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Qualcosa è cambiato

Qualcosa è cambiato

Luca Ricolfi – La Stampa

Nell’ultima settimana qualcosa è cambiato. E’ cambiata la situazione, perché tutti gli organismi internazionali e i centri studi hanno smesso di scommettere sulla ripresa italiana: il 2014 sarà ancora un anno di recessione, e il 2015 chissà. Ma è cambiata anche la risposta della politica, almeno sul versante governativo: Matteo Renzi ha (finalmente) deciso di dare la priorità che meritano alle riforme economico-sociali, e in particolare al Jobs Act. Questa svolta, non ancora evidente nel discorso di martedì in Parlamento, troppo avaro di impegni precisi, è diventata invece chiarissima nei giorni successivi, con le dichiarazioni sull’articolo 18 e con il video-messaggio di venerdì, in cui Renzi ha attaccato frontalmente i sindacati, accusandoli di aver sempre privilegiato i lavoratori garantiti e trascurato gli occupati precari e chi un lavoro non ce l’ha.

Renzi ha ragioni da vendere, perché la divisione fra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, garantiti e non garantiti, insider e outsider, è effettivamente uno dei nodi fondamentali dell’Italia, se non il nodo fondamentale. E il fatto che sindacalisti, politici e osservatori impegnati gli oppongano, nel 2014, i medesimi argomenti di 20 o 30 anni fa, non fa che confermare le buone ragioni di Renzi. E tuttavia… Per vincere una battaglia non basta avere sostanzialmente ragione, o che i propri avversari non dispongano di soluzioni praticabili. Occorre anche che le proprie soluzioni siano tali. In poche parole: che funzionino. Per questo penso che quella che si annuncia sembrerà (ai mass media) una battaglia fra «renzismo» e «camussismo», ma sarà invece (per l’Italia) una partita, dagli esiti imprevedibili, fra due renzismi entrambi possibili.

Il primo renzismo possibile è quello «di tipo Craxi». In questo scenario Renzi abolisce l’articolo 18 per i neo-assunti (come Craxi aveva fatto con la scala mobile), introduce il contratto a tutela crescente, riforma gli ammortizzatori sociali estendendoli a tutti gli occupati e rendendoli più severi (corsi di formazione, obbligo di accettare le offerte di lavoro). In poche parole: modernizza il mercato del lavoro. Se Renzi fa solo o principalmente questo (che comunque non è poco) è possibile che l’occupazione non riparta, che l’Italia continui ad essere uno dei Paesi Ocse con meno occasioni di lavoro, e che fra qualche anno ci tocchi sentir dire che «aveva ragione la Camusso, togliere l’articolo 18 non crea nuovi posti di lavoro».

C’è però anche un secondo renzismo possibile, chiamiamolo «di tipo Blair» giusto per dargli un nome. Il suo punto di partenza è la constatazione che le imprese, oltre al problema di un mercato del lavoro rigido, di una burocrazia asfissiante, di una giustizia civile lentissima e inaffidabile, hanno anche un serissimo problema fiscale: il costo aziendale di un’ora di lavoro è eccessivo, e la tassazione sul profitto commerciale (il cosiddetto Ttr) non ha eguali in nessuno dei 34 Paesi Ocse. Detto altrimenti: se le imprese non assumono non è solo, o principalmente, perché poi non possono licenziare, ma perché non hanno margini sufficienti. Questo significa che, per creare occupazione, occorre anche allentare la morsa fiscale sui produttori, il che costa molto in termini di risorse, e alla fine fa sempre arrabbiare qualcuno: se finanzi gli sgravi aumentando il debito pubblico si arrabbiano l’Europa e i mercati finanziari, se li finanzi tagliando la spesa pubblica si arrabbiano la Camusso e i sindacati.

