Edicola – Opinioni

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele.

A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.

Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.

Riformare la burocrazia si può, e non solo con la tecnologia

Riformare la burocrazia si può, e non solo con la tecnologia

Edoardo Segantini – Corriere Economia

Di riforme si parla, si sparla e si straparla. Ma non è detto che per cambiare le cose, in un Paese già tanto complicato, la sola strada sia la modifica legislativa, cui magari non seguono decreti attuativi e che spesso aggiunge solo carta ai carta. Il caso della Pubblica amministrazione è l’esempio più eclatante: dimostra, fra l’altro, che invocare «più tecnologia» senza una vera riorganizzazione è una colossale stupidaggine, che finora ha favorito soltanto i venditori di hardware e software.

L’esempio virtuoso più spesso citato è il programma americano di Bill Clinton e Al Gore passato alla storia sotto il nome di «Reinventing Government» che, tra il 1993 e il 1998 ottenne risultati strepitosi: 137 miliardi di dollari di riduzioni di costi; 350 mila pubblici dipendenti ricollocati in funzioni più utili dentro e fuori i pubblici uffici (con trattative sindacali e individuali); 640 mila pagine di regolamenti interni e 16 mila pagine di norme federali abolite. Questi semplici dati dicono con chiarezza che riformare bene vuole dire semplificare le norme, non crearne di nuove.

È l’idea che da sempre muove il lavoro, teorico e pratico, di Federico Butera, che come consulente ha avuto una parte non secondaria nella modernizzazione dell’Inps, dell’Agenzia delle Entrate e che propone di estendere la «reinvenzione» all’insieme della pubblica amministrazione italiana. Nella giustizia, uno dei campi notoriamente più difficili, il sociologo ha lavorato a un programma (Best Practices) che ha coinvolto 190 uffici del Tribunale e della Procura di Monza e ha ricevuto quattro premi internazionali. Dimostrando che, anche nella burocrazia più rocciosa, cambiare si può. Il «Reinventing Government» made in Usa insomma non è stato enunciato e scimmiottato, ma interpretato e adeguato alla realtà italiana. Il processo di cambiamento è stato gestito coinvolgendo gli interessati e dando loro obiettivi misurabili di miglior servizio al pubblico, con il risultato che i tempi e i costi sono stati ridotti, 1’accessibilità e la trasparenza sono stati aumentati e, soprattutto, si è contribuito a far emergere una squadra di magistrati e amministrativi «innovatori» che hanno fatto propri i concetti e le pratiche del miglioramento organizzativo e gestionale.

Esperienze come questa potrebbero essere estese e replicate, coerentemente con gli obiettivi della Spending Review. Tenendo conto di un aspetto che è stato essenziale nell’esperienza americana, realtà non certo sospettabile di «pansindacalismo»: l’obiettivo del cambiamento sono le persone, non le cose, dunque la riorganizzazione va sempre negoziata, pur senza cedimenti alla «concertazione». E il modo migliore per negoziare senza concertare è spostare l’attenzione dalle regole agli obiettivi, ripensando i meccanismi retributivi e di incentivazione.

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

Romano Prodi – Il Messaggero

Nella sua visita in California il Presidente del Consiglio ha incontrato un nutrito gruppo di giovani imprenditori italianiche, a migliaia di chilometri di distanza, sono andati a costruire delle “start up”, cioè delle nuove imprese che nascono a grappoli dove esiste un ambiente favorevole. Dove sono disponibili risorse finanziarie e, soprattutto, energie umane giovani e coraggiose. In fondo anche noi abbiamo avuto il periodo delle nostre start-up quando, dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta, fiorivano i nostri distretti industriali, con sempre nuove aziende che fra di loro si integravano e nello stesso tempo si facevano feroce concorrenza. Questo era allora possibile perché le imprese si fondavano su tecnologie semplici e su accessibili fenomeni imitativi, mentre la tumultuosa crescita del mercato permetteva un rapido ritorno degli investimenti. Il tutto era molto adatto all’Italia di allora: pur con tutti i nostri problemi si è perciò potuto parlare di miracolo italiano e vedere le nostre piccole e medie imprese indicate come esempio di efficienza e di innovazione nei manuali di tutte le Business School del mondo.

