Matteo Renzi

L’Europa dei burocrati ci ha tradito

L’Europa dei burocrati ci ha tradito

Gaetano Pedullà – La Notizia

Dovrebbero fargli una statua a Renzi. E invece a Bruxelles fanno gli offesi a sentirsi chiamare euroburocrati. Spiegano che se avessero dovuto valutare i conti italiani burocraticamente ci avrebbero bocciato. Dunque, sostengono, la loro è una valutazione politica. Una bella politica quella che ci impone da anni tasse a non finire, che ci ha messo in ginocchio, che ha innescato un ciclo recessivo da cui chissà quando e come ne usciremo. Questa Europa che ha tradito i suoi Paesi, non aprendo l’ombrello quando la Grecia affondava, continuando a tenere la Banca centrale inerte mentre Usa e Giappone stampano moneta e oggi possono dare ai loro giovani prospettive ben diverse da quelle che abbiamo noi qui in Europa. A questi burocrati – perché questo sono e non c’è nulla di male a chiamarli con il loro nome – per la prima volta un governo italiano sta chiedendo rispetto. Abbiamo avuto premier che hanno fatto i camerieri alla Merkel e a Barroso. È chiaro che non sono abituati a vederci con un po’ d’orgoglio nazionale. Renzi poi sarà discutibile e pieno di sé, ma visto cosa hanno portato a casa i suoi ultimi predecessori più buio di mezzanotte non può fare.

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’imposta più odiata dai contribuenti e dalle imprese italiane è stata mutilata dal governo Renzi. Non completamente abrogata e neppure oggetto di una radicale riduzione di aliquota come solitamente accade con le imposte colpevoli della perdita di competitività di un’economia, quale l’Irap da quasi due decenni è, ma più semplicemente amputata nella sua base imponibile. Il premier e il suo ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan, hanno, infatti, preferito lasciare l’Irap in vita, rispristinando con effetto retroattivo l’aliquota ordinaria del 3,90%, ma escludendo il costo del lavoro derivante da contratti a tempo indeterminato dal calcolo della base imponibile del tributo. Significa che dal 2015 quello che rimane in vita dell’Irap è un’imposta davvero mostruosa che sfugge ad ogni analisi di intelligibilità economica.

Il tributo si pagherà su voci di costo aziendale tra loro davvero disomogenee quali: il costo annuo dei contratti di lavoro precari; il costo annuo degli interessi passivi; i ricavi da privative e opere dell’ingegno; il costo annuo del lavoro della pubblica amministrazione (questa è una partita di giro contabile nel bilancio pubblico). Quale logica di politica fiscale è individuabile oggi nell’applicazione dell’Irap? L’unica possibile è quella che rinvia al fatto che il legislatore ha scelto di premiare fiscalmente le imprese con specifiche caratteristiche nell’organizzazione della produzione, quali: l’utilizzo quasi esclusivo di contratti di lavoro a tempo indeterminato e la capitalizzazione del business mediante apporto di capitale proprio o di utili reinvestiti. Penalizzati, invece, sono il ricorso al credito bancario o all’indebitamento e la scelta di forme contrattuali flessibili del lavoro, in controtendenza con il primo intervento di Jobs Act dello stesso governo Renzi che ha reso rinnovabili e più flessibili per le imprese i contratti a termine.

Insomma ora l’Irap, per come è sopravvissuta all’amputazione di Renzi, diventa uno strumento di politica aziendale, nel senso che favorisce l’adozione di talune forme contrattuali rispetto ad altre nell’organizzazione della produzione. Nei fatti si riduce la flessibilità delle scelte, a parità di costo fiscale, per manager ed imprenditori e, quindi, si introduce una distorsione nell’allocazione dei fattori produttivi. L’aspetto positivo dell’amputazione renziana dell’Irap è dato dal fatto che, con queste fattezze, l’imposta non può rimanere vigente a lungo. Renzi, senza dirlo chiaramente, ha già abrogato l’Irap e una prossima legge di Stabilità sancirà la definitiva uscita di scena della peggiore imposta mai applicata in Italia e nell’intera eurozona.

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Renato Brunetta – Il Giornale

Cronistoria del grande imbroglio di Matteo Renzi.

Aprile/luglio: in principio fu il Def
Matteo Renzi si era da poco insediato a Palazzo Chigi e l’8 aprile il Consiglio dei ministri deliberava questo strano documento. Le stime sulla crescita del Pil in Italia per il 2015 registravano +0,8% e la cifra veniva definita «estremamente prudente e aderente alla realtà». Lo stesso Def conteneva il rinvio del pareggio di bilancio di un anno, dal 2015 al 2016, giustificato dalla grave recessione economica e dai costi delle riforme strutturali. La Commissione europea fu informata delle intenzioni del governo, che proponeva a Bruxelles un piano di rientro incentrato sugli effetti benefici, in termini di crescita, delle riforme, ai tempi ancora neanche abbozzate (non che ad oggi si siano fatti progressi). La risposta della Commissione arrivò chiara a luglio: nein. E nelle raccomandazioni fu scritto: l’Italia faccia «sforzi aggiuntivi» già nel 2014 per rispettare il Patto di Stabilità, ma soprattutto confermi il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2015. Prima clamorosa sconfitta del governo Renzi.

Settembre: la nota di aggiornamento al Def
Il governo Renzi non ha dato alcun seguito alle raccomandazioni della Commissione e, anzi, ha rilanciato. Altro che pareggio di bilancio nel 2016: con la nota di aggiornamento al Def l’Italia lo fa slittare di un altro anno, fino al 2017. Inoltre, vengono riviste al ribasso tutte le stime, e la crescita per il 2015 passa dal «prudente» +0,8% a -0,3%. Storicamente gli aggiustamenti non sono mai stati superiori a qualche decimale. Quest’anno di oltre un punto di Pil. Vuol dire che ad aprile i calcoli erano tutti sbagliati. Seconda figuraccia planetaria.

