. Stavolta o mai più. La battaglia che ingaggia con la «ditta» Pd è quindi durissima, a tratti anche bella da entrambe le parti, e Renzi la combatte, e per il momento la vince, per distacco. Lo fa a modo suo, buttando la un profluvio di parole a volte apparentemente inutili per alzare la polvere come i tori che restando immobili si preparano alla carica, ma al momento giusto mostra il ramoscello d’ulivo, sia con la ditta sia con i sindacati, confermando la sua duttilità tattica già esibita nel corso di altre trattative importanti.

Ma più che la tattica, a dargli ragione è la forza che finalmente trova nell’andare oltre le slide e gli slogan, forse anche contro qualche sondaggio, evenienza per lui davvero insolita. La forza di chi sa di essere al ‘angolo e non avere altra via di fuga che il contrattacco. Un passaggio di maturazione politico-esistenziale decisivo, l’unica strada per passare da politico-bruco a statista-farfalla, raccogliendo la sfida lanciata, prima che dai sindacati o dalla ditta, dal suo amico Dario Nardella, quando un mese fa gli aveva saggiamente consigliato di intraprendere l’inevitabile strada della necessaria impopolarità pur di realizzare le riforme e ambire, per il momento solo ambire, a scolpire il proprio nome nella pietra della storia repubblicana.

Prendendosi sulle spalle il rischio di una riforma organica su uno degli argomenti finora tabù per molti governi anche di destra (quanti rimpianti avrà adesso Berlusconi!) il premier evidenzia il desiderio di passare all’età adulta della politica. La decisione con la quale riuscirà a reggere la barra del partito e del governo anche nel difficile passaggio parlamentare sarà la miglior cartina di tornasole per valutare il senso stesso della sua capacità riformatrice. Una direzione che per adesso Renzi pare aver imboccato e che il positivo risultato della direzione (80 per cento per lui) potrebbe confortarlo per le altre sfide che attendono il governo. Anche se lui per primo sa che i gruppi parlamentari del Pd sono una bestia brutta e inaffidabile, di cui è bene non fidarsi. Il pessimo spettacolo delle settimane scorse sulla mancata elezione dei giudici costituzionali sono solo l’ultimo esempio.

Poteri mosci

Poteri mosci

Davide Giacalone – Libero

Tutti conoscono il gioco chiamato mosca cieca: si benda una persona e la si sfida a toccare gli altri, che ci vedono e si spostano liberamente. Provate a immaginare una variante del gioco: si bendano tutti e brancolano a braccia tese. Un caos inconcludente. Quel gioco sciocco è divenuto trastullo collettivo, nella scena pubblica, incrudelito da manate a casaccio e da un linguaggio sempre più greve.

Quali interessi ha scosso Matteo Renzi? Quali fili scoperti ha toccato, per provocare la risentita reazione di poteri forti, dentro e fuori dalle blasonate redazioni? Sono giorni che domande di questo tipo si rincorrono, rimbalzando per ogni dove ci sia gente che si dice informata ed è per lo più sfaccendata. Ciascuno elabora la propria risposta, naturalmente retta da informazioni riservate e sussurrate. A me pare, invece, che sia in pieno svolgimento il gioco del tutti bendati. I poteri forti non ci sono più, tanto è vero che provano a sentirsi tali usando parole e toni che vorrebbero apparire forti. Tanto è vero che ciascuno pensa di farsi il partito proprio, perché sono a malpartito. Dopo avere predicato la competenza si pratica giulivi la dilettanza. Quella che si dimena è l’Italia dei poteri mosci e degli impotenti turgidi. Ciò che provoca scatti di rabbia non sono gli interessi minacciati, ma la minaccia che non si possa continuare a vivere sognando che il passato sia una garanzia per il presente e una promessa per il futuro.

Esisteva il potere forte del capitalismo statale. Aveva aspetti ragguardevoli e riprovevoli, ma esisteva. Per rendervi conto di quanto sia divenuto moscio, quel potere, basterà osservare che mentre il presidente del Consiglio si trovava negli Stati Uniti, a dispetto degli accordi industriali, politici e militari di cui era portatore, la Camera dei Deputati, su proposta del Partito democratico, il di lui partito, è riuscita a votare un ordine del giorno che stabilisce la rimessa in discussione dell’acquisto degli F35, assieme ad altri ordini del giorno, incuranti della coerenza. Voto che è stato subito così letto: ne acquisteremo la metà, o meno. Omessa ogni altra considerazione, a cominciare dal fatto che con la metà di quegli aerei puoi farci la guerra solo se ad aggredirti è il Principato di Monaco, la scena dimostra che non ci sono poteri, né forti né fiacchi, che esercitano alcun controllo e coordinamento fra i calendari istituzionali, gli interessi economici e le prudenze politiche. Si va a naso, ma senza olfatto. Pensare che il disfacimento di quei poteri possa essere compensato dal crescere delle partecipazioni azionarie della Cassa depositi e prestiti è come credere che si possa partecipare alla formula uno della competizione globale con un go kart. Ed è sempre possibile che una qualche procura della Repubblica ti metta sotto inchiesta per eccesso di velocità.

Esisteva il potere forte del capitalismo privato. No, non esistevano grandi capitalisti. Non li abbiamo avuti. Qualche personaggio con corte, qualche arrampicatore prensile, tanto contorno. Il cuore di quel potere, quando esisteva, era Mediobanca. Per essere più precisi, era Enrico Cuccia: idee chiare, disegno strategico, competenza indiscussa, legami internazionali. Quel cuore riuscì a far contare un mondo che di quattrini veramente investiti ne contava pochi. Ma era debole già prima di fermarsi, perché concepito dentro un mondo che già non esisteva più. Da lì in poi troppi avventurieri arraffatori, tanti parlatori disinvolti (quasi non si conobbe la voce di Cuccia), che per considerarli poteri forti occorre spiccata propensione all’esagerazione. La ciliegia sulla torta è un Quirinale che mette nero su bianco di non avere nulla da testimoniare e viene trascinato sul banco dei testimoni. Icona di un’Italia ove il potere è vaniloquio oscillante fra il supplice e l’arrogante.