Quale renzismo prevarrà, ammesso che la sinistra Pd e i sindacati non ci rispediscano subito al voto? Io tendo a pensare che Renzi non disdegni il renzismo di tipo Blair, ma che alla fine sarà costretto ad adottare quello di tipo Craxi. E la ragione è molto semplice. Ammettiamo per un momento che Renzi, che finora si è preoccupato soprattutto dei garantiti (bonus di 80 euro), e anche per questo ha goduto della benevolenza dei sindacati, abbia deciso finalmente di occuparsi di chi un lavoro non ce l’ha, giovani e donne innanzitutto. Ammettiamo che sia persuaso che ridurre i costi delle imprese sia una precondizione per metterle in grado di assumere. Ammettiamo che sia convinto che nella Pubblica amministrazione ci sia «grasso che cola», e che sia da lì che debbano provenire le risorse per riformare gli ammortizzatori sociali e ridurre il costo del lavoro. Anche assumendo tutto ciò, ossia una ferrea volontà di creare lavoro, resterebbe un problema politico enorme: sconfiggere la Cgil in una battaglia campale sull’articolo 18 è più facile, molto più facile, che tagliare 15 o 20 miliardi di sprechi nella Pubblica amministrazione. Nel primo caso (abolizione articolo 18), Renzi non avrebbe contro né i garantiti (che resterebbero tali, perché l’articolo 18 verrebbe abolito solo per i neo-assunti), né gli esclusi, la cui prima preoccupazione è quella di trovare un lavoro, ma solo i settori più politicizzati e conservatori della società italiana. Nel secondo caso (tagli di spesa pubblica), invece, Renzi avrebbe contro un po’ tutti: dipendenti pubblici, sindaci, governatori, percettori di prebende e sussidi, lobby legate alle commesse pubbliche. Insomma, vincere una battaglia ideologica è più facile che battere una rete di interessi. Il renzismo del primo tipo (alla Craxi) è più facile di quello del secondo (alla Blair).

Può darsi che, come il solito, io sia troppo pessimista. Ma ho l’impressione che, incassato il sostegno dei lavoratori dipendenti e di tanti elettori delusi da Berlusconi, a Renzi manchi ancora un tassello fondamentale: convincere gli uomini e le donne che stanno fuori o ai margini del mercato del lavoro che la sua battaglia è anche la loro.

“Tutto sul conto corrente”, con la sfiducia boom di risparmi

“Tutto sul conto corrente”, con la sfiducia boom di risparmi

Giuseppe Bottero – La Stampa

Paradossi della recessione: il denaro è poco e gli italiani che temono di impoverirsi si tengono sempre più stretti i loro risparmi. Risultato: i soldi depositati in banca lievitano e i consumi crollano. Dall’inizio della crisi la liquidità delle famiglie è cresciuta di 234 miliardi arrivando – nel marzo di quest’anno – a 1209 miliardi di euro dai 975 del 2007. È il trionfo (amaro) delle formiche, spiega un’analisi del Censis: i risparmiatori ormai sono l’azienda più liquida d’Italia.

È l’effetto della paura: dal secondo trimestre del 2012, infatti, si è registrato una inversione di tendenza nella creazione di risparmi, che dopo anni hanno ripreso un trend crescente, passando da 20,1 miliardi a 26 miliardi di euro nel primo trimestre del 2014, con un incremento del 26,7% in termini reali. La propensione al risparmio è salita dal 7,8% al 10%, pure a fronte di una riduzione, nello stesso periodo, dell’1,2% del reddito disponibile e nonostante la bassa inflazione abbia attenuato la caduta del potere d’acquisto.

Meno redditi, meno investimenti: il trend fotografato dal Censis allontana la data del rilancio. I soldi servono a fronteggiare difficoltà inattese e sentirsi tranquilli, ma il timore di cadere, dicono i ricercatori, «rischia di diventare paranoia». Il 33% degli italiani teme di diventare povero, e solo il 30% sente di avere le spalle coperte dal sistema di welfare, mentre la percentuale sale al 58% in Spagna, 61% nel Regno Unito, 73% in Germania e 74% in Francia. In un contesto cosi difficile, con investimenti e occupazione che non ripartono, gli italiani pensano sia essenziale proteggersi in caso sopravvenga una malattia, la perdita del lavoro o semplicemente un imprevisto. Il 44% risparmia per far fronte ai rischi sociali, di salute o di lavoro, il 36% perché è il solo modo per sentirsi sicuro, il 28% per garantirsi una vecchiaia serena.

La crisi di fiducia – ragionano dal Censis – spinge a usare i soldi a scopo precauzionale, cosi vince la difesa dalle insidie inattese, piuttosto che lo slancio verso l’investimento che rende nel tempo o l’immissione nel circuito virtuoso dei consumi. Avere liquidità disponibile ha continuato ad essere la scelta primaria di tutti, anche di chi, a caccia di buoni rendimenti, è tornato progressivamente a mettere soldi nel risparmio gestito e nelle azioni, dopo il crollo degli interessi sui titoli del debito pubblico. Le consistenze delle quote dei fondi comuni hanno ricominciato ad aumentare dal secondo trimestre del 2012: +82 miliardi di euro al marzo 2014, con una crescita in termini reali del 31%. Le azioni, invece, sono ripartite un anno dopo, dal secondo trimestre del 2013: +140 miliardi di euro al marzo 2014, con una crescita del 17%.

Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Paolo Russo – La Stampa

Il caro-casa non conosce stagioni. Finito con l’estate il balletto sulla Tasi, ecco con l’autunno arrivare la stangatina sull’immondizia. Che secondo la Uil politiche territoriali, che ha elaborato per La Stampa i dati sulla tassa rifiuti, sommata proprio alla Tasi e alle addizionali comunali Irpef – ovunque in salita – si sarebbe già portata via, a chi li ha presi, gli 80 euro messi dal Governo in busta paga. Presentata sotto la nuova sigla Tari, la tassa sull’immondizia nel 2014 continua infatti a lievitare in larga parte d’Italia, nonostante già lo scorso anno siano stati registrati veri e propri maxi-aumenti.

Le rilevazioni della Uil dicono che la tassa rifiuti scenderà di poco quest’anno a Cagliari (-2,9%) e Napoli (-2,8), rimarrà sostanzialmente stabile a Milano e Venezia, ma è ancora una volta in salita a Roma (+3,8%), Torino (+8,8) Genova (8,2), Trieste (+16,3), Bologna (11,1) e Alessandria (+3,3). In valori assoluti l’aumento maggiore sarà pagato da chi abita a Trieste, dove per una famiglia con 4 componenti che abita in un appartamento di 80 metri quadri, quest’anno si pagheranno oltre 44 euro in più, che portano l’assegno da versare per lo smaltimento dei rifiuti alla bella cifra di 318 euro, mentre a Genova la stessa famiglia pagherà 24 euro di sovrapprezzo arrivare a un totale di 321, a Bologna 22 euro ma con un esborso complessivo di soli 221 euro, mentre a Torino per i rifiuti se ne andranno quasi 20 euro in più, per un totale di 245. Pur con un aumento contenuto a poco meno di 13 euro, tra le dieci città esaminate dall’indagine è Alessandria a detenere il record del caro-immondizia, con un versamento che si attesta addirittura oltre i quattrocento euro (sempre per la famiglia di riferimento considerata dai tecnici della Uil). Questo stando alle medie, ma la tassa varierà parecchio in base al principio «più inquini e più paghi», che in molte delibere comunali si traduce in prelievo maggiore per chi ha attività che producono molti rifiuti, tipo ristoranti e pizzerie, mentre in alcune città, come Torino, si è scelto di fare un po’ di sconto a chi fa la differenziata.

Quasi ovunque per la Tari si è versato un acconto tra giugno e luglio, che spesso non conteneva gli aumenti deliberati in queste settimane e che renderanno quindi più salato il saldo, da versare tra ottobre e dicembre a seconda del Comune. Se confrontato con il versamento dello scorso anno quello della Tari 2014 sembrerà tuttavia meno salato ai più. Non fatevi ingannare, è solo un’illusione. Lo scorso anno infatti la tassa sui rifiuti, allora battezzata Tares, comprendeva anche un sovrapprezzo di 30 centesimi a metro quadro, che non andava a finanziare lo smaltimento dei rifiuti ma quei servizi indivisibili per i quali ora paghiamo la Tasi. In pratica quei trenta centesimi li stiamo pagando da un’altra parte.

Per capire quanto i Comuni stiano aumentando il prelievo, per un servizio di smaltimento dei rifiuti che in tante città lascia a desiderare, il confronto più corretto andrebbe fatto con il 2012, quando lo scioglilingua fiscale aveva deciso di battezzare in due modi diversi (Tarsu o Tia la tassa sull’immondizia), ma senza comprendere nel pacchetto di quella imposta una quota per pagare gli altri servizi resi dai Comuni ai loro cittadini e, soprattutto, senza il vincolo, introdotto dalla legge soltanto in seguito, di coprire per intero il costo dello smaltimento rifiuti: il dettaglio che più di ogni altro rende salato l’appuntamento con la Tasi. Ecco allora la tassa lievitare in soli due anni del 98% a Cagliari (si paga insomma quasi il doppio), del 50% a Genova, del 27,2 a Milano e del 13,9 a Torino. A Roma l’aumento è stato contenuto al 3,8%. Ma quella della Capitale è tutta un’altra storia, visto che l’Ama, l’azienda partecipata che dovrebbe tenere pulita la città, fattura servizi per un valore complessivo di 752 milioni ma poi incassa più di un miliardo, per coprire i costi di un carrozzone che fino ad oggi ha prodotto più dirigenti ben pagati che pulizia nelle strade.