Oggi viviamo in un pianeta diverso: le imprese fondate sull’imitazione non reggono più di fronte ai nuovi concorrenti mentre le nuove iniziative si fondano su tecnologie raffinate, hanno bisogno di nascere e vivere vicino a università e laboratori di ricerca d’avanguardia e, anche nei casi in cui richiedono capitali modesti, il ritorno del capitale di rischio è a lungo termine. Questo in conseguenza della complessità delle conoscenze da mettere insieme, delle laboriose prove sperimentali e delle autorizzazioni pubbliche necessarie. Il tutto senza tenere conto della difficoltà di reperire credito bancario, data la maggiore facilità nel giudicare il rischio di un prestito concesso a una fabbrica di piastrelle o di abbigliamento che non a un laboratorio che propone nuove molecole o raffinati processi di software. D’altra parte queste sono le aziende del futuro e la loro esistenza condiziona anche la vita e lo sviluppo delle aziende tradizionali.

Non è quindi sorprendente dovere constatare le difficoltà della nostra industria, presa nella tenaglia fra i Paesi a basso costo del lavoro e quelli che fanno tanta ricerca, soprattutto ricerca applicata. Tuttavia, come capita in tutti i casi della vita, se si vuole cambiare qualcosa bisogna prima di tutto partire dalle risorse che abbiamo e cercare di utilizzarle al meglio, sperando di potere in seguito preparare il complesso ecosistema che caratterizza i distretti dove nascono le nuove imprese. Partiamo dal fatto che le nostre risorse spese in ricerca applicata sono scarse, anzi infime, rispetto agli altri Paesi moderni. Abbiamo tuttavia centri di dimensioni non trascurabili, almeno attorno aI politecnici di Torino e Milano, alle università di Bologna e Pisa e al complesso delle università romane e napoletane. Senza nominare la non trascurabile presenza del CNR e dell’Enea. Ho inoltre in mente l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) che è stato opportunamente creato proprio per promuovere la ricerca applicata dedicata a fare avanzare il nostro sistema produttivo e che sta facendo bene il suo mestiere.

Ebbene quando mi sono messo ad analizzare se questi centri di ricerca promuovono nuove imprese sono rimasto profondamente deluso. Le imprese generate sono pochissime e quasi sempre abbandonate a se stesse. E quindi non si sviluppano. I contatti fra le università e le imprese sono scarse, le “start up” non sono capite e non nascono le strutture dedicate a farle vivere. Strutture che, non a caso, nel linguaggio internazionale, sono chiamate “angeli“. Certo gli impedimenti burocratici e le regole allucinanti a cui sono sottoposte le nostre università e le nostre imprese costituiscono la prima difficoltà, ma ho dovuto constatare come siano difficili e complessi i rapporti perfino fra i laboratori d’avanguardia come quelli dell’IIT e la città di Genova che ne ospita le strutture portanti. Ancora ostacoli burocratici ma anche un quasi totale disinteresse del mondo produttivo per capire che cosa si può ricavare da quei ricercatori e da quei laboratori d’eccellenza. Almeno in questi casi la colpa non è certo tutta del governo. Sappiamo che i nuovi business sono difficilmente individuabili, altamente rischiosi e diversi fra di loro. Tra le nuove imprese solo una su cinque (o forse una su dieci) avrà successo ma sappiamo anche che, come accade in tutti gli altri Paesi, il guadagno che deriva dall’impresa di successo costituisce una remunerazione del capitale impiegato molto più elevata della media, anche tenuto conto del costo dei fallimenti.

Mi chiedo perciò come mai, intorno a questi ed altri centri di ricerca, non nascano gli “angeli” in grado di adempiere il complesso compito di legare le imprese all’ecosistema della ricerca, della finanza e delle altre imprese. E mi chiedo perché le autorità pubbliche non ne aiutino in modo prioritario la nascita, impegnandosi anche a contribuire in modo proporzionale agli impegni degli operatori privati. Parlo naturalmente di una presenza minoritaria, perché questo non è un mestiere adatto al pubblico. Ma quanti e dove sono gli operatori privati disposti a rischiare? Ben pochi! Eppure in Italia vi sono sufficienti persone che hanno preparazione, esperienza e conoscenza di uomini per aiutare i giovani ricercatori che si vogliono fare imprenditori, per consigliare a loro gli specialisti di cui hanno bisogno nelle nuove imprese e per dotare le imprese stesse delle necessarie risorse finanziarie. In Italia i potenziali “angeli” non mancano. E non mancano di certo le risorse finanziarie.