Ottobre: la legge di Stabilità
Dopo l’approvazione della nota di aggiornamento, il governo cambia di nuovo tutto. Il 15 ottobre viene presentata la legge di Stabilità: la manovra, che all’inizio non doveva esserci, poi doveva essere di 10-13 miliardi, poi di 25, lievita fino a 30 e infine arriva a 36 miliardi: 18 miliardi di minori tasse e 18 di maggiori spese. Manovra coperta per 15 miliardi dal solito pozzo senza fondo della spending review; per 3,8 dal recupero dell’evasione fiscale; per 3,6 da un ulteriore aumento della tassazione del risparmio; per 2,6 dalla tassazione giochi, dalla riprogrammazione dei fondi europei e dalla vendita delle frequenze della banda larga; e per i restanti 11 miliardi in deficit.

Ancora ottobre: la variazione della nota
Anche in questo caso delle intenzioni del governo viene informata la Commissione europea che chiede correzioni, possibilmente entro 24 ore. La manovra viene ridimensionata di 4,5 miliardi. E con essa il carattere espansivo. Ancora una volta il governo deve rifare i calcoli. E approva la relazione di variazione della nota di aggiornamento al Def. In poco più di 6 mesi conti rifatti 4 volte. Che credibilità può avere un governo così confusionario? Come pretendiamo che reagiscano i mercati?

Legge di Stabilità: aumentano le tasse
Le misure «espansive» pubblicizzate dal premier sono un bluff e non avranno effetti sull’economia. Come già avvenuto ad aprile con il bonus degli 80 euro. Al contrario, aumenterà la pressione fiscale. Ma questo Renzi non lo dice. La legge di Stabilità ha «gittata» pluriennale, e se le tasse diminuiranno di 18 miliardi nominalmente nel 2015, aumenteranno certamente, di fatto, di 12,4 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Un valore cumulato, in 3 anni, di 51,6 miliardi: più di 3 punti di Pil. Significa che aumenteranno l’Iva fino al 25,5%, benzina e accise. Se a ciò si aggiunge l’aumento della tassazione del risparmio e sulla casa il conto diventa insostenibile. Come faranno i nostri cittadini ad arrivare al 2018? E perché Renzi parla del bonus di 80 euro e dei 18 miliardi di riduzione delle tasse nel 2015 e non dice dell’aumento delle tasse di oltre 50 miliardi dal 2016?

Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap lavoro
Di tutto il calderone, due misure della legge di Stabilità andavano bene, ma studiandole, si rivelano anch’esse un imbroglio: il taglio dell’Irap lavoro e la decontribuzione delle nuove assunzioni. La copertura finanziaria per i tagli all’Irap è un aumento dell’aliquota Irap: quella che a maggio era stata ridotta al 3,50%, tornerà al 3,90%. La copertura è stata individuata anche dalla cancellazione di due bonus in vigore: quello che offre alle aziende 12 mesi di tagli sui versamenti contributivi per i contratti di apprendistato prolungati al termine dei tre anni e quello che prevede il taglio del 50% sui contributi per le aziende che assumono lavoratori in disoccupazione da almeno 24 mesi. Al netto della partita di giro i 5 miliardi di sconto Irap si riducono a soli 2,9 miliardi.

Legge di Stabilità: la decontribuzione delle nuove assunzioni
Quanto alla decontribuzione delle nuove assunzioni a tempo indeterminato: considerando lo stanziamento del governo di 1,9 miliardi e il limite di esonero dal pagamento dei contributi pari a 8.060 euro per ogni nuovo assunto, il numero massimo di nuove assunzioni che potranno beneficiare dello sgravio è di 235.732 unità. I contratti a tempo indeterminato attivati nel 2013 sono stati 1.584.516.

Legge di stabilità: bambole, non c’è una lira
I 36 miliardi di minori tasse (18) e maggiori spese (18) della legge di Stabilità daranno origine a mancate entrate o a maggiori spese certe, mentre gran parte delle coperture previste non si realizzeranno. Dei 15 miliardi dalla spending review se ne realizzeranno al massimo 5-6, e per i restanti 10 scatteranno le clausole di salvaguardia; sugli iniziali 11 miliardi in deficit, oggi ridotti a 6, la Commissione europea si pronuncerà a fine novembre e non ne autorizzerà neanche uno; lotta all’evasione fiscale e tassazione giochi registreranno i valori già inseriti nel tendenziale, e non si realizzerà nulla in più di quanto già previsto. Serviranno 20-25 miliardi per finanziare la parte della manovra fatta in deficit o non coperta e scatteranno le clausole di salvaguardia: tagli lineari; aumento di accise; aumento Iva e imposte indirette. La pressione fiscale aumenterà di 1-1,5 punti di Pil, fino a superare il massimo storico del 45%.