Il colpo (quasi) a vuoto della Bce

Il colpo (quasi) a vuoto della Bce

Francesco Manacorda – La Stampa

Il bazooka anticrisi di Mario Draghi ha sparato, ma il primo colpo è meno forte di quel che ci si aspettasse: le banche dell’Eurozona hanno chiesto alla Bce 83 miliardi di crediti a tasso agevolato contro una previsione di circa il doppio. E soprattutto il bersaglio al quale il bazooka mira – fuor di metafora i finanziamenti che dovrebbero arrivare specie alle piccole e medie imprese – rischia, almeno in Italia, di non essere colpito. In una situazione in cui l’offerta di credito da parte delle banche si concentra su aziende in salute che hanno già abbondante liquidità, la domanda di finanziamenti arriva invece da chi spesso è fuori dai parametri per ottenerli e i nuovi investimenti latitano, non sarà facile per il nostro sistema cambiare marcia. Anche con l’aiuto del piano Tltro – così si chiama in gergo – di Francoforte.

Se oggi si guarda l’Italia con gli occhi di un banchiere il panorama è questo: un’impresa su quattro è in una situazione debitoria che le banche chiamano «deteriorata» ed è difficile, se non impossibile, farle credito aggiuntivo. Un’altra impresa su quattro è in ottime condizioni: esporta su mercati meno depressi del nostro, incassa e guadagna. È in grado di finanziare da sola il suo sviluppo e spesso rimanda a casa quei banchieri che si affollano davanti alla sua porta per farle credito. Restano altre due imprese, che rappresentano la media del sistema: magari per un periodo vanno bene e poi rallentano, magari ottengono una commessa importante che le aiuta a crescere, magari invece vedono il loro mercato di riferimento prosciugarsi. È con loro che i banchieri devono esercitare al massimo grado la loro arte, distinguendo chi merita credito e chi no, rispettando allo stesso tempo regole severe.

Se si guarda la stessa Italia con gli occhi di un imprenditore si vede un Paese dove è difficile prosperare e ancora più difficile investire. Non solo per i mali che ormai conosciamo a memoria – dall’incertezza del diritto al peso della burocrazia – ma anche perché è un Paese ripiegato su se stesso. Se si pensa di aprire un negozio dove saranno i clienti? Se si vuole costruire un palazzo chi comprerà gli appartamenti? Il 2014 è un altro anno non solo perso in termini di crescita, ma addirittura in retromarcia. Per il 2015 le prospettive di ripresa sono tiepide. L’effetto sui consumi degli 80 euro in busta paga per ora non si vede e le incertezze sul fronte fiscale non incoraggiano certo a spendere. Sarà scorretto dirlo, ma anche il divieto di pagamenti in contanti sopra i mille euro sta probabilmente dando un colpo ai consumi.

In queste condizioni è difficile che agli imprenditori basti avere denaro meno caro per decidere di investire. Ed è impossibile che le banche usino i finanziamenti della Bce – seppur praticamente gratuiti – per concedere crediti a chi non abbia un piano di sviluppo credibile. Federico Ghizzoni, il capo dell’Unicredit che è stata la banca italiana a chiedere la somma più alta di fondi del Tltro, sta girando da settimane a spiegare ai suoi uomini e ai suoi clienti le opportunità di fare e avere credito a basso costo. Ma anche lui ha dovuto rilevare che in Italia «gli investimenti industriali sono pochi». Altri banchieri, più cinici o più rassegnati, sono convinti che se non cambierà il clima la cosa più facile sarà prendere i fondi della Bce e investirli in titoli di Stato. Del resto, nonostante il piano di Francoforte sia mirato al finanziamento delle imprese non ci sono sanzioni per quelle banche che si tirano indietro: semplicemente dovranno restituire due anni prima, cioè entro settembre 2016, i soldi presi dalla Bce.

Per ripartire i soldi facili da soli non sono sufficienti. Serve anche una ripartenza dei consumi interni; serve una fiducia che si costruisce con fatica e si disperde con facilità; servono ovviamente le riforme che agevolino investimenti, anche se gli effetti di queste riforme non possono essere immediati. Draghi l’ha chiarito anche questa estate, annunciando passi aggiuntivi e non convenzionali di politica monetaria, quando ha chiesto ai governi di prendersi le proprie responsabilità sulle riforme. È lui, insomma, il primo a sapere che il bazooka da solo non basta.