Nelle città indicate, ma non solo in queste, basterebbe una infima (ma proprio infima) percentuale delle risorse immobiliari o mobiliari parcheggiate all’estero per dare un contributo concreto all’occupazione giovanile, per rallentare la fuga dei cervelli e per fare si che almeno i colleghi migliori degli imprenditori che Renzi ha incontrato in California possano operare con successo in Italia. Diamo pure alla burocrazia le colpe che si merita ma non dimentichiamo che il coraggio ed il senso del futuro hanno importanza determinante per costruire il nuovo. Ricordiamo Inoltre che i nostri padri, al loro tempo, lo hanno avuto. E, soprattutto, ricordiamo che senza “angeli”non si può arrivare in paradiso.

Lo stato faccia la sua parte rilanciando gli investimenti

Lo stato faccia la sua parte rilanciando gli investimenti

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Secondo il vocabolario le parole fiducia e credito possono avere lo stesso significato. In economia sono due facce della stessa medaglia. Se c’è fiducia ci sono investimenti, e se ci sono investimenti c’è credito. Ma se la fiducia manca, il credito latita. Non c’e dunque da stupirsi che di fronte al protrarsi della recessione, ora per di più abbinata alla deflazione, sia sceso il tasso di fiducia degli imprenditori italiani – a settembre quello calcolato dall’Istat è arrivato a 86,6 il livello più basso dell’ultimo anno – e che, di conseguenza non ci sia domanda di credito. Già, proprio mentre la Bce punta a rilanciare la spesa in conto capitale, privata e pubblica, spingendo le banche a dare più credito, il segnale che arriva alimenta più di un dubbio sulle future intenzioni d’investimento.

Siamo dunque nella paradossale situazione in cui la liquidità è enorme – mentre solo due anni fa parlavamo di credit crunch – ma rimane inutilizzata perché in giro non ci sono nuovi progetti. O meglio, in banca c’è la fila di chi vorrebbe credito per sistemare debito, e nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di aziende decotte, la cui crisi è stata solo accelerata dalla pessima congiuntura. Spiace dirlo, ovviamente, ma è bene che le banche, un tempo troppo generose come dimostra il livello delle sofferenze, non aprano quei rubinetti, perché quasi mai ci sono le condizioni del risanamento e del rilancio e quasi sempre si può al massimo prolungare di qualche tempo l’agonia, illudendo imprenditori e lavoratori.

Dunque, è infondata e sterile la polemica contro il sistema bancario che sento fare. Oggi le banche avrebbero tutto l’interesse ad azionare la leva degli impieghi, ma per farlo ci deve essere domanda di credito per nuovi investimenti, e non c’è. E quella poca che c’è finisce per dover pagare interessi elevati, che le banche devono praticare proprio per l’esiguità dei loro impieghi. Certo, ci può essere anche un eccesso di prudenza per paura di commettere i vecchi errori, ma il tema centrale è e rimane la mancanza di progetti. E allora, come si possono rimettere in moto gli investimenti e rilanciare la domanda? Occorre riaccendere la speranza che le cose possono cambiare davvero. E per farlo, dopo la stagione ormai consumata dei gesti simbolici, ci vogliono respiro programmatico e azioni concrete. Per esempio – e qui siamo alla seconda chiave di volta- lo Stato deve tornare a mettere mano al portafoglio. Per fare le cose strategiche, a cominciare dalle infrastrutture materiali e immateriali, che i privati non fanno. Come, visti i problemi di bilancio? Trasformando patrimonio pubblico e spesa corrente in spesa in conto capitale. È il modo più sicuro per dare credito alla fiducia.