Il grande imbroglio
Questa è la realtà nascosta. Con il risultato che, anche dopo le correzioni richieste dall’Ue, i parametri del Patto di Stabilità non saranno comunque rispettati. Il piano di rientro deve essere esteso all’intero triennio e non solo al 2015 come ha fatto il governo. Se si considera il trascinamento sul 2016, infatti, emerge che, a seguito delle correzioni intervenute in termini di deficit strutturale sul 2015 (da -0,9% a -0,6%), tra il 2015 e il 2016 è prevista una riduzione inferiore rispetto allo 0,5% richiesto dai Trattati. Questo non potrà che sollevare ulteriori obiezioni da parte della Commissione europea. In questo contesto, come fa il governo a ostentare sicurezza? È fin troppo facile dedurre che il grande imbroglio della manovra di Renzi avrà effetti nefasti in tema di aspettative dei consumatori, delle famiglie e delle imprese, che non si lasceranno ingannare dall’alleggerimento apparente del prossimo anno, ma guarderanno all’aumento medio complessivo della pressione fiscale. Renzi e compagni hanno creato un imbroglio e l’hanno chiamato stabilità. E i mercati non staranno sereni.

La prima e decisiva riforma di Renzi

La prima e decisiva riforma di Renzi

Il Foglio

Non si sa ancora cosa accadrà in Parlamento sulla legge di stabilità ma una cosa è certa: l’incontro fra sindacati e rappresentanti del governo ha sancito la fine della concertazione come politica economica dello stato. I ministri delegati ad ascoltare i sindacati hanno risposto a monosillabi sulle loro richieste di “concessioni”. Il succo era: i sindacati facciano le passerelle in piazza e indichino le loro correzioni specifiche, poi noi vedremo se tenerne conto ma non contrattiamo il loro consenso. Renzi ha chiarito il concetto dicendo che il governo non chiede “permesso” perché “le leggi non si scrivono con i sindacati ma in Parlamento”. E ha aggiunto: “Forse in Italia è arrivato il momento che ciascuno torni a fare il suo mestiere”. La frase più significativa è quella finale: “Le trattative le organizzazioni sindacali devono invece farle, giustamente, con le imprese”. Il premier invita i sindacati a dialogare con le aziende e non solo con la Confindustria che tiene al suo monopolio dei contratti di lavoro e si cura delle grandi imprese. L’esecutivo vuole la disintermediazione, rompere il filo tra politica e parti sociali, per approdare a un mercato del lavoro che privilegi i contratti aziendali. La Confindustria fatica ad ammettere che la concertazione è finita anche per lei tant’è che plaude alla deduzione dell’Irap per i contratti a tempo indeterminato, graditi alle grandi società, ma poi glissa sugli incentivi per i contratti di produttività, rivolti alle piccole. Se lo dicesse, apparirebbe chiaro pure ai mercati che il governo Renzi ha avviato la madre di tutte le riforme: la fine della concertazione che garantiva impropri poteri sia sindacali sia confindustriali.

Renzi rimette i sindacati al loro posto, finalmente

Renzi rimette i sindacati al loro posto, finalmente

Massimo Tosti – Italia Oggi

Qualche giorno fa si era diffusa l’opinione che Matteo Renzi parlasse unicamente alla destra del paese: l’intervista compiacente di Barbara D’Urso al premier e l’annuncio (nella sede domenicale di Mediaset) del bonus alle neo mamme avevano confortato questa tesi. Ma Renzi ha di nuovo sorpreso gli opinionisti e gli elettori (di destra e di sinistra), scegliendo il salotto di Lilli Gruber per rimettere a posto i rapporti istituzionali. «I sindacati trattano con gli imprenditori per migliorare la condizione dei lavoratori», ha spiegato. «Il governo è disposto ad ascoltare le proposte dei sindacati tese a migliorare gli indirizzi legislativi dell’esecutivo, ma non tratta con loro». Le leggi, ha precisato, si discutono in parlamento e non con le rappresentanze di categoria. Ha spiegato quella che è una verità assoluta, travolta (purtroppo) 40 o 50 anni fa dalla debolezza dei governanti di allora che accettarono di discutere con i Luciano Lama e i Pierre Carniti (gli antenati delle Camusso, delle Furlan e degli Angeletti) ogni iniziativa della politica (che di fatto abdicava alle proprie prerogative, consentendo ai sindacati di occupare uno spazio enorme che non era di loro pertinenza).

È chiaro che, in questo modo, Renzi ha bacchettato anche i «reduci» del Pd, nostalgici della Cgil «cinghia di trasmissione» del Pci, accorsi a piazza San Giovanni per applaudire la Camusso: loro condividono il giudizio del segretario della Cgil che ha definito «surreale» l’atteggiamento dei ministri, negli incontri dell’altro ieri che si sono dichiarati non autorizzati a discutere con la controparte (arbitraria) il merito della legge di riforma del mercato del lavoro. Lo scenario surreale era quello precedente: quando i sindacati potevano porre veti su ogni decisione della politica. Quella introdotta l’altra sera da Renzi (davanti alla Gruber) è una controriforma istituzionale decisiva, in quanto ripristina i corretti rapporti che devono intercorrere fra i rappresentanti dei lavoratori e lo stato sovrano. Contro il quale si può ricorrere allo sciopero generale quando non si apprezza una legge, ma non si può pretendere di ostacolarne l’approvazione in corso d’opera.

La deflazione e il governo Renzi

La deflazione e il governo Renzi

Carlo Debenedetti – Il Foglio

Nella lettera che il governo italiano ha inviato a Bruxelles per correggere la legge di stabilità si riconosce finalmente la deflazione come un rischio grave per la nostra economia. Meglio tardi che mai. Ma per la verità la deflazione più che un rischio è ormai una drammatica realtà, in Italia e in una parte crescente dell’Eurozona. Eppure c’è stata in questi anni una sorta di negazione del problema. A me è sembrato evidente già da oltre un anno, e l’ho ripetutamente scritto, che l’Europa andasse in questa direzione. Ma non si è voluto vedere quello che era sotto gli occhi di tutti. La cultura economica continentale, formatasi sulla paura dell’inflazione, ha come rimosso la questione. L’ha negata finanche semanticamente.

