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Centro Studi Impresa e Lavoro: “nel 2020 il 44% degli italiani ha acquistato online”

Centro Studi Impresa e Lavoro: “nel 2020 il 44% degli italiani ha acquistato online”

In Italia nel 2020 il 44% dei cittadini ha effettuato acquisti online di almeno un bene o servizio, a differenza del 2018 la cui percentuale di acquisti online era del 36%. Il nostro Paese si colloca così al quint’ultimo posto di questa particolare classifica europea, appena al di sotto del Portogallo (35%) e al di sopra di Romania (38%), Serbia (38%), Macedonia del Nord (34%) e Bulgaria (31%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro dell’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

In Italia i consumatori più attivi online risultano essere di età compresa tra i 25 e i 34 anni (il 62% ha acquistato beni o servizi online) e i giovanissimi di età compresa tra i 16 e i 24 anni (59%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono stati soltanto il 31% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni (in aumento rispetto al 22% del 2018), il 15% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni (+10% rispetto al 2018) e solamente il 3% degli over75 (+2%).

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi del 2020, si osserva come resti bassissima la frequenza degli acquisti, quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 9% ne ha effettuati da 3 a 5.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

I beni più acquistati online dagli italiani sono stati vestiti e articoli sportivi (23%), film e musica (15%), viaggi e alloggi per vacanza (11%), attrezzatura elettronica (11%), articoli casalinghi (10%), cibo e generi alimentari (10%), libri e riviste (9%), biglietti per eventi (4%), servizi di telecomunicazioni (3%). Curiosamente, solo il 2% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di software per computer. Secondo una rielaborazione del Centro studi ImpresaLavoro, il 67% degli italiani ha acquistato online da siti esteri, principalmente tramite Amazon per il 94%, su eBay per il 52% e su Zalando per il 44%.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

Negli ultimi tre mesi del 2020 nelle regioni italiane si è riscontrata una maggiore propensione al Nord d’Italia per l’utilizzo dell’e-commerce. Lombardia e Trentino-Alto Adige al primo posto con 44.4%, seguiti da Valle d’Aosta (43.5%), Veneto (43.2%), Emilia-Romagna (42.7%), Friuli-Venezia Giulia (41.5%), e Piemonte (40.6%). In fondo alla classifica si trova la Puglia con 31.4%, seguita dalla Sicilia (27.4%), Campania (26.1%), e Calabria (24%).

Stranieri in Italia: 78,8 miliardi di euro di rimesse dal 2008 al 2020.

Stranieri in Italia: 78,8 miliardi di euro di rimesse dal 2008 al 2020.

Bangladesh, Romania e Filippine i principali Paesi di destinazione

Dal 2008 al 2020 (ultimo dato disponibile) le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno toccato la cifra 78,8 miliardi di euro. Lo rivela un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione dei più recenti dati Banca d’Italia.  Le rimesse hanno avuto una crescita dal 2008 al 2011 toccando i 7.394,37 milioni di euro, per poi contrarsi fino ai 5.070,54 milioni di euro nel 2016. Da allora si è registrata una ripresa annuale costante del fenomeno, che nel 2020 ha toccato quota 6.766,6 milioni di euro. Le stime eseguite dalla Banca d’Italia, riportate nell’ultimo report disponibile, indicano che le rimesse avvengono tramite alcuni principali intermediari ufficiali (money transfer, poste e banche) ai quali vanno aggiunti i flussi in uscita attraverso i “canali informali” (tra il 10 e il 30% del totale). Con il passare degli anni l’incidenza dei canali informali sul totale appare comunque in sensibile diminuzione.