Con questa sinistra la ripresa è passiva

Con questa sinistra la ripresa è passiva

Carlo Pelanda – Libero

Molti lettori, inquieti per un deludente 2014, chiedono quale sia tendenza economica più probabile per il 2015-16: recessione, stagnazione o crescita? Risponderò alla fine, prima è utile descrivere il fenomeno della “ripresa passiva”, lentissima, che è in atto, come inquadrata dal mio gruppo di ricerca. Fino a poco fa la maggioranza delle famiglie italiane temeva catastrofi. Per tale motivo ha massimizzato, chi poteva, il risparmio, riducendo i consumi. La perdita della fiducia, insieme alla restrizione del credito ed all’aumento del drenaggio fiscale, è stata, ed è, la causa principale della recessione del mercato interno a partire da metà 2011. Da qualche mese un numero crescente di famiglie sta realizzando che la catastrofe non si è attualizzata e comincia a valutare, pur ancora con prudenza, più decisioni di spesa. Da metà 2013 la recessione ha iniziato ad attutirsi non grazie ad azioni stimolative di politica economica o monetaria, ma grazie alla riduzione della paura. Per questo si può definire “ripresa passiva”. Se così, allora è probabile che, pur senza interventi stimolativi di politica economica e monetaria, il Pil italiano resti stagnante, ma non più recessivo. Questo scenario ne illumina un altro: se senza stimolazioni anticrisi il sistema economico italiano riesce a riemergere per sua robustezza intrinseca, basterebbero poche politiche giuste e mirate per metterlo su una linea di crescita forte e rapida.

Possiamo sperare che questo govemo ne sia capace? Vediamo quello che dovrebbe fare: (a) “operazione patrimonio contro debito” per ridurre il secondo di almeno 300-400 miliardi; (b) in 2 o 3 anni taglio di 100 miliardi di spesa ed almeno 70 di tasse, lasciando un margine di 30 per rispettare i vincoli di pareggio di bilancio, dando così un superstimolo all’economia, in particolare agli investimenti; (c) alleggerire i carichi fiscali del settore immobiliare e delle costruzioni che è il motore principale della crescita nel mercato interno italiano; (d) detassare i fondi di investimento per aumentare il finanziamento non-bancario delle imprese e gli investimenti esteri veicolati via fondi italiani; (e) fare un megafondo di garanzia statale per ripatrimonializzare le imprese destabilizzate dalla crisi, ma ancora vive, e dare loro accesso al credito; (f) liberalizzare il mercato del lavoro.

Tali politiche certamente porterebbero il mercato interno in forte crescita prolungata, anche considerando eventuali turbolenze globali con impatto sull’export e sulle Borse: l’Italia diventerebbe locomotiva europea, la disoccupazione sarebbe riassorbila in un triennio, il pareggio di bilancio sarebbe rispettato ed il rapporto debito/Pil scenderebbe rapidamente verso un più rassicurante 100%, forse sotto, dal 130% circa di oggi. Ma il governo Renzi farà persino fatica a flessibilizzare un po’ le norme sul lavoro e non ha nemmeno in programma le cose dette nella misura utile a dar loro efficacia stimolativa.

Non voglio essere ingiusto, ma un governo che stimola la domanda (gli 80 euro) quando la domanda stessa è depressa per mancanza di fiducia, invece di tentare stimolazioni tiscali sul lato dell’offerta per ricostruire la fiducia stessa, dimostra o incompetenza oppure un ancoraggio all’irrealismo della cultura economica di sinistra, o propensione alla demagogia, che non può far sperare troppo. Anzi fa ridere, amaramente, per tanta incompetenza.

Pertanto non è probabile che nel 2015-16 si avveri quella crescita fortissima che sarebbe teoricamente possibile liberando la forza intrinseca del sistema. Ma proprio questa forza ci permette di sperare in un effetto maggiore della svalutazione competitiva dell’euro ora pilotata dalla Bce, unica vera stimolazione, pur non tra le migliori, in atto nell’Eurozona. Pertanto scommetterei su una ripresa ancora lentissima nel 2015, ma più robusta nel 2016, sopra l’1%, in grado di almeno far galleggiare l’Italia nonostante un governo ed un personale politico-tecnico incapaci di guidare una “ripresa attiva”. Non aspettiamoci dalla sinistra cose che non può fare, concentriamoci invece sulla ricostruzione e riqualificazione del centrodestra per sostituire la sinistra stessa il prima possibile e tentare la liberazione del gigante Italia incatenato. Ma nel frattempo non affonderemo, motivo di fiducia.