L’Italia diversa c’è. Eccome. Se ne colgono i numeri in un prodotto interno lordo e in esportazioni che ancora la rendono forte e ricca. Imprenditori e operai che non sentite parlare, perché sono a lavorare. Ma non sono poteri forti, anzi, sono debolissimi. Anzi: non contano nulla. Ci reggono in piedi, ma li trattiamo come estremità dolenti e odorose. Da usare, ma da non esibire. Da tassare, non da ascoltare. Allora: perché tante voci si destano, contro Renzi? Quali interessi sono stati toccati? Magari fosse così! La scena è animata da caratteristi che provano a collocar sé medesimi, per avere ancora un pezzetto di rendita. Poi s’è fatta una certa ed è subito cena.

Renzi batte il record delle tasse

Renzi batte il record delle tasse

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Renzi ha battuto tutti i record. Innanzitutto quello della velocità. Tanto rapido ad annunciare l’abbattimento delle tasse a cominciare da quelle sulle famiglie numerose, e tanto veloce a fare marcia indietro. Non solo. Il record di tutti i tempi messo a segno dal premier è quello del numero di nuove imposte in un arco di tempo estremamente ridotto. Una sorta di gara a fare meglio dei suoi predecessori, anche di quel campione del rigorismo che è stato Monti. Il Prof al confronto con Renzi sembra un pivellino per l’uso della leva fiscale che comunque Monti giustificava sempre indicando come mandante Bruxelles. Renzi invece non si dà nemmeno la cura di scusarsi con gli italiani e mentre getta fumo negli occhi, con le slide e i twitt, promettendo di sforbiciare privilegi e sacche di inefficienza, usa senza remore la clava delle imposte. Le randellate interessano tutti indistintamente, famiglie e imprese. La fantasia però non è il suo forte se nel mirino è entrata subito la casa, tradizionale fonte di gettito sicuro. Dopo soli sette giorni a Palazzo Chigi, nel primo Consiglio dei ministri, Renzi traduce in un decreto legge l’accordo fra governo Letta e Comuni sulla Tasi. Vediamo le tasse del premier.

Tasi
La tassa sui servizi indivisibili (come l’illuminazione pubblica) s i rivela subito una batosta, peggio della vecchia Imu. Si dà libertà ai sindaci di alzare l’aliquota di un altro 0,8 per mille sulla prima casa, passando dal 2,5 al 3,3 per mille, oppure sulle seconde case, salendo dal 10,6 all’11,4 per mille. I soldi secondo il piano del governo dovrebbero servire a finanziare le detrazioni fissate dai sindaci. In realtà non c’è nessun obbligo a introdurre le detrazioni mentre per l’Imu erano stabilite in 200 euro sulla prima casa e 50 euro a figlio. Risultato: secondo la Uil, l’aliquota media deliberata dai municipi capoluogo di provincia è del 2,6%. La Cgia di Mestre sostiene che in un grande Comune su due la Tasi sarà più cara dell’Imu.

Rendite finanziarie
Dopo circa un mese ecco che Renzi decide di colpire gli investimenti in Borsa e il risparmio. Il prelievo sale dal 20 al 26% e riguarda anche i conti correnti. Salvi, al momento, i titoli di Stato e i buoni fruttiferi postali. Anche i fondi pensione non sono stati risparmiati, con la trattenuta che versano allo Stato sui rendimenti maturati che passa dall’11 all’11,5%.

Quote Bankitalia
Anche le banche sono chiamate a stringere la cinghia. Raddoppia l’imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle quote Bankitalia.

Detrazioni Irpef
Tutti i lavoratori che avranno accumulato detrazioni fino a 4.000 euro nel 2013, dovranno aspettare il 2015 per vederseli riconosciuti. Inoltre l’accreditamento delle detrazioni non avverrà più direttamente ma si dovrà aspettare un bonifico dalla Agenzia delle Entrate. Vengono tagliate le detrazioni Irpef sopra i 55mila euro.

Passaporto
Aumenta il costo per il rilascio del passaporto che passa dai 40,29 euro ai 73,50 euro, a cui bisogna aggiungere il costo del libretto.

Sigarette
Dal 1° ottobre il pacchetto di sigarette aumenta di 1 euro.

Smartphone
Smartphone e tablet più cari. Le tasse sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale aumentano di circa il 500%. Quando si acquista uno smartphone o un tablet si pagano dai 3 (dispositivi fino a 8 Gb) ai 4,80 euro (32 Gb) per il diritto d’autore contro gli appena 0,9 previsti finora per i telefonini.

Benzina
Il decreto Irpef all’esame di palazzo Madama prevede clausole di salvaguardia che consentono al Tesoro di aumentare le accise su benzina, alcol e tabacchi qualora avesse bisogno di soldi.

Energie
Tassate le rinnovabili.

Successioni
In arrivo, secondo indiscrezioni, con la prossima legge di Stabilità un aumento dell’imposta sulle successioni. Il governo Berlusconi l’aveva abrogata nel 2011, il governo Prodi l’aveva reintrodotta nel 2006, ma prevedendo una franchigia di un milione di euro. Al di sopra di questa cifra, l’eredità viene tassata al 4%.