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Come un fiume carsico, di tanto in tanto nell’inconcludente dibattito sulle riforme del mercato del lavoro è emerso in questi anni il termine “flexicurity”, associato al cosiddetto modello danese. In realtà, è stato coniato da un sociologo olandese, Hans Adriaansens, e sperimentato in Danimarca e nei Paesi Bassi negli anni Novanta, quelli dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio Wto, dell’euforia per la globalizzazione e della spinta delle imprese a liberalizzare l’occupazione. Addirittura, l’Unione europea lo adottò come modello di riferimento per eventuali intenti di riforma negli accordi di Lisbona del 2000, ma fu allegramente ignorato da molti Paesi, Italia in testa. L’idea della “flexicurity”, crasi dei termini inglesi “flessibilità” e “sicurezza”, era che per venire incontro alle esigenze delle imprese di licenziamenti più facili, bisognasse trovare il modo di conciliarli con un adeguato paracadute per i lavoratori.

E qui si pone il primo, serio problema di un confronto italiano con l’esempio scandinavo: è un sistema costosissimo. In Danimarca il sussidio di disoccupazione è universale: bisogna sottoscrivere un fondo, la A-Kasse, gestito dai sindacati e finanziato in parte dai lavoratori stessi (il contributo ammonta a circa 500 euro) ma garantito nella gran parte dallo Stato. Il risultato è che copre 1’80% dei lavoratori; e in ogni caso, anche chi non ha sottoscritto l’assicurazione, ha diritto ad un’indennità sociale comunale. Anni fa gli economisti de Lavoce.info fecero una stima sul costo di un’indennità di disoccupazione universale in Italia: circa 12-13 miliardi all’anno. E chissà ora, con i tassi di disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i giovani. La flessibilità significava invece garantire al datore di lavoro la possibilità di licenziare senza particolari ostacoli, con il solo obbligo di un minimo di preavviso che varia da uno a sei mesi, a seconda dell’anzianità di impiego. Il lavoratore può addirittura lasciare il suo lavoro con soli otto giorni di preavviso. E in virtù della conciliazione riuscita tra una maggiore flessibilità in uscita e un paracadute generoso, in Danimarca il 30% degli occupati cambia posto di lavoro e in media non restano per più di otto anni nella stessa azienda.

L’altro aspetto problematico, nel confronto con i Paesi Bassi o con gli altri Paesi che hanno adottato la “flexicurity”, è il reimpiego. Presuppone un sistema di politiche attive efficientissimo, cioè il contrario dell’esempio italiano. La Danimarca spende circa un punto e mezzo di Pil per fare in modo che i disoccupati trovino un nuovo lavoro nel minor tempo possibile. Il collocamento è affidato ai job center comunali, ma a favorire l’incontro tra domanda e offerta concorrono anche accordi tra questi modernissimi centri di reimpiego e sindacati, imprese, istituti di ricerca, scuole o onlus. Gli uffici di collocamento aiutano anzitutto i disoccupati a formulare un curriculum decente, entro tre settimane dal licenziamento, e cercano di capirne le potenzialità, ma sono previsti anche programmi di reimpiego o aggiornamenti. I job center, tuttavia, attuano anche un monitoraggio strettissimo degli sforzi dei senza lavoro e prevedono addirittura corsi che insegnano a cercare un’occupazione. E se nei nordici uffici di collocamento si rendono conto che il disoccupato compie sforzi troppo deboli per trovare un nuovo impiego, le conseguenze sono pesanti: la perdita dell’assegno di disoccupazione.

Occupazione, tante fratture da risanare

Occupazione, tante fratture da risanare

Walter Passerini – La Stampa

Beato il paese che non ha bisogno di eroi, di totem o di scalpi, si può dire parafrasando Bertolt Brecht, perché altrimenti saremmo sempre in guerra, che ammette solo vincitori e vinti. Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 sta incendiando la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro.

C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior Paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne. Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una piece da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio.

La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, di fronte al testo giunto in Commissione al Senato, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che lascia spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che la sinteticità della norma producesse solo lavoro per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi, l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un «matrimonio indissolubile». Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. È questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un aguzzino né una vendetta sociale, ma può essere una tappa per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Occupazione, il governo non aspetti

Occupazione, il governo non aspetti

Luca Ricolfi – La Stampa

Dopo tutto anche Renzi è un politico. Per questo non mi ha sorpreso che il suo discorso di ieri in Parlamento fosse alquanto retorico, e piuttosto avaro di impegni precisi. Due passaggi, tuttavia, mi sono sembrati informativi, sia pure in senso negativo. In entrambi, infatti, pur non dicendo che cosa farà, il premier ha detto chiaramente che cosa non farà. È già qualcosa.