L’Italia di Fellini

L’Italia di Fellini

Giovanni Morandi – La Nazione

Mi si perdoni l’autocitazione ma per un caso ho ritrovato in un cassetto la brutta copia del compito che feci all’esame dell’Ordine per diventare giornalista professionista, un foglio protocollo timbrato 5 aprile 1978. L’autocitazione mi serve per dimostrare come in Italia si parli da decenni degli stessi problemi, senza uscirne. Scriveva il giovane candidato: “La frattura tra le due società si allarga e la distanza accentua l’incomprensione. Il conflitto è diventato contrasto tra ruoli non solo tra idee. La società dei padri e quella dei figli si sono trasformate e adesso si chiamano in due modi diversi, la società dei garantiti e quella degli abbandonati”. Accadeva allora ed è uguale oggi e oggi i campioni del conservatorismo che tiene in piedi la baracca da demolire sono soprattutto la vecchia guardia del Pd e la Cgil, strenui difensori dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che all’epoca fu una conquista sociale ma che poi con il tempo è diventato un freno che blocca la ripresa e assicura i privilegi ai garantiti che hanno già un lavoro senza preoccuparsi degli abbandonati che invece un lavoro non ce l’hanno, in primis i giovani.

Ma guardiamo il calendario per vedere di quale epoca stiamo parlando. Della preistoria, perché lo Statuto dei lavoratori, ovvero l’articolo 18 della legge numero 300 porta la data del 20 maggio 1970, ovvero 44 anni fa. Mezzo secolo. Pannella era un vigoroso rompiscatole che proprio in quell’anno fece passare la legge sul divorzio, legge che seppellì un’Italia codina e ipocrita, incombevano le trame di piazza Fontana, le cui bombe erano esplose sei mesi prima, vennero istituite le regioni, senza che nessuno potesse immaginare che sarebbero diventate allegre assemblee dalle spese pazze e il Presidente della Repubblica era il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Che cosa è rimasto di quell’Italia? Per un verso quasi nulla, per l’altro quasi tutto a cominciare dal blocco sociale dei garantiti che si trincerano dietro le cosiddette conquiste dei lavoratori e quelli che il lavoro non ce l’hanno si arrangino, anche se sono i figli degli occupati o dei pensionati. Così siamo arrivati a questo punto e chi si è azzardato a cambiare l’ha pagata cara, bastonato dai raduni alla Cofferati, che vorrebbe ancora sbarrare la strada, o eliminato dalle Brigate Rosse, che hanno ucciso i giuslavoristi. Uccisi per la sola colpa di voler rinnovare un paese dove gli intoccabili hanno sempre trovato protettori non sempre presentabili.

I prossimi giorni saranno decisivi per capire se Renzi ce la farà a dare un calcio all’articolo 18 o se invece dovrà fare valigie da Palazzo Chigi. Vedremo se vincerà lui o quelli che invece pensano si debba cambiare governo una volta l’anno, naturalmente pescando nel solito salottino milanese. Questa è l ‘Italia che Federico Fellini descrisse in modo magistrale nella “Prova d’orchestra”, film del 1979 che parla di un maestro costretto a piegarsi a musicisti somari e prepotenti. Fellini fece questo film molti decenni prima che la stessa amara esperienza capitasse al più celebre direttore d ‘orchestra italiano, Riccardo Muti, costretto a fuggire dall’Opera di Roma per non subire più le angherie di musicisti intoccabili e dei loro sindacati sfascisti che dentro quel teatro fanno da padroni. Una vergogna nazionale, anzi una vergogna esemplare.

Visibilità ottima

Visibilità ottima

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Era il 1994 quando il Corriere della Sera salottiero e la Cgil barricadiera lanciarono tenendosi a braccetto l’assalto al neopremier e astro nascente della politica Silvio Berlusconi, da pochi mesi insediato a Palazzo Chigi. Il famoso avviso di garanzia recapitato via stampa al G8 di Napoli e lo sciopero generale contro le riforme di lavoro e pensioni furono un uno-due micidiale che costrinse il centrodestra a mollare il governo in mano a un tecnico, Dini, e alla sinistra più retriva. Sono passati vent’anni e la storia si ripete.