In tutti i documenti ufficiali delle Banche centrali si è continuato a parlare di rischio di bassa inflazione, e in parte lo si fa ancora ora, mentre era evidente che l’Europa scivolava verso la deflazione. Chi ha visto prima e meglio sono stati gli economisti americani. Io stesso ho maturato per tempo le mie preoccupazioni attraverso i contatti con il mondo della Fed e dei think tank di Washington.

Istruttivo, in questo senso, l’ultimo rapporto al Congresso del Tesoro americano “International Economic and Exchange Rate Policies”. Ne consiglio a tutti un’approfondita lettura. C’è tutto, ed è detto con chiarezza. E’ spiegato, per esempio, come “l’Europa sia di fronte a una vera e propria deflazione”, che c’è la possibilità che questa venga esportata a tutto il mondo, che la “domanda europea è cronicamente troppo debole”. Gli errori della Germania sono individuati con una limpidezza che non trovo nella pubblicistica “ufficiale” al di qua dell’Atlantico: Berlino, dicono dal Tesoro americano, sta indebolendo l’economia europea portandola alla deflazione, perché non spinge sulla domanda interna, pur avendo i conti in sostanziale pareggio, e perché non permette una politica europea di bilancio più flessibile ed espansiva.

È anche così che l’Eurozona è diventata il buco nero della crescita mondiale. L’epicentro di un possibile terremoto deflattivo in grado di scuotere l’intera economia mondiale. Una minaccia tanto più consistente se pensiamo che gran parte delle Banche centrali del mondo sviluppato hanno già abbassato i tassi vicino allo zero. E, ciononostante, anche in America, nel Regno Unito, finanche in Cina l’inflazione è sotto il 2 per cento. Le aspettative sull’andamento dei prezzi sono calate ulteriormente quest’estate sia negli Stati Uniti, che in Europa o in Giappone. Di certo, quelle scosse hanno già colpito duramente il cuore del nostro continente. A settembre il dato medio dell’inflazione nell’eurozona è stato di 0,3 per cento (0,8 per cento depurato dall’andamento del prezzo del petrolio). Un’area che rappresenta un quinto dell’output mondiale sta cadendo nella deflazione e nella stagnazione. E i paesi cosiddetti periferici sono in una vera e propria trappola, stretti tra la moneta unica e la loro scarsa competitività: per guadagnare forza competitiva rispetto ai Paesi “core”, infatti, non potendo svalutare, devono tenere salari e prezzi a livelli molto bassi.

È da sette anni così che non riusciamo a uscire da una crisi economica che sta sfinendo il nostro tessuto sociale. Non muoviamo un passo. È una crisi che abbiamo importato proprio dagli Stati Uniti, ma loro hanno reagito subito e sono tornati a crescere, noi europei ci siamo invece avvitati in un dogmatismo di regole superate e nella storica paura tedesca dell’inflazione. Il Trattato di Maastricht risale ormai alla preistoria. Nel 1992 non esistevano Google, Facebook, Twitter. Era un altro mondo. Internet in Italia muoveva i primissimi passi. Ancora nel 2001, alla vigilia della circolazione monetaria dell’euro, Google fatturava 70 milioni, oggi fattura 60 miliardi. La Cina all’epoca di Maastricht era un paese dall’economia autarchica e conosceva i primissimi sviluppi industriali.

L’Europa era il centro del mercato mondiale e da poco, con fatica, aveva imparato a gestire lo spettro dell’inflazione. Uno spettro che veniva dai tempi di Weimar (ma andrebbe ricordato che il nazismo si afferma in realtà per effetto del diffondersi della disoccupazione in seguito alle rigide politiche deflazionistiche della Reichsbank tedesca all’indomani della crisi del 1929) e si era riaffacciato poi a più riprese nel Dopoguerra. I parametri adottati allora erano (forse) giusti per quel mondo dei primi anni Novanta, per quella cultura economica. Oggi sono semplicemente senza senso. Sono vecchi. Come vecchia è l’interpretazione fondamentalista che se ne dà. Perché vecchi sono gli occhiali attraverso cui in questi anni si è guardato in Europa alla dinamica dei prezzi e dell’economia. Non bisognava essere dei rabdomanti della moneta per capire da anni che la deflazione era un male incombente per l’Europa. Bastava guardare a quello che succedeva lì fuori, nel mondo reale, dove le merci si comprano e si vendono, dove i prezzi si formano.

Era evidente che il prezzo del petrolio sarebbe sceso in seguito alla scoperta dello shale gas, che ha trasformato gli Stati Uniti da importatore a esportatore di idrocarburi, e davanti al diffondersi delle buone pratiche di risparmio energetico. Era chiaro che la globalizzazione avrebbe abbassato i prezzi dei prodotti, dislocando le produzioni dove il costo del lavoro è 60 volte più basso che da noi. Era sotto gli occhi di tutti quanto Internet e il commercio elettronico spostassero verso il basso la concorrenza sui prezzi. Avremmo dovuto reagire da subito buttando via i modelli teorici su cui erano costruite le previsioni dei nostri Istituti centrali e introducendo il massimo della flessibilità in quei parametri ottusi che rischiano di impiccare una generazione di europei al patibolo del 3 per cento. Abbiamo risposto, invece, con l’austerità e il pareggio di bilancio. Scoprendo solo ora che così il peso del debito non poteva che aumentare, in una spirale drammatica tra recessione, deflazione e oneri degli interessi da pagare. La deflazione è una rovina per tutti. Ma per chi è molto indebitato lo è di più. Il costo di quel debito diventa un macigno, sempre più difficile da ripagare. Nel mondo il totale dei debiti privati e pubblici raggiunge il 272 per cento del pil.