ANDAMENTO RIMESSE DEGLI STRANIERI VERSO I PAESI D’ORIGINE

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Banca D’Italia

Analizzando i dati dell’ultimo anno disponibile (2020), il Centro studi Impresa Lavoro ha osservato come i lavoratori stranieri che hanno effettuato la maggior parte delle rimesse siano quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 536,90 milioni, pari al 22,71% del totale), in Lazio (953,42 milioni, 14,09%), in Emilia-Romagna (706,63 milioni, 10,44%), in Veneto (587,21 milioni, 8,68%), in Toscana (521,46 milioni, 7,71%), in Campania (476,44 milioni, 7,04%) e in Piemonte (439,93 milioni, 6,50%).

LE REGIONI DI PROVENIENZA, ANNO 2020

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Banca d’Italia

Relativamente alle rimesse effettuate durante il 2020, i lavoratori stranieri che hanno inviato ai Paesi di origine il maggior quantitativo di denaro risultano essere stati i bengalesi (707,35 milioni, pari al 10,45% del totale), i romeni (604,47 milioni, 8,93%), i filippini (448,68 milioni, 6,63%), i pakistani (435,47 milioni, 6,44%) e i marocchini (428,80 milioni, 6,34%).

I PRINCIPALI PAESI DI DESTINAZIONE, ANNO 2020

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Banca d’Italia

Posti letto RSA: Ci sono ancora posti letto in Italia, si trovano principalmente al Nord

Posti letto RSA: Ci sono ancora posti letto in Italia, si trovano principalmente al Nord

I posti letto in Europa

La popolazione anziana è in netto aumento in comparazione con l’andamento demografico europeo, provocando una crescente domanda di assistenza sociosanitaria. Infatti, secondo le proiezioni demografiche future svolte da Eurostat, sarà considerevole non solo l’incremento della popolazione anziana ma anche di quella molto anziana, arrivando a toccare il 14.6% della popolazione totale europea. Di conseguenza, viene stimata una crescita dei posti letto entro i prossimi vent’anni da uno studio ISIMM nei seguenti Paesi: in Austria (+43%), in Svizzera (+75%), in Belgio (+33%), in Italia (+33%), in Spagna (+14%), in Francia (+5%), e in Germania (+29%). Inoltre, secondo gli ultimi dati completi del OECD (Health online database) 2019, si evince che l’Italia, rispetto ai principali Paesi Europei, risulta quart’ultima nella classifica con 18,8 posti letto ogni 1000 abitanti over 65 anni, in confronto con la media dei Paesi OCSE che si aggira intorno ai 39,3 posti letto.
I Paesi dove si nota una maggiore quantità di posti letto ogni 1000 residenti over 65 sono il Lussemburgo con 80,8 posti, l’Olanda con 72,1, il Belgio con 68,1, la Svizzera con 63,6, la Germania con 54,2 posti a pari merito con la Finlandia. Infine, dopo l’Italia seguono la Lettonia con 13,4 posti, la Polonia con 11,3 ed infine la Grecia con 1,8 posti ogni 1000 anziani.


Elaborazione ImpresaLavoro su dati OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), 2019

I posti letto in Italia.

La popolazione anziana è in netto aumento in comparazione con l’andamento demografico europeo, provocando una crescente domanda di assistenza sociosanitaria. L’Italia, oltre a trovarsi in fondo alla classifica Ocse con 18,8 posti letto nelle RSA ogni 1.000 residenti over 65, registra un’alta percentuale di popolazione anziana (più del 20%). Un rapporto dell’Health of Glance del 2019 prevede che una persona su 8 avrà in media 80 anni entro il 2050, determinando una crescita sempre maggiore della domanda socio-assistenziale. Secondo i dati del Ministero della Salute, i residenti in RSA durante il 2019 erano 329.142, pari al 2,4% in rapporto alla popolazione residente over 65.

Secondo gli ultimi dati Istat, i posti letto operativi nelle RSA sono al momento 125.340 nel Nord Ovest, 94.341 nel Nord Est, 45.125 nel Centro, 28.371 nel Sud e 19.480 nelle Isole. La scarsità di posti letto si evince principalmente al Sud. Il rapporto dei posti letto operativi sugli abitanti over 65 rileva una percentuale più alta al Nord Est (3,40%), seguito da Nord Ovest (3,24%), Centro (1,58%), Isole (1,33%) e Sud (0,84%). 