In settimana è partito l’affondo del Corriere contro il neopremier, ieri la Camusso ha chiuso il cerchio minacciando, sulla riforma del lavoro targata Renzi, lo sciopero generale. Anche il tintinnio di manette c’è, più ovattato rispetto al ’94, ma c’è. E pure i vescovi non stanno alla finestra. Del resto quando mai lo sono stati? Basti ricordare che il governo Monti nacque in un convento e il suo partito in una sacrestia. Tutto lecito, per carità. Sacra è la libertà di opinione e di informazione, legittima è la protesta sindacale, liberi i giudici di indagare e i preti di pregare che le cose vadano secondo i piani del loro personalissimo Dio. Ma vogliamo mettere almeno sullo stesso piano la libertà dei governi di governare e delle maggioranze di legiferare? Già i politici ci costano un occhio della testa, se poi li costringiamo a non far niente perché a decidere devono essere altri, be’ almeno non lamentiamoci poi dell’inutilità della casta.

Sulla riforma del lavoro si sono formate maggioranze strane. Berlusconi la appoggia, coerente con se stesso e i principi liberali del suo partito. Alleati con la Cgil ci sono mezzo Pd parlamentare (quello della Bindi e di Bersani), Vendola e l’immancabile Grillo, quello che doveva cambiare tutto e che è invece diventato il più feroce dei conservatori. Dentro Forza Italia c’è qualche maldipancia a dare un aiuto a Renzi anche su questo tema. Raffaele Fitto, per esempio, invoca una «opposizione visibile». Dico io, quale occasione migliore per essere visibili che votare questa legge e vendicarsi del ’94, dimostrando a Corriere, Cgil, magistrati e vescovi quanto miopi furono. È la sinistra che con Renzi, sui temi impresa e lavoro, viene sulle posizioni di Forza Italia, non viceversa. Se saprà stare unito, prevedo visibilità ottima, per il centrodestra.

Per sei italiani su dieci il commercio è un male

Per sei italiani su dieci il commercio è un male

Danilo Taino – Corriere della Sera

C’è un recente sondaggio del centro di analisi americano Pew Research che dobbiamo sperare sia sbagliato. Parla di commercio internazionale e di investimenti tra un Paese e l’altro. E dice che il 59% degli italiani ritiene che il commercio distrugga posti di lavoro. Scioccante: 1’Italia è il Paese avanzato che è grazie alla sua apertura al mondo, all’industria nata sulle esportazioni, al miracolo economico emerso dalla guerra rinnegando l’autarchia. A disorientare ancora di più è il fatto che un’opinione simile sia espressa anche dal 50% degli americani, dal 49% dei francesi, dal 38% dei giapponesi. Che gli scambi globali aumentino l’occupazione lo pensa solo il 13% degli italiani; in America il 20%, in Francia il 24%, in Giappone il 15%.

Se si escludono questi quattro Paesi – che comunque pesano per oltre il 20% del commercio mondiale di merci e servizi – l’analisi di Pew in altri 40 Paesi indica che solo il 19% crede che il commercio distrugge posti di lavoro. Il 52% dei Paesi emergenti pensa anzi che li crei e la quota sale al 66% nei Paesi più poveri, in via di sviluppo. Quella parte di mondo – in genere chiamata Occidente (più il Giappone membro onorario) – che si immagina essere il faro dell’economia di mercato, aperta, senza barriere ha in realtà le opinioni pubbliche più scettiche – se non più contrarie – su un pilastro storico del capitalismo. A pensare che le locomotive dello sviluppo e della libertà di commercio, e in fondo della globalizzazione, non siano più i Paesi occidentali ma quelli asiatici e africani non si fa peccato, probabilmente ci si avvicina alla realtà. La conferma sta nelle opinioni espresse sugli investimenti esteri, cioè su quella rete di relazioni commerciali e produttive che caratterízza l’econornia moderna. Che un’impresa estera ne compri una locale è negativo per il 73% degli italiani (positivo per il 23%), per il 79% dei tedeschi (19%), per il 67% degli americani (28%). In media, un’acquisizione all’estero è considerata positiva dal 31% dei cittadini nei Paesi avanzati, dal 44% in quelli emergenti, dal 57% nei Paesi invia di sviluppo.