Nessuno può permettersi la deflazione. Ma tanto meno può permettersela l’Europa che ha una popolazione uguale al 5 per cento di quella mondiale, un pil pari al 20 per cento e un debito pari al 50 per cento del debito pubblico mondiale. E ancor meno può permettersela l’Italia che ha l’1 per cento della popolazione mondiale, il 2.5 per cento del pil e il 20 per cento del debito mondiale.

Matteo Renzi ha dimostrato di essere un eccellente politico e quindi saprà fare la sua parte in Europa. Anche questa manovra è nel complesso positiva. Ma è proprio da un punto di vista tecnico che dico che la legge di stabilità appena approvata non serve a far uscire l’Italia dal suo declino o meglio dal suo degrado. Le misure adottate nella manovra, seppur positive, sono totalmente insufficienti a fare superare al paese la spirale recessione-deflazione. Lo sono per il semplice fatto che non modificano in modo netto la consumer behavior e le consumer expectations. Senza la fiducia in una svolta, e nella convinzione che i prezzi caleranno di mese in mese, gli italiani continueranno a rinviare le loro scelte di acquisto. Così non si va da nessuna parte. Anche perché, come ha ben spiegato Larry Summers, non c’è livello di tassi nominali che, ai tassi di inflazione di oggi, possa bilanciare investimenti e risparmi. Gran parte del lavoro allora dovrebbe farlo l’Europa. Dovrebbe farlo la Bce, comprando bond societari (un mercato di circa 9 mila miliardi complessivi, per intenderci), titoli di Stato europei e anche titoli del debito Usa.

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Renato Brunetta – Il Giornale

Oggi Renzi è un leader dimezzato. Nel Pd si riconoscono centinaia di migliaia di persone che gridano in piazza slogan terrificanti contro il premier, guidati da leader sindacali e parlamentari militanti nelle sue fila. Come può fare le riforme che la drammatica situazione richiede con assoluta urgenza? Semplicemente, non può. A oggi non ne ha fatta neanche una. Ma questa ambiguità non può durare. L’analisi economico-finanziaria chiede credibilità e forza democratica, che il presidente del Consiglio non ha. Ed è questa la maledizione di Renzi: è leader grazie a un imbroglio e alla pavidità dei suoi compagni di partito. In piazza ormai il re è nudo. È impossibile che un governo sostenuto da un partito diviso a tutto faccia le riforme necessarie per portare l’Italia fuori dalla crisi. E la situazione internazionale rischia di volgere al peggio.

Sul piano politico, l’Europa è assediata da conflitti militari ed economici che minano la sicurezza ed espongono il continente alle possibili scorrerie del terrorismo. La Russia sta vivendo un periodo travagliato. Le vicende ucraine hanno alimentato diffidenze che sembravano appartenere a un lontano passato. L’improvvisa caduta del prezzo del petrolio mina l’economia russa, privandola di quei mezzi finanziari che in questi anni hanno consentito di accelerare il processo di modernizzazione economica e finanziaria, dopo il crollo dell’ancien régime. Un’Europa politicamente divisa e incerta non riesce a coprire quel vuoto che gli avvenimenti appena richiamati rischiano di allargare. E tutto ciò determina una crisi di leadership di cui sarebbe sbagliato non cogliere i pericoli.

Sul piano economico-finanziario si assiste a un rallentamento dell’economia reale e a una forte volatilità dei mercati finanziari, con pesanti ricadute su Borse e spread nei confronti dei paesi dell’area euro più indebitati e a vantaggio dei bund tedeschi. Lo stesso Fondo monetario internazionale è stato costretto a rivedere a ribasso le stime sulla crescita dell’economia mondiale al +3,4 dal 3,7%. Secondo i principali osservatori, al centro delle preoccupazioni dei mercati c’è la forte caduta del prezzo del petrolio e delle altre materie prime; lo spettro della recessione e della deflazione in Europa; la crescita del debito (pubblico e privato) della Cina, pari al 250% del Pil e all’intera ricchezza nazionale, cresciuto del 150% solo negli ultimi 6 anni.

In quest’ultimo anno il prezzo del petrolio è sceso da 115 dollari al barile a 85 (quasi -30%), raggiungendo un valore pari a quello di 4 anni fa ma senza aumento della produzione. La caduta è dovuta a carenza di domanda e ai mancati investimenti, come dimostra il calo della produzione elettrica per usi industriali. Fenomeni analoghi, anche se più contenuti, si registrano in tutti i comparti delle commodities. Negli ultimi 6 mesi il prezzo dei prodotti agricoli è sceso in media del 15,5%. Quello delle materie prime industriali del 3,4%.

Negli Stati Uniti la quasi raggiunta autosufficienza nel settore energetico (lo sfruttamento dello shale-oil negli Usa è cresciuto del 13%, il 56% in più rispetto a quanto cresceva nel 2011) ne riduce la dipendenza dall’estero, con un contenimento delle importazioni e impulsi meno espansivi sul resto dell’economia mondiale. Il break-even point è sotto i 70 dollari al barile (ora siamo a 85 rispetto ai 115 di inizio anno, il prezzo è destinato quindi a scendere ancora).

In Giappone si assiste a un primo rallentamento della crescita (che rimane comunque a +7,1% nel secondo trimestre 2014), determinato dall’aumento delle tasse sui consumi (dal 5% all’8%) che ha determinato una forte contrazione della domanda interna. A influire è stata la motivazione del governo, cioè frenare la crescita del debito pubblico giapponese ormai al 240% del Pil.