Il primo passaggio è quello in cui Renzi respinge la critica di aver sbagliato i tempi, dando la precedenza alle riforme delle regole (legge elettorale e Costituzione) con conseguente ritardo delle riforme economico-sociali. A questa critica Renzi in sostanza risponde che le riforme vanno fatte tutte insieme (come se la politica non decidesse ogni giorno che cosa rinviare e che cosa no), e che l’importante è aver compiuto i primi passi, disegnando la cornice del suo «vasto programma», per dirla con De Gaulle. E’ la conferma, purtroppo, che tuttora il governo non pensa che la creazione di nuovi posti di lavoro sia un problema di gran lunga prioritario rispetto a tutti gli altri. Ce ne eravamo accorti a maggio (altrimenti i 10 miliardi del bonus Irpef non sarebbero finiti a chi un lavoro già ce l’ha, e il Jobs Act non sarebbe stato incanalato su un binario parlamentare lento), ma è comunque una notizia che il premier continui a pensarla come la pensava 7 mesi fa, quando aveva rinunciato a varare subito il Jobs Act. Speriamo che abbia ragione lui, e che l’Italia, nonostante sia tornata in recessione, possa ancora permettersi di aspettare tutto il tempo che i politici vorranno prendersi prima di rendere operative nuove regole del mercato del lavoro.

C’è però anche un secondo passaggio del discorso di Renzi che ci fa capire qualcosa, ed è quello in cui Renzi sbeffeggia chi propone come modello la Spagna: «Mi scappa da ridere quando sento dire che il nostro modello debba essere la Spagna, ho grande stima della Spagna, ma quando sento dire che il nostro modello dovrebbe essere un Paese che ha il doppio della disoccupazione dell’Italia mi preoccupo». Neanch’io penso che un Paese come l’Italia possa uscire dai suoi guai semplicemente imitandone un altro. E tuttavia fa una certa impressione il semplicismo con cui Renzi liquida il modello spagnolo, e gli contrappone il comportamento dell’Italia in questi anni, una difesa che a me ricorda molto quella di Tremonti e Berlusconi nel 2008-2011, quando dicevano che, a differenza di altri Paesi, l’Italia tutto sommato aveva tenuto, restava un Paese solido, eccetera eccetera.

E allora guardiamolo un po’ più da vicino questo orribile modello spagnolo. Fra il 2007 e il 2013 il Pil italiano ha perso l’8,5%, quello spagnolo il 5,9%. Nel 2014 il Pil italiano calerà ancora (dello 0,4% secondo l’Oecd), mentre quello spagnolo crescerà, come quello di quasi tutti i Paesi europei. Ma lì la disoccupazione è il doppio che da noi, obietta Renzi. Ed è qui, quando fa questo confronto, che capisco perché il nostro governo non riesce a capire il dramma dell’Italia.

Eppure Renzi dovrebbe sapere (o Padoan dovrebbe spiegargli), che il tasso di disoccupazione è un pessimo indicatore della situazione occupazionale di un Paese, e diventa del tutto fuorviante se si confrontano due Paesi con regole del mercato del lavoro profondamente diverse come l’Italia e la Spagna. Il confronto vero va fatto sul numero di occupati, non sui tassi di disoccupazione. Ebbene, nel 2013 il tasso di occupazione spagnolo, a dispetto di anni di austerity, era più alto di quello italiano, e questo nonostante in quello italiano siano inclusi tutti i lavoratori in cassa integrazione. Se poi si tiene conto del numero medio di ore lavorate e del numero di soggetti che hanno due lavori, il vantaggio occupazionale della Spagna sull’Italia si allarga ancora di più. La realtà è che, a dispetto dei rispettivi tassi di disoccupazione, c’è più lavoro in Spagna che in Italia, non solo, ma in Spagna l’occupazione sta riprendendo a salire, mentre in Italia continua a scendere, in barba alle belle parole della nostra Costituzione, secondo le quali «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Questo vuol dire che dovremmo conformarci al modello spagnolo? Certo che no, ma almeno potremmo smetterla di raccontarci fiabe autoconsolatorie, basate su confronti statistici improbabili, e cominciare a chiederci se i Paesi che hanno usato questi anni per correggere alcuni dei loro squilibri non hanno nulla da insegnarci. Temo che, se avessimo l’umiltà di guardarci allo specchio, l’insegnamento principale sarebbe questo: la differenza fra noi e gli altri quattro Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è che loro hanno attraversato una crisi profonda, cui hanno reagito e da cui stanno uscendo, mentre noi non abbiamo nemmeno provato a interrompere il nostro declino, un declino di cui l’inesorabile calo delle ore lavorate per abitante è la spia più drammatica e chiara.