Queste percentuali non sono solo una curiosità. Hanno conseguenze politiche. Ad esempio sul negoziato transatlantico Ttip che Stati Uniti ed Europa stanno discutendo proprio per liberalizzare totalmente commerci e investimenti reciproci. Se Pew Research non ha sbagliato, firmare l’accordo tra Washington e Bruxelles sarà complicato.

La pochezza dei nostri poteri forti

La pochezza dei nostri poteri forti

Gaetano Pedullà – La Notizia

È nato un nuovo amore. E pazienza per chi è rimasto escluso, che ora schiuma di gelosia. Renzi e Marchionne, invaghiti a New York, si sono scambiati l’anello di fidanzamento. Il nostro premier ha reso omaggio alla Fca, nuovo nome di una Fiat scappata dall’Italia senza la benché minima resistenza del governo. E il top manager ha promesso al Presidente del Consiglio il suo appoggio nel cammino delle riforme. Una brutta notizia per De Bortoli, il direttore in uscita dal Corsera, che tre giorni fa aveva bombardato l’inquilino di Palazzo Chigi proprio dalle pagine del giornale di cui Marchionne è il primo azionista. Guerre di potere, dunque, ma quando parliamo dei poteri italiani dobbiamo subito pensare più alle loro debolezze che a una invisibile forza. Così Marchionne e Renzi, mano nella mano, hanno fatto scattare Della Valle, da tempo nemico giurato di quella Fiat che investendo a sorpresa poche decine di milioni gli ha sfilato da sotto il naso proprio il Corriere. Uno scherzetto che gli sta facendo perdere un mucchio di soldi e che adesso lo mette pure in conflitto con l’ex sindaco (e amico) della città in cui gioca la sua Fiorentina.

Cosa c’entra in tutto questo l’Italia? Nulla. Ma per i nostri poteri deboli il Paese è solo un campo di gioco, dove tutto può essere sacrificato ai loro interessi. Se poi ci sono in ballo riforme delicatissime e irrinunciabili come quella sul lavoro, a Lor signori poco importa. E questo è scandaloso. Perché rivela la pochezza della nostra classe dirigente. Ma anche il cinismo con cui giocano sulle sorti dello Stato. Industriali che controllano giornali, che condizionano partiti, che sussurrando ora alle maggioranze ora alle opposizioni hanno pesato nel naufragio del Titanic Italia più dei vituperati partiti. E ancora parlano.

Che cosa insegna la lezione americana

Che cosa insegna la lezione americana

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Vista dal quartier generale di Auburn Hills, dove la Fca ha recuperato tutta la produzione e l’occupazione in un primo tempo perdute da una Chrysler data per spacciata, la guerra di religione italiana sull’articolo 18 appare ancor più “lunare” di quanto già non appaia a casa nostra nel suo angusto recinto culturale tutto novecentesco. Matteo Renzi e Sergio Marchionne hanno confermato una stagione di consonanza: al premier interessa creare lavoro e guarda a un Paese con un tasso di disoccupazione del 6,1% (da noi è il doppio); al supermanager italo-canadese interessa una chiarezza di strategia e di scelte di sistema che il giovane primo ministro italiano sembra garantirgli. In comune – parole di Marchionne – hanno il coraggio.

È il giorno dell’orgoglio esibito da Oltreoceano. È auspicabile che sia anche quello della consapevolezza. Si comparano grandezze omogenee o almeno commensurabili, per cui può sembrare ingenuo o velleitario accostare la situazione dell’Italia e quella degli Stati Uniti. Ma non lo è quando nelle stesse ore si deve dare conto di un crollo della fiducia delle imprese in ogni settore nel paese europeo e del boom del Pil Oltreoceano. E quand’anche si comparassero due grandezze statisticamente più accostabili, come sono ad esempio l’Europa e gli Usa, le conclusioni non sarebbero molto diverse. Purtroppo.