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Istat, 2018

In particolare, analizzando i dati di ogni regione italiana si nota come il Trentino-Alto Adige disponga della percentuale più elevata di posti letto operativi su over 65 (4,40%), seguito da Piemonte (3,89%), Friuli-Venezia Giulia (3,75%) e Valle d’Aosta (3,58%). In fondo a questa classifica si trovano invece Puglia (1,07%), Calabria (1,04%), Campania (0,56%) e Basilicata (0,49%).  

Efficienza del mercato del lavoro: Italia terz’ultima in Europa

Efficienza del mercato del lavoro: Italia terz’ultima in Europa

Il mercato del lavoro italiano è terz’ultimo per efficienza tra i 28 membri dell’Unione europea e 90esimo su 141 Paesi censiti nel mondo. Nell’ultimo anno perde ben 11 posizioni nella graduatoria internazionale e una in quella europea, ma soprattutto in termini di efficienza ed efficacia si colloca ancora dietro a quello di Paesi come Nigeria, Perù e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel recentissimo “Global Competitiveness Report 2019-2020” pubblicato dal World Economic Forum.
L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa. I principali indicatori analizzati ci pongono ormai da anni agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, nelle retrovie della classifica europea.

Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 114esimo posto al mondo e penultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Paesi Bassi e Lussemburgo). Nella classifica europea perdiamo quindi una posizione rispetto all’anno precedente. Siamo invece al 135esimo posto al mondo e diventiamo penultimi in Europa (perdendo anche qui una posizione rispetto all’anno precedente) per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni rimaniamo anche quest’anno il peggior Paese europeo (nonché 130esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa siamo 20esimi (ma 130esimi nel mondo) per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sul lavoro (facciamo molto peggio di Paesi come la Danimarca, il Regno Unito e la Slovenia). Su questo indicatore il peggioramento rispetto all’anno precedente è netto: in Europa scendiamo verso il basso infatti di altre 8 posizioni rispetto al 2018. Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto siamo 127esimi al mondo e perdiamo ben due posizioni in Europa (adesso siamo terz’ultimi). Infine, un altro indicatore da considerare è quello che riguarda l’efficienza e l’efficacia delle politiche attive per il lavoro, dove ci collochiamo addirittura all’ultimo posto in Europa (99esimi al mondo).

«Il nostro mercato del lavoro – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – contiene difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Occorre favorire un processo di innovazione sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza».

Lufthansa ritorna al posto di Delta per fare di Alitalia uno spezzatino

Lufthansa ritorna al posto di Delta per fare di Alitalia uno spezzatino

Questa settimana verrà ricordata come una delle più difficili per il mercato del lavoro italiano. In prima fila ci sono i problemi di Alitalia. Ieri piloti e assistenti hanno scioperato per 24 ore. La Fnta, federazione che riunisce i lavoratori aderenti ad Anpac, Anpav e Anp, ha indetto la manifestazione nella speranza che si trovi una soluzione per salvare l’ex compagnia di bandiera, una speranza arriverebbe da Lufthansa. Due giorni fa la compagnia tedesca avrebbe inviato una lettera a ministero dello Sviluppo economico e Ferrovie dello Stato nella quale si proporrebbe come alternativa all’americana Delta. Non si tratterebbe però di ingresso nel capitale azionario ma di una forte partnership commerciale. Il che lascerebbe pensare che il contraltare sarebbe un drastico taglio del personale e alla necessità di una nuova iniezione di capitale pubblico.