È questo, forse, il nesso logico segreto fra i due punti che abbiamo voluto sottolineare del discorso di Renzi in Parlamento. La ragione per cui pensa che non esistano riforme prioritarie è la medesima per cui gli «scappa da ridere» quando qualcuno evoca il modello spagnolo. Quella ragione è, semplicemente, che anche lui, come molti suoi predecessori, pensa che la politica abbia molto tempo davanti a sé, e possa scegliere liberamente di che cosa occuparsi oggi, di che cosa domani, che cosa rinviare, che cosa far passare con un decreto, che cosa con una legge delega, che cosa ignorare. Non ha tutti i torti, perché una società in declino, specie se ancora ricca, ha margini di tolleranza per gli errori dei suoi governanti molto maggiori di una società in crisi. Per questo penso che lo sbaglio di non aver stabilito delle priorità, dando alla creazione di lavoro la precedenza assoluta che meritava, è un errore di cui la società italiana si accorgerà solo un po’ più in là. Diciamo fra 1000 giorni, forse.

Il bivio tra retorica e rinunce

Il bivio tra retorica e rinunce

Stefano Lepri – La Stampa

Con il suo pessimismo sull’economia italiana, paradossalmente l’Ocse ci aiuta. Sapere che nel 2014 resteremo ancora in recessione ci dice in primo luogo che l’urgenza delle riforme interne è assoluta, oltre a tutte le resistenze di categorie e interessi; in secondo luogo, conforta a insistere perché cambi la politica di austerità europea. A un Paese in tali condizioni non si può chiedere una ulteriore stretta di bilancio per il 2015. Sarà già gravoso rispettare il limite del 3% di deficit, come Matteo Renzi e Piercarlo Padoan si sono impegnati a fare; sarebbe inopportuno conformarsi al più rigido vincolo del «Fiscal Compact», ovvero una nuova riduzione di mezzo punto del deficit «strutturale».

Anche l’Ocse, come già il Fondo monetario internazionale, chiede una pausa nell’austerità. Non solo appoggia Mario Draghi nella sua doppia richiesta ai governi di riforme strutturali e di sostegno alla domanda dove è possibile; lo invita a condurre la Bce verso misure monetarie «più vigorose» (contro cui la Bundesbank tedesca punta i piedi). Il messaggio è che nell’area euro con tante persone ancora senza lavoro e con l’inflazione a zero misure espansive – sia da parte delle banche centrali, sia da parte dei governi – sono benvenute. Non sarebbe cosi invece secondo gli astrusi calcoli strutturali della Commissione europea, i cui attuali parametri pongono al 20% il tasso di disoccupazione «normale» in Spagna.

Per l’appunto anche il ministro dell’Economia spagnolo Luis de Guindos, conservatore gradito ad Angela Merkel, chiede «autocritica» sulle scelte europee. E dall’unico grande Paese del continente che non ha conosciuto recessione, la Polonia, un governo liberale propone un ancora più ampio piano di investimenti collettivo. La Germania è isolata; può frenare la svolta accennata dal vertice di Milano, ma è evidente al mondo che applicare le sue ricette non ha risolto la crisi. Il suo stesso tanto vantato bilancio in equilibrio si regge su un drastico taglio degli investimenti pubblici, necessari per «pensare al futuro» specie in Paesi come i nostri dove l’età media della popolazione cresce in fretta.

Nello stesso tempo, occorre convincersi che le ricette all’italiana erano fallite già da prima. La spesa pubblica in eccesso ci dette negli Anni 80 poca crescita in cambio di enormi debiti, nei primi anni Duemila nessuna crescita e nuovi debiti. Tutto il «modello Italia» risulta inadatto al mondo di oggi, per colpe nostre e non altrui. Siamo cosi malridotti che forse nemmeno un taglio massiccio alle tasse, peraltro rischiosissimo, sarebbe efficace. Non si va avanti senza riforme profonde. Però ormai la parola a forza di ripeterla non si sa più nemmeno che cosa significhi. Quali riforme? Fa solo danno l’esasperante teatrino politico sulla «sovranità» e sul «decidiamo noi, non l’Europa».

In certe versioni nord-europee «riforma» significava rassegnarsi a un tenore di vita più basso. Ma il prolungarsi della crisi spazza via queste idee. Non è oggi utile stringere la cinghia nel tentativo di vendere di più agli altri Paesi, messi male anche loro.