In Europa il rallentamento complessivo è noto, ormai siamo considerati l’epicentro della deflazione. La produzione industriale è in caduta ad agosto (-1,4% su base annua). In difficoltà ci sono Francia, Italia e Grecia, stremata dal punto di vista sociale e forse pronta per un cambio di leadership a favore dei movimenti antieuropeisti. Anche la stessa Germania ha rivisto la crescita da +1,8% a +1,2% nel 2014 e da +2% a +1,3% nel 2015. In compenso cresce l’attivo della bilancia commerciale dell’Eurozona: 9.200 miliardi di surplus nell’agosto 2014, contro i 7.300 dell’agosto 2013 per la compressione della domanda interna.

All’origine di queste contraddizioni c’è l’artificioso rialzo dell’euro su dollaro e yen e l’austerity contro cui la politica monetaria voluta da Mario Draghi si sta dimostrando poco efficace. Non ci può essere una politica monetaria espansiva e una di bilancio restrittiva. L’asimmetria determina un corto circuito che accentua il «circolo vizioso» che divide l’Europa e favorisce i paesi più forti, che beneficiano di tassi di interesse più bassi, in un gioco a somma negativa. La carenza di domanda effettiva complessiva impedisce anche alle industrie dei paesi più forti di avere un mercato adeguato alle potenzialità della rispettiva offerta. Sono questi squilibri, assieme ai risultati non del tutto positivi, degli stress test sulle banche dell’Eurozona, che accentuano la deflazione e rischiano di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’euro.

Per risalire la china è indispensabile che i paesi più deboli diano priorità alle riforme che aumentino la loro produttività e – solo dopo, non prima – pensino a misure di carattere espansivo per il rilancio dell’economia. Mentre i Paesi più forti devono reflazionare le loro economie: in Germania la spesa per infrastrutture può aumentare fino allo 0,7% del Pil nel 2015 e allo 0,5% nel 2016 senza alcuna violazione delle leggi di bilancio. Al tempo stesso servono interventi della Ue sugli investimenti che vadano oltre il piano Juncker, potenziando a tal fine il ruolo della Banca europea degli investimenti, e riflettendo sull’opportunità di emettere Eurobond per trasformare almeno una parte dei debiti sovrani in obbligazioni europee. È quindi doveroso sostenere le misure non convenzionali che il presidente della Bce intenderà adottare.

Le cose da fare sono tante, in Europa e in Italia. Il governo Renzi ha la forza di farle? L’agenda parlamentare è infernale: Jobs Act, già snaturato al Senato; delega fiscale; Italicum; riforma di Senato, Pubblica amministrazione e giustizia. Ha gli strumenti per farlo? Noi pensiamo che un leader dimezzato non riuscirà a portare a compimento nessuna delle promesse fatte all’Italia e all’Europa. Con questa maggioranza ci sarà sempre una mediazione intollerabile tra il liberalismo (a parole) del premier (che mentendo sostiene di aver tagliato le tasse, e l’altra metà del Pd che vuole la patrimoniale, aggredendo i beni del ceto medio. Questo equivoco deve finire.

I “bersagli” mancati dalla manovra del governo

I “bersagli” mancati dalla manovra del governo

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Il disegno di Legge di stabilità è finalmente giunto all’esame del Parlamento, dopo alcune giornate in cui giravano, su Internet, varie bozze, accompagnate da annunci di aggiunte, integrazioni e modifiche e mentre a Bruxelles si stava redigendo una lettera piuttosto pesante in base alla documentazione (peraltro molto scarna) ricevuta il 15 e il 16 ottobre. I dieci giorni di “vaglio parlamentare” che si sono perduti rendono più difficile il ruolo delle Assemblee di migliorare il testo con emendamenti. Rendono, però, più facile quello dei commentatori di approfondire gli aspetti fondamentali e della proposta e del modo in cui è stata presentata.

Il Governo – lo sappiamo – si è posto due obiettivi principali, tenendo conto di un vincolo anch’esso principale. In termini matematici, è una funzione di massimizzazione vincolata. I due obiettivi principali sono: riportare il Paese a un tasso di crescita compatibile con una demografia e una struttura produttiva anziana (ossia 1,3% per anno, secondo le stime del “potenziale” italiano di crescita di Bce, Ocse e Fmi) e migliorare la distribuzione del reddito. Il vincolo consiste mantenere l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni al di sotto del 3% del Pil.

È rispetto a questi obiettivi vincolati che si deve analizzare un disegno di legge, diventato un po’ come un albero di Natale a ragione di un aspetto non economico ma puramente politico: il Presidente del Consiglio, a torto o a ragione, si considera in campagna elettorale permanente e, quindi, un provvedimento che dovrebbe essere semplice e lineare viene utilizzato per accontentare una vasta platea di “clientes”, come d’altro canto fatto da numerosi suoi predecessori. Eloquente l’inchino alle concessionarie autostradali.

I due obiettivi vengono visti dal Governo (o almeno da alcuni dei suoi principali consiglieri) come strettamente interconnessi. Si può essere d’accordo o meno con la visione secondo cui l’aumento dei consumi delle fasce più basse di reddito è leva essenziale per la crescita. È un approccio sostenuto da numerosi economisti, principalmente da quelli di scuola neokeynesiana ma anche da numerosi di orientamento neoclassico. Tra gli obiettivi principali non viene inclusa la riduzione dello stock di debito pubblico, né in termini assoluti, né in rapporto al Pil. Anche questa è materia opinabile perché, pur se i lavori econometrici sinora effettuati non hanno precisato “di quanto” la crescita è frenata dal fardello del debito, verosimilmente si perde tra lo 0,5% e l’1% di Pil l’anno portando il “potenziale” di espansione tra lo 0,3% e lo 0,8% del Pil.