Eventualità che contribuisce ad alzare la tensione, se non bastassero gli altri scioperi come quello dei lavoratori della Embraco. Gli operai hanno manifestato bloccando la rotonda che da Riva di Chieri porta verso la fabbrica nella speranza di trovare un piano alterativo a quello della Venture che ha rilevato l’azienda. I cinoisraeliani della Venture non stanno infatti riuscendo a rispettare gli impegni presi e sembrano non avere le risorse finanziarie per dare corso al piano che prevede la produzione di robottini per pulire i pannelli solari, dispenser dell’acqua, e-bike e giocattoli, Non va meglio ai lavoratori della Whirlpool. Pochi giorni fa anche loro hanno protestato nella speranza di impedire la cessione dello stabilimento di Napoli, mentre ieri hanno incontrato il premier Giuseppe Conte. È chiaro dunque che il ministro Stefano Patuanelli che guida il dicastero dello Sviluppo economico al momento abbia diverse gatte da pelare e che dovrà comprendere che i sussidi sono destinati solo a prolungare l’agonia. «11 nostro mercato del lavoro», spiega l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro, «contiene difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Occorre favorire un processo di innovazione sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività. Va detto però che non è solo colpa delle politiche del Mise. Il vero problema è che il mercato del lavoro italiano è fermo al palo da troppi anni. A tracciare una fotografia di questa situazione che si protrae da tempo ci pensa un elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel recentissimo «Global competitiveness report 2019-2020» pubblicato dal World Economic Forum. Dall’indagine che misura l’efficienza del mercato del lavoro, emerge che l Italia è terz’ultima in classifica tra i 28 Paesi membri dell Unione europea e novantesima su 141 Paesi censiti nel mondo. L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa. Per quanto concerne, ad esempio, la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo in cento quattordicesima posizione al mondo e penultimi tra i Paesi dell Europa a 28 {ai primi tre posti ci sono Danimarca, Paesi Bassi e Lussemburgo). Nella classifica Ue abbiamo dunque perso una posizione rispetto al 2018, Siamo invece al cento trentacinquesimo esimo posto al mondo e diventiamo penultimi in Europa (perdendo anche qui una posizione rispetto all’anno precedente} per flessibilità nella determinazione dei salari. In parole povere, ciò significa che spesso i nostri contratti sono spesso frutto di accordi di categoria e quasi mai sono il risultato di un dialogo tra impresa e lavoratore. Dove però l’Italia é particolarmente carente è nella capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Su questo punto siamo l’ultimo Paese tra i 28 dell Ue e alla posizione 130 al mondo. In pratica, i datori di lavoro non riescono a premiare i professionisti più produttivi. Non va meglio se si guarda all’effetto della pressione fiscale sul lavoro (facciamo molto peggio di Danimarca e Regno Unito). Su questo indicatore il peggioramento rispetto al 2018 è netto, in Europa scendiamo verso il basso di altre otto posizioni.
Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto siamo alla posizione 127 al mondo e perdiamo ben due posti in Europa (adesso siamo terzultimi). Infine, un altro indicatore da considerare e quello che riguarda l efficienza e l efficacia delle politiche attive per il lavoro, dove ci collochiamo addirittura all’ultimo posto in Europa (al mondo siamo alla posizione 99).