Questi due dati, pur se parziali e abbinati da un capriccio di calendario, aiutano a fissare, in modo non fallace, il risultato di culture, di atteggiamenti singoli e collettivi, di modelli di sviluppo, di strategie per accrescere e tutelare il capitale umano. E per queste vie rappresentano le scelte per creare fiducia, per investire, per indicare direttrici di sviluppo e di nuova modernità, magari attenta alla sostenibilità dello sviluppo e a una gestione meno selvaggia della globalizzazione. Non si può fare degli italiani altrettanti americani (o tedeschi), ma si può prendere atto delle lezioni che le scelte di quei Paesi offrono a chi le osservi senza pregiudizi. E ha fatto bene Renzi a dire che cambierebbe con gli Usa il modello di istruzione e trasferimento tecnologico ma non quello di welfare. Ma l’Italia non è ancora in grado di sbloccarsi e di usare al meglio il potenziale delle sue energie e risorse. Che la fiducia sia in caduta libera è dimostrato anche dal crollo dei consumi – per nulla scalfiti della pioggia degli 80 euro – dal gorgo della deflazione, dal crollo della produzione e dal primo, drammatico, scricchiolio anche per l’export, in flessione in vari settori dopo anni di crescita continua, unico antidoto alla gelata della domanda interna di un’Italia paralizzata e impaurita del suo stesso futuro. Dagli Usa arriva una lezione su come siano cruciali l’industria, l’innovazione e la flessibilità per ricostruire la fiducia di un intero Paese.

La nuova guerra di religione sul tema sensibile del lavoro che si sta combattendo per l’ennesima volta nel nostro Paese va nella direzione contraria alla fiducia. Se ne parla poco, ma anche negli States esiste in linea teorica il reintegro: ma non lo impone quasi mai il giudice e, soprattutto, non lo considera conveniente il lavoratore che, in genere, monetizza un indennizzo e cerca altre opportunità altrove. Perché lì il mercato – funzionante – lo consente. Ed è questa la vera posta in gioco: creare un mercato del lavoro degno di questo nome in cui la gran parte delle assunzioni siano affidate a contratti a tempo indeterminato flessibile. Superando una concezione assistenziale del welfare, degna più di sudditi che di cittadini-lavoratori consapevoli. E archiviando la stagione del dualismo squilibrato tra gli insider iperprotetti e gli outsider iperflessibili. È un fatto di equità e di efficienza.

Significa una rete di agenzie per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (pubbliche e private in rapporto di sussidiarietà); risorse per gestire formazione per migliorare i curricula di chi perde l’impiego; risorse per garantire un forma di ammortizzatore sociale universale per chi perda il lavoro e si impegni a cercarne un altro. Significa superare le lacune di un federalismo sbilenco che ha destinato alle Regioni la creazione delle agenzie per l’impiego (con drammatici divari territoriali di efficienza) e il tema della formazione, in genere slegato rispetto alle reali esigenze delle imprese che dovrebbero assumere.

Si tratta di un impianto riformista – e la delega in discussione al Senato sembra recepirne l’ambizione, anche se con formulazioni ancora ampie e ambigue – ma ha bisogno di una dote ingente di risorse per funzionare davvero. Invece che dibattere tra i guelfi del sì-articolo 18 e i ghibellini del no-articolo 18 alla ricerca di uno “scambio” pasticciato tra tutele crescenti che abbiano prima o poi anche la “reintegra” sarebbe bene organizzare uno “scambio” tra semplificazione delle regole e dotazione delle risorse per le politiche attive. Anche perché si rischia l’eterogenesi dei fini: una riforma nata per togliere il reintegro per il 5% delle imprese italiane, quelle sopra i 15 addetti, rischia di introdurlo (dopo 5, 7 o 10 anni) per il 100% delle imprese italiane. In sostanza: si estenderebbe invece che ridursi.

La politica attiva è e resta il tema vero per il legislatore. Per le parti sociali, che hanno una storia importante e unica in Italia, l’impegno dovrebbe diventare invece quello di creare e distribuire la produttività. Rimasta finora negletta in questa Italia coperta dalle coltri delle polemiche sui diritti che ha reso impossibile una discussione serena su come creare ricchezza e come allocare gli investimenti. È questa la nuova frontiera di relazioni industriali avanzate, la vera sfida per imprese e sindacati. Negli Usa lo hanno capito. A un passo dal baratro. E si sono salvati. Non è il caso di tenerne conto?