In questo quadro, chiediamoci asetticamente se il disegno di legge raggiunge gli obiettivi nel rispetto del vincolo. La riduzione complessiva delle entrate (ossia del carico tributario e contributivo) sarebbe appena dello 0,1%, assumendo che si realizzino tutte le ipotesi alla base del provvedimento (anche quelle che in passato si sono sempre mostrate aleatorie, quali le entrate aggiuntive dovute alla lotta all’evasione). È molto più verosimile, come già evidenziato dal Centro Studi Impresalavoro, che la pressione fiscale e parafiscale aumenti a ragione dello “scattare” delle “clausole di salvaguardia” che comportano un aggravio dell’Iva di un punto percentuale, penalizzando, principalmente, tutte quelle fasce a reddito basso. Le entrate, poi, crescono principalmente per l’imposizione sul Tfr in busta paga, sempre che i lavoratori scelgano questa opzione (che li danneggerà sia ora, sia in futuro). Il disavanzo, poi, verrebbe contenuto in un po’ più di 7 miliardi, rispetto agli 11 mostrati nelle slides presentate il 15 ottobre. Data la deflazione in atto, è probabile che sarà molto più elevato (e per questo motivo si dovrà aumentare l’Iva).

Indubbiamente le imprese utilizzeranno al meglio le opportunità loro offerta dalla riduzione parziale dell’Irap. Ciò non basterà però a stimolare la ripresa. Anche perché, il grande maestro della comunicazione (il Presidente del Consiglio Matteo Renzi) ha commesso errori cruciali di comunicazione. E la comunicazione può incidere sull’andamento dell’economia, come dimostrato non solo da due libri di alcuni anni fa della Scuola nazionale dell’amministrazione (parte integrante della Presidenza del consiglio), ma anche da lavori accademici recenti dell’Union des Banques Suisses e della britannica Brunei University. Il primo è stato il senso generale di sciatteria (con numeri che ballavano sino a dieci giorni di una scadenza rispettata dai partner europei). Il secondo è costituito da diverse comunicazioni controproducenti: ad esempio, l’annuncio sullo spostamento della data di pagamento delle pensioni ha portato almeno 15 sui 26 milioni di pensionati a rivedere i loro programmi di spesa anche per consumi essenziali, accentuando le spinte che ci stanno portando verso una deflazione sempre più pericolosa. In barba agli 80 euro per i redditi bassi e al “bonus bebè” diretto essenzialmente all’elettorato del ceto medio.

L’austerità e i ministri di Pulcinella

L’austerità e i ministri di Pulcinella

Gaetano Pedullà – La Notizia

L’Europa vuol continuare a bastonare l’Italia. E non si deve nemmeno sapere. Che brutta uscita per Barroso, il presidente di una Commissione che ha governato gli anni più bui dell’Unione. Dopo averci spedito una lettera che apre di fatto il contenzioso tra Bruxelles e Roma sui conti pubblici, il capo dell’esecutivo comunitario in cerca di un nuovo ruolo politico a Lisbona se l’è presa con Renzi per aver divulgato la missiva. Come se fosse un segreto quello che hanno fatto Bruxelles e Strasburgo, Berlino e Francoforte per metterci in ginocchio. Austerità, politiche del rigore, una Banca centrale che si è mossa con colpevolissimo ritardo di fronte alla tempesta degli spread: c’è bisogno di custodire altri segreti di Pulcinella per oscurare il disastro che ci è stato procurato? Se l’Italia affonda – ribatteranno le anime belle – è perché non abbiamo fatto i compiti, siamo un Paese con regole bizantine e le riforme attendono da secoli. Vero. Ma il colpo di grazia non ce lo siamo dati da soli. E il tentativo di questa Europa nel coprire le sue responsabilità è la pistola fumante che inchioda l’assassino.

Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

Renzi ha fatto macroscopici errori. Basti prendere la riforma del Senato. Aveva in mano una carta clamorosa, quella dell’abolizione completa, pura e semplice, del Senato stesso e l’ha sprecata puntando invece su una sua trasformazione pasticciata che non taglia i costi e, nei fatti, mortifica la democrazia. Ma, accanto agli errori, Renzi ha anche cambiato la politica, dentro e fuori il suo partito. Dentro e fuori anche dal perimetro della politica politicante. E lo ha fatto in un periodo di tempo incredibilmente breve, rispetto ai tempi brontosaurici della politica italiana. Renzi infatti ha conquistato il suo partito da solo un anno ed è al governo da soli sette mesi.

In un paese normale (ma l’Italia, sinora, non lo è stato) la classe dirigente politica apicale viene costantemente rinnovata, dall’andamento delle elezioni. Chi viene sconfitto dal voto, non viene immediatamente riciclato ma torna all’attività privata. Siccome però, in Italia, l’attività politica non è, di solito, una fase della propria vita professionale, ma soltanto l’intera e sola vita professionale di un leader politico, se quest’ultimo soccombe, non può essere mandato a casa perché, non sapendo fare nient’altro, finirebbe ai giardinetti, magari anche in relativa giovane età. La classe dirigente politica italiana è quindi a esaurimento. Non potendoci pensare gli elettori a darle il benservito, è solo la mano di Dio che, a un certo punto, ma per tutti, interviene dicendo: stop.