Lo Stato incassa e non paga

Lo Stato incassa e non paga

di SANDRO IACOMETTI

Servizi per i pagamenti «sempre più accessibili, tempestivi e facili da utilizzare». Così, ieri, l’Agenzia della Riscossione (ex Equitalia) pubblicizzava la sostituzione del vecchio bollettino Rav con il nuovo modulo PagoPa, che consentirà di saldare il proprio debito con lo Stato (cartelle e avvisi) in qualsiasi modo e in qualsiasi momento, al bar, per strada, con un telefonino, con un pc o, se si ama la tradizione, agli sportelli postali e bancari. Si tratta dell’ennesima trovata del fisco per togliere al contribuente qualsiasi alibi sul mancato o ritardato versamento delle imposte. Come sottolinea il comunicato, il pagamento deve essere «tempestivo».Anche perché, in caso contrario, scattano sanzioni, penali e salatissimi interessi.
Meno innovazione, ma stessa determinazione è quella con cui in queste settimane sono alle prese i pensionati, invitati via posta ordinaria a restituire rapidamente i soldi ricevuti in più per colpa dei ritardi del legislatore e dell Inps nell’applicare i tagli all’adeguamento degli assegni all’inflazione. Anche in questo caso, la tempestività è d obbligo. Se l’anziano non ottempera entro il 18 ottobre, la pratica passerà agli Agenti della Riscossione, con tutte le complicazioni e i costi del caso. Ma l’Inps non è lo stesso ente che ogni mese deve versare quattrini ai pensionati? Perché non effettuare una compensazione tra crediti e debiti?

Apriti cielo. La nuova parola d ordine del presidente Pasquale Tridico è: basta azzeramenti di pendenze, soprattutto quando ci sono di mezzo le imprese. Lì, assicura il fedelissimo di Luigi Di Maio, che sta cercando di convincere sull’argomento anche il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, si annidano sacche enormi di evasione che può essere facilmente recuperata (lui dice addirittura tra i 2 e i 5 miliardi). Come? Incrociando i dati del fisco con quelli dell’Inps e tornando di fatto al vecchio sistema secondo cui ognuno paga il suo. Il risultato è garantito: il contribuente, infatti, è costretto a versare, lo Stato no.

Ricordate tutta la campagna per smaltire i debiti arretrati della Pa con i fornitori, gli annunci sulla certificazione dei crediti, gli anticipi bancari, la tracciabilità dei pagamenti? Qualcosa è stato fatto. Ma a differenza dei versamenti di imposte e contributi, dove ogni giorno viene inventato un sistema nuovo per facilitare l’incasso da parte della pubblica amministrazione, lì il meccanismo era così complicato e farraginoso che alla fine ha funzionato poco e male.

I numeri parlano chiaro: secondo una rilevazione del Centro studi ImpresaLavoro alla fine del 2018 lo stock dei debiti accumulati dalla Pa ammontava ancora a 53 miliardi, solo 4 in meno rispetto all’anno precedente. E i tempi con cui i fornitori vengono saldati, seppure ridotti, restano ancora elevatissimi e tra i peggiori d Europa. Con 67 giorni di media lo Stato italiano è sul podio dei cattivi pagatori, subito dopo la Grecia (115) e il Portogallo (75).

Invece di migliorare, la situazione sta peggiorando. E sta addirittura creando un circolo vizioso tra le imprese per cui, mancando così di frequente il primo tassello, il saldo della fattura da parte del pubblico, a cascata nessuno paga più nessuno. Dal Barometro Censis presentato ieri è emerso che il 91,3% dei commercialisti negli ultimi dodici mesi ha subito ritardi nella riscossione dei crediti. Per il 52,6% i tempi si sono allungati rispetto all’anno precedente e per l 87,7% le imprese rimaste a bocca asciutta hanno a loro volta lasciato a secco i loro fornitori, scatenando un corto circuito devastante sia per il tessuto produttivo sia per l intero Paese.

Ad accendere la miccia, manco a dirlo, è proprio lo Stato. La quota di professionisti che hanno dovuto fare i conti con ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione è del 60%. In particolare, il 10,6% indica che tutte le sue imprese clienti hanno tale problema e il 31,2% che riguarda la maggior parte dei casi, mentre solo l 8,9% dei commercialisti sostiene di non aver avuto a che fare con intoppi di alcun genere.

Quanto ai tempi, per il 30,6% l attesa si è allungata rispetto allo scorso anno e per il 53,5% è rimasta uguale. Solo per un 7,7% di fortunati la Pa è stata più solerte rispetto ai 12 mesi precedenti. Le conclusioni dello studio realizzato per il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti sono chiare. Si tratta, si legge, «di una patologia grave perché tradizionalmente la Pubblica amministrazione dovrebbe giocare un ruolo di regolatore positivo dei mercati». Invece, resta «un generatore di criticità». In altre parole, una zavorra al posto di un volano.