Servono riforme meno crude e più complicate: distribuire meglio le poche risorse che abbiamo, organizzare le istituzioni in modo più efficiente, non sprecare. A ridare alle imprese la voglia di espandere gli affari, a togliere alle famiglie la paura di spendere, può essere soltanto un Paese che funziona meglio. Il guaio è che il vantaggio di tutti richiede di intaccare privilegi, sussidi, comodità, pigrizie, di molti. Non si rimedia con la retorica; occorre invece esporre con chiarezza gli scopi per cui vale la pena di chiedere qualche rinuncia; occorre impegnarsi a tempi ed obiettivi di miglioramento.

Con questi dati il 3% è un miraggio

Con questi dati il 3% è un miraggio

Paolo Baroni – La Stampa

E dunque quest’anno l’Italia sarà l’unico dei Grandi paesi ancora in recessione. La nostra economia secondo l’Ocse calerà di un altro 0,4% contro lo 0/-0,2% delle ultime stime aggiornate. E poco importa se tutta Eurolandia sia in affanno, comprese Francia e Germania (che però al contrario di noi avranno una crescita positiva), perché mai come in questa occasione il detto “mal comune mezzo gaudio” non vale.

L’Italia da sempre, a causa dei suoi ritardi cronici, quando le economie tirano cresce in media la metà degli altri paesi, mentre quando va male il paese perde il doppio degli altri. Scontiamo le mancate riforme, è vero (pubblica amministrazione, giustizia, lavoro: il solito elenco infinito…). Ma il male non sta tutto qui. Scontiamo pure la scarsità di risorse messe a disposizione dei piani di rilancio, imposta da anni di politiche rigoriste, e anni di scelte non molto felice e soprattutto di non scelte dei governi che si sono succeduti.

Ora il calo del Pil previsto per quest’anno, come pure per il prossimo, tende a rendere sempre più precaria e complicata la situazione.Perchè è chiaro che se il -0,4% previsto per il 2014 non fa contento nessuno (anche se poco alla volta dopo le ultime revisioni una ragione ce la stavamo facendo), oggi è il misero +0,1 previsto per il 2015 che deve preoccupare.

Per due ragioni. La prima: con questi dati, ammesso che quest’anno si riesca a tenere il deficit entro il tetto del 3%, il prossimo anno sarà davvero proibitivo. A meno che non si rinunci a qualche intervento, aggravando però ancora di più la situazione economica, oppure che si riesca ad affondare ancora di più la lama sulla spesa pubblica, con tagli veri, pesanti che vanno ben oltre la semplice revisione della spesa. Seconda: scordiamoci di veder scendere la disoccupazione, che certamente quest’anno toccherà nuovi livelli record e che se va bene riuscirà ad invertire in maniera significativa il trend almeno con un anno di ritardo. Ma l’Italia, e il governo, possono permettersi di aspettare il 2016?

Un piano per salvare i rassegnati

Un piano per salvare i rassegnati

Walter Passerini – La Stampa

Negli ultimi dati Istat relativi al secondo trimestre dell’anno, un’attenta analisi può condurre a focalizzare meglio i target di una nuova strategia. Esaminando con una lente di ingrandimento alcuni particolari, si scopre, per esempio, che sullo stock dei 3,2 milioni di disoccupati, l’aumento dei disoccupati è alimentato soltanto dalle persone in cerca di lavoro da almeno 12 mesi, che nel secondo trimestre 2014 arrivano a 1 milione 952mila unità (+13,9% pari a 238.000 unità).

L’incidenza della disoccupazione di lunga durata (12 mesi o più) sale così al 62,1%, dal 55,7% del secondo trimestre 2013. Chi resta senza lavoro rischia di rimanere in un girone infernale da cui non riesce a uscire. Se poi si mettono sotto la lente gli inattivi, si scopre un esercito di rassegnati e sfiduciati. Coloro che cercano lavoro anche se non attivamente sono quasi 1,8 milioni; coloro che non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare sono 1,5 milioni. Si tratta di 3,3 milioni di individui, un numero superiore ai disoccupati ufficiali (3,2). Se ancora si vanno a vedere i motivi della mancata ricerca del lavoro, si trovano 2 milioni di individui che non cercano più il lavoro perché ritengono di non riuscire a trovarlo. È questo uno zoccolo duro di rassegnati che, sommati a disoccupati, contrattisti a termine, cassintegrati e in mobilità, finti collaboratori, part timer involontari, fotografa l’esercito della sfiducia che va riportato al lavoro.