In un paese normale, l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956, che aveva dato una bella salassata a tutta la nomenclatura comunista occidentale, avrebbe mandato a casa la vecchia classe comunista. Da noi invece quella terribile e illuminante vicenda è passata come l’acqua sulle piume di un’anatra. Il successivo crollo del Muro di Berlino, avvenuto 25 anni fa, ridusse, comprensibilmente, ai minimi termini il Partito comunista francese (Pcf), che pure era stato il secondo più importante partito comunista in Europa occidentale (dopo il solo Pci). Da noi invece il crollo del Muro si è concluso con il cambio del nome del Pci avvenuto alla Bolognina da parte dell’allora segretario Achille Occhetto che infatti, paradossalmente, ma non tanto, fu poi l’unico a essere stato rottamato. A capo del Pci, nelle sue successive diverse sigle, sono rimasti, senz’alcun imbarazzo, gli uomini che si erano formati alla scuola di partito sui sacri testi marxisti, ritenuti per buoni.

Renzi ha dovuto battersi contro questo enorme moloch organizzativo, fatto non solo di parlamentari ma anche di sezioni, di sindacato (Cgil), di coop e soprattutto di enti locali, di Asl, di municipalizzate, di patronati. Una ragnatela immensa di interessi, di consuetudini, di condizionamenti e di posti di lavoro. Il successo di Renzi, che oggi sembra ovvio, ha dell’incredibile. E il fatto che, successivamente, non sia stato divorato dal Pd (che ha tentato di reagire ma non aveva più fiato in corpo) è ancor più inspiegabile. Il merito di questo cambiamento epocale, che è stato radicale ed ormai è anche irreversibile, è tutto e solo di Renzi che, coscientemente o meno, ha colto il momento. Il corpaccione Pd (a gestione Pci, perché questa è la realtà anagrafica del partito) era diventato torpido, indebolito com’era dalla troppa lunga consanguineità, dovuta al mancato ricambio della classe dirigente. Non a caso la sinistra Dc, dai Prodi alle Bindi ai Fioroni, per intenderci, (che ci si era insinuata nel Pd) aveva accettato l’ospitalità della nomenclatura e si era accontentata dello strapuntino offerto da chi aveva in mano le redini del partito.

Ma Renzi ha fatto altro e di più. Ha osato riportare i sindacati alla fisiologia che compete loro, in una società pluralistica, mettendo in riga anche il sindacato che è sempre stato l’azionista di maggioranza del suo partito: la Cgil. Un sindacato che, durante gli anni del centrismo imperante, bastava che accennasse di voler fare (non, facesse) uno sciopero generale, per indurre il governo a dimettersi immediatamente dallo spavento. Era lo stesso sindacato che, in occasione delle Finanziarie, pretendeva di sedersi a fianco del governo per determinarne le scelte. Per rendersi conto del salto di qualità fatto da Renzi e della sua radicale rottura rispetto alle prassi del passato, basti pensare che col governo Ciampi (non secoli fa, dunque) le trattative dei sindacati con il governo durarono per ben 41 giorni. Ciò voleva dire, sul piano simbolico (e, in politica, i simboli sono quasi tutto), che il sindacato, se era in grado di bloccare per 41 giorni l’attività del governo, aveva preso, di fatto, il governo per il collo come se fosse un pollo e lo avrebbe lasciato andare solo quando avesse ottenuto tutto quanto il sindacato voleva ottenere da esso. Ora, se il sindacato (che rappresenta solo i suoi iscritti; che, tra l’altro, sono enormemente gonfiati) ha la meglio sul governo, che rappresenta invece la maggioranza di tutti gli elettori, ciò significa che è stata alterata (nei fatti, in concreto e in profondità) la fisiologia democratica specificamente dettata dalla Costituzione tanto lodata a parole, quanto violata, e per così lungo tempo, nei fatti.

Con i sindacati, Renzi ha subito detto che essi sono degli organismi corporativi (nel senso che rappresentano degli interessi settoriali; legittimamente, intendiamoci bene) e che quindi non hanno nessun titolo per voler cogestire, con il governo, la politica economica che, sempre ai sensi della Costituzione, è di esclusiva competenza del governo stesso. Inoltre, al pari di altri grossi organismi di rappresentanza economica, anche i sindacati confederali hanno il diritto di essere informati dal premier sulle intenzioni del governo. Cosa che è regolarmente avvenuta: Renzi ha convocato le organizzazioni sindacali alle 8 del mattino (uno scandalo, a Roma) e ha finito l’incontro un’ora dopo, a palese e pubblica dimostrazione che si trattava di un incontro per fare una comunicazione, non certo di un incontro per intavolare una trattativa.

Lo stesso atteggiamento, Renzi lo ha assunto anche nei confronti della Confindustria che aveva nutrito, con gli anni, nei confronti del sindacato, e in particolare nei confronti della Cgil, una sorta di sindrome di Stoccolma che è la sindrome che si impadronisce dei sequestrati quando, in occasione dell’assedio della polizia per liberarli, i sequestrati stessi finiscono per solidarizzare nei confronti di chi li tiene prigionieri, contro la polizia che vuole liberarli. La sindrome è inevitabile ma non per questo può essere accettata. Questa complicità (al posto della salutare conflittualità fra sindacati e datori di lavoro) era infatti il frutto rancido della passata concertazione quando sindacati e imprenditori, quando non riuscivano a mettersi d’accordo, chiedevano (e ottenevano) di far mettere dal governo, la parte che mancava, affinché potesse essere raggiunta l’intesa.

Insomma Renzi, forse senza accorgersene completamente, in questo è molto boyscout, ha tirato già in Italia il Muro di Berlino di un passato che, da noi, non riusciva a passare. Non so che cosa riuscirà a fare in futuro. Ma sicuramente, in sette mesi, sfidando un potere decrepito, ha fatto ciò che nessuno politico era mai riuscito a fare nei precedenti settant’anni.