Sul fisco servono le ricette del ’94. Ma i giallorossi faranno il contrario

Sul fisco servono le ricette del ’94. Ma i giallorossi faranno il contrario

Massimo Blasoni è il presidente del Centro studi di ispirazione liberale ImpresaLavoro, ma soprattutto un imprenditore di prima generazione. Con il Gruppo Sereni Orizzonti, uno dei principali operatori sul mercato, costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani in Italia, Germania e Spagna.

In Italia c’è poca o troppa politica?

«È un’opinione personale, sia chiaro, ma le vicende politiche degli ultimi mesi fanno pensare a una soap opera. Colpi di scena, esibizioni estive, repentini cambiamenti di fronte: gli ingredienti ci sono tutti. Le pagine politiche rischiano di assomigliare a quelle del gossip. Poco male se le scelte dei partiti non ricadessero pesantemente sulla vita di tutti noi. Oggi a valori reali gli italiani sono più poveri di quanto non lo fossero nel 2007 e il reddito pro capite tedesco è ormai una volta e mezzo il nostro. Bassa crescita e debito sono un cocktail devastante».

Riuscirà a modificare la situazione attuale il nuovo governo giallo-rosso?

«Temo proprio di no, anzi il rischio è che lo statalismo e il giacobinismo dei 5 Stelle si saldino con la parte del Pd che è ancora ancorata alla centralità della Pa ed è latamente antagonista dell’impresa. Non credo che si privatizzerà Alitalia o si porteranno a termine processi incompiuti come quello di Poste Italiane e Ferrovie. Non credo nemmeno che muterà l’atteggiamento sostanzialmente contrario alle grandi opere dei 5 Stelle. Un errore marchiano in un Paese che ha invece bisogno di rafforzare il sistema di infrastrutture fisiche e digitali. Vagheggiare come risolutivo l’intervento pubblico è quanto di più sbagliato si possa fare. La soluzione non è incrementare il ruolo dello Stato in economia ma piuttosto il contrario. Bisogna agevolare la nascita di nuove imprese non promettendo contributi pubblici ma attirando gli investimenti con meno burocrazia, meno tasse e più formazione dei lavoratori. Occorre trasferire ai giovani il messaggio che è possibile realizzare le proprie idee e creare un’azienda. Andrebbero riproposte misure come quella parte del decreto Tremonti del 1994 che per un triennio stabiliva la completa detassazione delle nuove imprese avviate da under 32. Toglieva Ires, Irap e imposte comunali per l’esercizio di imprese e per ogni tributo i connessi gravosi adempimenti burocratici».

«Statisticamente sì, per certo nel mio caso. Ho avviato la mia azienda sulla base di questa misura che semplificava lo start up e oggi ho più di 3000 dipendenti».

Altre cose da fare?

«Comprendere che non è frutto di un ordine necessario che lo Stato gestisca molta parte della nostra vita. Se penso al sistema pensionistico, ad esempio, è oggettivamente insostenibile e rischia di minare la stabilità dei conti pubblici tanto che ogni anno occorre utilizzare risorse della fiscalità generale per pareggiare i conti in rosso dell’Inps. Perché non ipotizzare un passaggio graduale dal sistema pubblico a ripartizione a uno privato a capitalizzazione? Perché deve essere l’Inps a gestire obbligatoriamente, e male, i denari delle nostre pensioni?».

Proposte azzardate?

«Forse, ma il Paese rischia di essere travolto dall’immobilismo di chi dice di volerlo cambiare».

Debiti PA: stock a 53 miliardi, in Europa siamo i terz’ultimi per tempi di pagamento (67 giorni di attesa)

Debiti PA: stock a 53 miliardi, in Europa siamo i terz’ultimi per tempi di pagamento (67 giorni di attesa)

I tempi di pagamento

L’edizione più recente dell’European Payment Report di Intrum Justitia rivela che in Italia il tempo medio di pagamento da parte del settore pubblico nell’ultimo anno si è attestato a 67 giorni, 25 giorni in più rispetto al valore medio europeo. Il calo rispetto ai 104 giorni medi dell’anno precedente è imputabile in gran parte alla fatturazione elettronica. Tempi di pagamento così lunghi si ripercuotono negativamente soprattutto sulle piccole e medie imprese, costrette ad accettare termini di pagamento troppo dilazionati e spesso imposti dalle imprese più grandi. Il dato di quest’anno ci colloca al terz’ultimo posto in Europa, dopo Grecia (115 giorni) e Portogallo (75 giorni). Il nostro valore attualmente supera di un giorno quello della Spagna, di 19 quello della Francia, di 39 giorni quello del Regno Unito e di 40 giorni quello della Germania.

Lo stock di debiti della PA

Sono passati più di cinque anni dal 13 marzo 2014, quando l’ex premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre di quell’anno avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario in occasione del proprio onomastico se il suo Governo non avesse pagato tutti i debiti che la Pubblica Amministrazione aveva contratto fino al 2013. Da allora la situazione è rimasta sostanzialmente invariata. La relazione annuale presentata a fine maggio dalla Banca d’Italia certifica infatti che nel 2018 lo stock dei debiti accumulati dalla PA ammonta ancora a 53 miliardi di euro, appena 4 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Questo dato conferma quanto abbiamo denunciato a più riprese: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare solo in parte con operazioni spot i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

I costi per le imprese

Per l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro, «si riducono i tempi di pagamento ma restiamo tristemente terz’ultimi in Europa, dopo di noi solo Portogallo e Grecia. Lo stock di debito resta enorme, lo Stato deve alle imprese 53 miliardi. Questo ritardo sistematico è costato loro la bellezza di 3,7 miliardi di euro, cifra generata dagli interessi passivi dovuti per anticipare il credito necessario a pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi. La stima è stata effettuata prendendo come riferimento il dato fornito da Bankitalia sullo stock complessivo e il costo medio del capitale (pari al 7,043% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti».

In Italia cambiano continuamente i governi ma la corsa verso lo sfascio non rallenta mai

In Italia cambiano continuamente i governi ma la corsa verso lo sfascio non rallenta mai

di Massimo Blasoni*

La politica nazionale conta?

Ovviamente, ma molto meno che in passato e soprattutto il mutare di orientamento dei governi che si succedono non sembra avere effetti significativi almeno sulle tasse che paghiamo e sulla crescita del debito. Insomma, al di là delle dichiarazioni roboanti dei sette governi che abbiamo avuto dal 2006 fino a ieri, la pressione fiscale è rimasta sempre in uno strettissimo corridoio che va dal 41,5% del 2007 all’attuale 42,1%. Modestissime differenze ben poco condizionate dai diversi orientamenti: prima dell attuale formula giallo-rossa che sostiene il governo Conte II, siamo passati dal centro-destra al centro-sinistra e quindi al governo giallo-verde.

Anche la crescita del debito nel periodo ha conosciuto una progressione sostanzialmente omogenea, indipendentemente dal colore politico di chi governava. Questo non vuol dire che le scelte dei partiti non ricadano pesantemente su ognuno di noi ma ciò avviene non come un tempo, soprattutto al Nord. Nell’economia globale finiscono per prevalere decisioni e indirizzi che vengono assunti in consessi più ampi. Qualche esempio?

All’ambito nazionale è sottratta la politica monetaria. Un tempo la moneta poteva essere svalutata in una notte, oggi le scelte sull’euro non si fanno certo a Roma. I partiti peraltro controllavano il sistema bancario, con tutto quello che ne consegue. Dalla Banca Nazionale del Lavoro al Banco di Napoli, dal Monte dei Paschi di Siena all’Istituto Bancario San Paolo di Torino, la nomina dei consigli di amministrazione competeva all’ambito politico. Oggi non è più così e i parametri europei di concessione del credito in ogni caso rendono molto più difficile elargire denaro facile a sodali e conoscenti. Sono lontani i tempi in cui le assunzioni nel pubblico impiego erano migliaia e servivano ad appagare le rispettive clientele e i parametri europei limitano di molto gli aiuti di Stato al sistema delle imprese.

Stare in Europa vuol dire accettarne le regole, che, tradotto in termini più comprensibili, significa che incrementare fuori misura deficit o debito comporta sanzioni. E anche se il nostro debito pubblico è in costante crescita sono lontani gli anni 80 in cui il deficit annuo raggiungeva anche il 14% del pil. In definitiva, la signoria dello spread rende di fatto impossibile assumere decisioni che i mercati giudicano radicali o eccessivamente populiste. Il confronto tra i partiti, soprattutto negli ultimi mesi, ha dato un idea della politica fortemente drammatizzata. C è molto della soap opera con colpi di scena, fidanzate esibite, performance balneari e cambiamenti di fronte. Occorre forse che tutti rimettano i piedi per terra e si chiedano cosa concretamente possano fare nei limiti che gli sono concessi.

*Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

Lo Stato avaro costa 3,7 miliardi alle Pmi

Lo Stato avaro costa 3,7 miliardi alle Pmi

di Massimo Blasoni*

Con i tempi di pagamento lumaca imprese costrette a finanziarsi in banca e a pagare interessi.

3,7 miliardi di euro. Tanto è costato lo scorso anno alle imprese italiane anticipare il credito necessario a pagare dipendenti e materie prime per fornire beni e servizi alla Pubblica amministrazione in attesa di essere saldate.

Questa stima è stata effettuata mettendo in relazione i dati di Bankitalia sullo stock complessivo dei debiti con il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per finanziare i ritardi di pagamento della Pubblica amministrazione, con modalità che vanno dallo sconto fatture al factoring, agli sconfinamenti e così via.

È ovvio: se per fornire la Pubblica Amministrazione l’imprenditore ha dovuto pagare materiali e dipendenti e non viene a sua volta saldato non può che rivolgersi al sistema bancario. Un sistema di norma piuttosto costoso e a cui non è facile accedere soprattutto per le piccole e medie imprese.

I ritardi finiscono per rappresentare una vera e propria tassa occulta che rende ancora più ardua la competizione con le aziende di Paesi come la Francia e la Germania che hanno tempi di pagamento della Pa, e dunque costi finanziari, che sono mediamente la metà dei nostri.

Secondo il recente European Payment Report 2019 di Intrum Justitia, quanto a tempi di pagamento siamo terz’ultimi in Europa, seguiti solamente da Portogallo e Grecia.

I ritardi non contribuiscono affatto a migliorare il rapporto di fiducia tra Stato e impresa.

Insomma, le tasse vengono richieste ai cittadini e incassate con scadenze precise ma lo Stato invece paga quando vuole, in sostanza finanziandosi parzialmente a spese del sistema produttivo.

Lo stock di debiti della Pa verso le imprese italiane è stimato da Bankitalia in 53 miliardi per il 2018. Una cifra ingentissima che rappresenta un rilevante freno per il nostro sistema produttivo.

Il calo rispetto all’anno precedente è di appena quattro miliardi di euro.

Liquidare con operazioni spot i debiti pregressi non riduce infatti lo stock complessivo poiché i debiti commerciali si rigenerano costantemente, essendo beni e servizi forniti di continuo.

Le imprese italiane sopportano tasse rilevanti, una burocrazia oppressiva e una giustizia civile assai lenta. Sarebbe auspicabile che fossero almeno esentate da questa sorta di tassa occulta.

* Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro