Matteo Renzi

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele.

A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.

Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

Paolo Baroni – La Stampa

Certo l’articolo 18 e il nodo del reintegro. Il rischio di «scardinare» lo Statuto dei lavoratori contrapposto alla necessità di «aggiornarlo». Ma i punti «indigeribili» del pacchetto-Poletti per una larga fetta del sindacato, in primis la Cgil (e quindi anche per la minoranza Pd), sono molti. E sono tutti concentrati nell’articolo 4 della legge delega.

Primo scoglio, la «revisione della disciplina delle mansioni». Il governo parla di contemperare «l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento». La Cgil invece denuncia esplicitamente il rischio di demansionamento, un’operazione «inaccettabile». Per questa via, sostiene l’ex sindacalista Giorgio Airaudo oggi deputato di Sel, si cerca solo di ridurre gli stipendi. Tutte accuse che l’ex ministro Maurizio Sacconi (Ncd), uno dei registi della riforma, respinge evocando «mansioni flessibili» in relazione «ai nuovi modi di lavorare che richiedono comportamenti più duttili, autonomi e più responsabili». Mediazione possibile? Sì alla flessibilità, ma solo con l’accordo tra le parti e a salario invariato.

Altra scelta che rischia di aumentare la precarietà anziché ridurla è il comma che prevede la possibilità di estendere a tutti i settori produttivi, anche alzando la soglia massima di reddito, l’utilizzo dei voucher impiegato oggi per i lavori saltuari (stagionali, colf, baby sitter…). Anche in questo caso si paventa il rischio che, allargando le maglie, le imprese alla fine ne possano abusare. Quindi, per far passare la norma, la condizione è una sola: deve resta l’attuale soglia dei 5 mila euro di reddito.

Ancora un tabù, ancora un problema: il controllo a distanza dei lavoratori. Lo «Statuto» è nato quando Internet manco esisteva ed è chiaro che molte norme oggi risultano superate. Per questo il governo punta alla «revisione» di tutta questa distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore». Definizione forse un po’ generica, ma poi nemmeno troppo. Epperò la minoranza Pd fa muro anche su questo: «si controllino le macchine, non le persone». Per Sacconi invece, «la doverosa tutela della dignità del lavoratore», che ovviamente resta confermata in pieno, «non deve diventare motivo di inibizione per il migliore impiego delle nuove tecnologie, incluse le opportunità di telelavoro fin qui trascurate».

Quarto «scoglio», il riordino dei contratti. In seguito all’introduzione del contratto unico si punta a disboscare l’attuale selva fatta di 47 differenti modelli. La norma inserita nella delega è abbastanza chiara: parla esplicitamente di «abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato» e punta «eliminare duplicazioni» e «difficoltà interpretative e applicative». Ma anche questa formulazione, per la minoranza Pd , è troppo generica. Ma altrettanto generica però è la sua controproposta.

Infine, c’è il nodo dei soldi. Renzi punta a stanziare 2 miliardi nella prossima legge di Stabilità per estendere gli ammortizzatori sociali ai co.co.co: il sospetto di molti è che però si tratti degli stessi soldi oggi usati per la cassa in deroga e gli altri ammortizzatori. Vero? Falso? Certo è che così, alla vigilia della direzione Pd di domani e poi del confronto/scontro in Senato, la partita si complica ancor di più.

La pochezza dei nostri poteri forti

La pochezza dei nostri poteri forti

Gaetano Pedullà – La Notizia

È nato un nuovo amore. E pazienza per chi è rimasto escluso, che ora schiuma di gelosia. Renzi e Marchionne, invaghiti a New York, si sono scambiati l’anello di fidanzamento. Il nostro premier ha reso omaggio alla Fca, nuovo nome di una Fiat scappata dall’Italia senza la benché minima resistenza del governo. E il top manager ha promesso al Presidente del Consiglio il suo appoggio nel cammino delle riforme. Una brutta notizia per De Bortoli, il direttore in uscita dal Corsera, che tre giorni fa aveva bombardato l’inquilino di Palazzo Chigi proprio dalle pagine del giornale di cui Marchionne è il primo azionista. Guerre di potere, dunque, ma quando parliamo dei poteri italiani dobbiamo subito pensare più alle loro debolezze che a una invisibile forza. Così Marchionne e Renzi, mano nella mano, hanno fatto scattare Della Valle, da tempo nemico giurato di quella Fiat che investendo a sorpresa poche decine di milioni gli ha sfilato da sotto il naso proprio il Corriere. Uno scherzetto che gli sta facendo perdere un mucchio di soldi e che adesso lo mette pure in conflitto con l’ex sindaco (e amico) della città in cui gioca la sua Fiorentina.

Cosa c’entra in tutto questo l’Italia? Nulla. Ma per i nostri poteri deboli il Paese è solo un campo di gioco, dove tutto può essere sacrificato ai loro interessi. Se poi ci sono in ballo riforme delicatissime e irrinunciabili come quella sul lavoro, a Lor signori poco importa. E questo è scandaloso. Perché rivela la pochezza della nostra classe dirigente. Ma anche il cinismo con cui giocano sulle sorti dello Stato. Industriali che controllano giornali, che condizionano partiti, che sussurrando ora alle maggioranze ora alle opposizioni hanno pesato nel naufragio del Titanic Italia più dei vituperati partiti. E ancora parlano.

Che cosa insegna la lezione americana

Che cosa insegna la lezione americana

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Vista dal quartier generale di Auburn Hills, dove la Fca ha recuperato tutta la produzione e l’occupazione in un primo tempo perdute da una Chrysler data per spacciata, la guerra di religione italiana sull’articolo 18 appare ancor più “lunare” di quanto già non appaia a casa nostra nel suo angusto recinto culturale tutto novecentesco. Matteo Renzi e Sergio Marchionne hanno confermato una stagione di consonanza: al premier interessa creare lavoro e guarda a un Paese con un tasso di disoccupazione del 6,1% (da noi è il doppio); al supermanager italo-canadese interessa una chiarezza di strategia e di scelte di sistema che il giovane primo ministro italiano sembra garantirgli. In comune – parole di Marchionne – hanno il coraggio.

È il giorno dell’orgoglio esibito da Oltreoceano. È auspicabile che sia anche quello della consapevolezza. Si comparano grandezze omogenee o almeno commensurabili, per cui può sembrare ingenuo o velleitario accostare la situazione dell’Italia e quella degli Stati Uniti. Ma non lo è quando nelle stesse ore si deve dare conto di un crollo della fiducia delle imprese in ogni settore nel paese europeo e del boom del Pil Oltreoceano. E quand’anche si comparassero due grandezze statisticamente più accostabili, come sono ad esempio l’Europa e gli Usa, le conclusioni non sarebbero molto diverse. Purtroppo.

Questi due dati, pur se parziali e abbinati da un capriccio di calendario, aiutano a fissare, in modo non fallace, il risultato di culture, di atteggiamenti singoli e collettivi, di modelli di sviluppo, di strategie per accrescere e tutelare il capitale umano. E per queste vie rappresentano le scelte per creare fiducia, per investire, per indicare direttrici di sviluppo e di nuova modernità, magari attenta alla sostenibilità dello sviluppo e a una gestione meno selvaggia della globalizzazione. Non si può fare degli italiani altrettanti americani (o tedeschi), ma si può prendere atto delle lezioni che le scelte di quei Paesi offrono a chi le osservi senza pregiudizi. E ha fatto bene Renzi a dire che cambierebbe con gli Usa il modello di istruzione e trasferimento tecnologico ma non quello di welfare. Ma l’Italia non è ancora in grado di sbloccarsi e di usare al meglio il potenziale delle sue energie e risorse. Che la fiducia sia in caduta libera è dimostrato anche dal crollo dei consumi – per nulla scalfiti della pioggia degli 80 euro – dal gorgo della deflazione, dal crollo della produzione e dal primo, drammatico, scricchiolio anche per l’export, in flessione in vari settori dopo anni di crescita continua, unico antidoto alla gelata della domanda interna di un’Italia paralizzata e impaurita del suo stesso futuro. Dagli Usa arriva una lezione su come siano cruciali l’industria, l’innovazione e la flessibilità per ricostruire la fiducia di un intero Paese.

La nuova guerra di religione sul tema sensibile del lavoro che si sta combattendo per l’ennesima volta nel nostro Paese va nella direzione contraria alla fiducia. Se ne parla poco, ma anche negli States esiste in linea teorica il reintegro: ma non lo impone quasi mai il giudice e, soprattutto, non lo considera conveniente il lavoratore che, in genere, monetizza un indennizzo e cerca altre opportunità altrove. Perché lì il mercato – funzionante – lo consente. Ed è questa la vera posta in gioco: creare un mercato del lavoro degno di questo nome in cui la gran parte delle assunzioni siano affidate a contratti a tempo indeterminato flessibile. Superando una concezione assistenziale del welfare, degna più di sudditi che di cittadini-lavoratori consapevoli. E archiviando la stagione del dualismo squilibrato tra gli insider iperprotetti e gli outsider iperflessibili. È un fatto di equità e di efficienza.

Significa una rete di agenzie per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (pubbliche e private in rapporto di sussidiarietà); risorse per gestire formazione per migliorare i curricula di chi perde l’impiego; risorse per garantire un forma di ammortizzatore sociale universale per chi perda il lavoro e si impegni a cercarne un altro. Significa superare le lacune di un federalismo sbilenco che ha destinato alle Regioni la creazione delle agenzie per l’impiego (con drammatici divari territoriali di efficienza) e il tema della formazione, in genere slegato rispetto alle reali esigenze delle imprese che dovrebbero assumere.

Si tratta di un impianto riformista – e la delega in discussione al Senato sembra recepirne l’ambizione, anche se con formulazioni ancora ampie e ambigue – ma ha bisogno di una dote ingente di risorse per funzionare davvero. Invece che dibattere tra i guelfi del sì-articolo 18 e i ghibellini del no-articolo 18 alla ricerca di uno “scambio” pasticciato tra tutele crescenti che abbiano prima o poi anche la “reintegra” sarebbe bene organizzare uno “scambio” tra semplificazione delle regole e dotazione delle risorse per le politiche attive. Anche perché si rischia l’eterogenesi dei fini: una riforma nata per togliere il reintegro per il 5% delle imprese italiane, quelle sopra i 15 addetti, rischia di introdurlo (dopo 5, 7 o 10 anni) per il 100% delle imprese italiane. In sostanza: si estenderebbe invece che ridursi.

La politica attiva è e resta il tema vero per il legislatore. Per le parti sociali, che hanno una storia importante e unica in Italia, l’impegno dovrebbe diventare invece quello di creare e distribuire la produttività. Rimasta finora negletta in questa Italia coperta dalle coltri delle polemiche sui diritti che ha reso impossibile una discussione serena su come creare ricchezza e come allocare gli investimenti. È questa la nuova frontiera di relazioni industriali avanzate, la vera sfida per imprese e sindacati. Negli Usa lo hanno capito. A un passo dal baratro. E si sono salvati. Non è il caso di tenerne conto?

Esecutivo Spartacus

Esecutivo Spartacus

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Pare che nella famosa visita che Renzi ha fatto questa estate a Draghi nella sua casa di campagna in Umbria, il presidente della Bce abbia evocato la “Troika” (che poi tale non è più perché ormai ha perso per strada il Fondo monetario), descrivendone l’intervento come un aiuto di cui il primo ad avvantaggiarsi sarebbe stato il governo, e che il premier sia andato su tutte le furie, replicando con un gladiatorio “mai e poi mai, dovrete passare sul mio cadavere”. L’episodio, verosimile se non del tutto vero, aiuta, molto più di tante dietrologie correnti, a capire il dipanarsi della trama del film cui stiamo assistendo, e che potremmo titolare “Renzi contro il resto del mondo”. Specie se si tralascia per un momento il gioco più diffuso del momento, l’ esegesi del fondo di De Bortoli – in cui confluiscono troppi elementi di carattere personale perché aiuti a “leggere” i rapporti di Renzi con “i poteri”, nazionali e non – e si guarda con attenzione, invece, quanto scrive Wolfgang Munchau, che sul Financial Times è firma che riflette il pensiero dell’asse Francoforte-Berlino, molto più solida di quanto certa pubblicistica provinciale nostrana descriva.

La tesi è lapidaria: oggi per l’Europa la minaccia più grande si chiama Italia, che ha una situazione economica talmente insostenibile che se la crescita non dovesse ripartire andrà verso il default per debito eccessivo, con l’uscita dall’Eurozona e la fine dell’euro stesso. Da qui la pressione che Draghi ha esercitato, anche per conto della Merkel, su Renzi: prima con le buone (il discorso vis-à-vis), poi con le cattive (i messaggi mediatici). Naturalmente si può sostenere che trattasi di pressioni indebite – ma in questo caso si dimentica che a Draghi viene continuamente chiesto di andare oltre il confine delle sue responsabilità formali, e che comunque se siamo ancora vivi lo si deve a lui – così come si può ricorrere alla dietrologia da quattro soldi sulle sue presunte ambizioni per Palazzo Chigi (escluderei) o per il Quirinale (già più plausibile) per evocare “trame occulte”.

Sta di fatto che i “poteri vari e avariati”, da quelli un tempo forti alla magistratura, hanno sentito odor di scontro, e hanno fatto due più due: se la Bce e la Germania vogliono commissariare Renzi o addirittura farlo fuori, sarà bene schierarsi subito dalla parte del probabile vincitore. Reazione che si potrebbe velocemente archiviare come velleitaria, visto che Renzi il consenso ce l’ha e, finora, neppure il duo recessione-deflazione l’ha eroso, se non fosse che le cose stanno proprio come dice Munchau: l’economia italiana non cresce da un ventennio, e la recessione degli ultimi anni, annullando gli effetti di politiche di bilancio più rigorose di quelle di molti altri partner europei, ha determinato una crescita lenta ma irreversibile del debito pubblico; e ora, il prolungarsi della stagnazione, accompagnata da deflazione prolungata, rischia di rendere insostenibile, politicamente prima ancora che finanziariamente, il debito. In conclusione: o il governo trova la chiave della ripresa, o ci schiantiamo, e con noi l’eurosistema.

Ma qui scatta la contraddizione a cui siamo impigliati: Renzi non ha certo la responsabilità di quel disastro chiamato Seconda Repubblica, e fa bene a diffidare della classe dirigente (oltre che del ceto politico) che lo ha prodotto. Ma nello stesso tempo mostra limiti evidenti nell’affrontare i problemi del paese, o meglio nel tradurre in atti di governo – che non sono solo le leggi approvate – le buone e coraggiose intenzioni che mostra di avere. Inoltre, la scelta di affidarsi alle sue indubbie capacità mediatiche per avere un rapporto diretto con i cittadini-elettori saltando i rapporti con qualsivoglia rappresentanza degli interessi – modello Berlusconi+Marchionne” – e la strategia “tutti nemici, tranne il popolo” che ha adottato, fanno sì che scivoli con facilità nel populismo, il che non aiuta ad affrontare con la giusta ampiezza programmatica gli intricatissimi nodi del declino italiano.

Viceversa, chi imputa a Renzi di “parlare e non fare” o di essere capace solo di “rottamare e non costruire”, pur avendo non poche frecce al proprio arco, nella stragrande maggioranza dei casi non ha alcuna credibilità, avendo contribuito in modo diretto e significativo al disastro. Inoltre, chi intende mettere Renzi sul banco degli imputati non ha uno straccio di idea di come sostituirlo – né uomini né politiche all’altezza della sfida – e non vuole farsi una ragione del fatto che gli italiani indietro non vogliono più tornare, giusto o sbagliato che sia. Ecco, è questo “cane che si morde la coda” il problema del potere in Italia, oggi. Uscirne non è facile. Ma il modo sicuro per non riuscirci è far finta che le cose stiano diversamente.

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Bonifacio Borruso – Italia Oggi

Come Matteo Renzi ha annunciato di voler davvero riformare lo Statuto dei lavoratori, «per smettere di discriminare i non garanti», è scattata la corsa a usare le attività dei genitori per dimostrare l’incoerenza pratica del premier: nelle piccole aziende «renziane» non c’è tutta questa voglia di tutelare i giovani. Non c’entra qui l’inchiesta della procura di Genova che, a sei mesi dalla relazione di un perito del tribunale fallimentare, si è ricordata di indagare Tiziano Renzi, padre del segretario Pd, con l’ipotesi di bancarotta fraudolenta per un’azienda operante nel genovese: coincidenza singolare ma comunque coincidenza.
L’attacco s’è concentrato sulla tipologia dell’attività in questione nella società, la Chil, di cui peraltro Renzi è un dirigente in aspettativa, regolarizzato, si osserva, poco prima di diventare presidente della Provincia, così da trasferire l’onere dei contributi previdenziali all’ente pubblico.

Il Fatto quotidiano, domenica scorsa, ha titolato prontamente: «Tiziano Renzi, nella sua azienda tutti precari. Tranne il figlio Matteo». Davide Vecchi, l’autore dell’articolo, parla di un marchio di fabbrica, in quanto anche le due sorelle del premier, che lavorano in un’altra azienda di famiglia, la Eventi 6, sarebbero inquadrate come co.co.co., cioè come collaboratrici coordinate e continuative. Il giornalista del foglio padellarian-travaglian-gomeziano definisce ironicamente questa tipicità contrattuale come «Tiziano Act», che si contrappone, nei fatti e nel privato familiare di Renzi, al Jobs Act del premier. Un modo per dire che Renzi predica bene dal pulpito di Palazzo Chigi e razzola male negli uffici paterni di Rignano sull’Arno (Fi).

Eppure il pezzo di Vecchi cita, correttamente e nel dettaglio, che attività svolgessero e svolgano le società di Renzi senior, della mamma e delle sorelle: la diffusione di giornali, di volantini e di prodotti editoriali. Un’attività che, per definizione, deve svolgersi con contratti a termine. E infatti, come racconta il giornalista, a impegnarvisi erano soprattutto studenti universitari che arrivavano a mettere insieme 400 euro al mese. «Era faticoso perché ci svegliavamo all’alba», racconta al Fatto un ex-lavoratore Chil, dietro richiesta dell’anonimato (sic), «ma per il resto era il classico lavoro da studenti e ci ripagavamo sigarette e qualche uscita di sera». Il contratto «era atipico», insisteva l’intervistatore cercando l’indignazione postuma, e l’altro, di rimando: «Ma era regolare, cioè potevano farlo e fra l’altro devo dire che era onesto perché, oltre al fisso, ci riconosceva una percentuale, seppur minima, su ogni copia che riuscivamo a vendere».

In pratica, secondo il Fatto, babbo Renzi avrebbe dovuto assumere a tempo indeterminato torme di studenti universitari nelle città in cui lavorava. Un nuovo profilo professionale: gli strilloni-impiegati di concetto In questo, però, anche l’Editoriale Il Fatto Spa, di cui è presidente il direttore Antonio Padellaro, e nel cui consiglio di amministrazione siedono Marco Travaglio e Peter Gomez, potrebbe aprire una strada: assumendo a tempo indeterminato, ovunque siano e ovunque scrivano, carta o web, i collaboratori del giornale.

Una sfida ancora lunga

Una sfida ancora lunga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La bandiera dell’art. 18 e della riforma del lavoro sventola anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Il premier Renzi l’ha mostrata al Council on Foreign Relations e il messaggio politico è stato chiaro per tutti. Per gli americani la determinazione dell’ospite italiano e il suo inedito dinamismo sono di certo una piacevole sorpresa. Per chi invece vede le cose dalla vecchia Europa la bandiera renziana non ha segreti da tempo. È un metodo con una logica precisa. L’articolo 18 da abolire è un simbolo che ovviamente il presidente del Consiglio non può né vuole ammainare. E la connessa riforma del lavoro è anche una grande operazione di “marketing” volta a imporre all’estero l’immagine della “nuova Italia”.

In Italia infuria il dibattito sulla reale consistenza del personaggio Renzi, sulla sua capacità di trasformare le declamazioni in fatti concreti, e l’editoriale del direttore del “Corriere della Sera” ha fatto clamore. Ma intanto lui, il diretto interessato, gioca un’altra partita e in America usa il linguaggio ed evoca gli scenari che i suoi interlocutori d’oltreoceano apprezzano di più. È un altro aspetto dell’arabesco che egli sta ricamando con l’opinione pubblica interna e internazionale. Di conseguenza i suoi oppositori nel Pd, quelli che frenano sull’articolo 18, sembrano muoversi in un universo parallelo. E un po’ è vero. A Roma c’è chi ragiona ancora di vecchi partiti e di sindacati, di emendamenti e mediazioni. Ma dagli Stati Uniti la risposta è perentoria: sul piano formale non vengono evocati scenari elettorali, tuttavia le minacce politiche sono implicite e provengono da un uomo che quando è sotto pressione rilancia con spavalderia.

Ora è chiaro che il «gruppo Bersani» non ha interesse a spezzare il ramo su cui tutti sono seduti. In altri termini, i “conservatori” non puntano oggi alla crisi di governo. Però anch’essi, come Renzi, hanno un obiettivo politico: dimostrare che il premier si è spostato a destra ed è prigioniero di Berlusconi. Quei sette emendamenti che la minoranza ha presentato e che il premier respingerà per non apparire sconfitto servono a dimostrare che in un segmento del Pd sopravvive una diversa identità e un’altra idea della sinistra. È possibile che sia solo un’operazione di palazzo e che nel paese non esista sufficiente consenso per queste posizioni. Ma gli anti-Renzi lavorano su tempi medi senza pensare a scissioni.

Intanto lasciano a Renzi la responsabilità di spaccare lui il Pd. Nemmeno questo avverrà: forse, lontano dalle telecamere, si troverà persino un compromesso su qualche aspetto non centrale della legge. Ma il prossimo passaggio della contesa riguarderà la riforma elettorale. Se Renzi otterrà l'”Italicum” in tempi brevi, avrà vinto la sua partita. Se non lo otterrà, dovrà continuare a governare, a meno di non rischiare le urne con la legge proporzionale scaturita dalla Consulta. Facile capire che la minoranza del Pd aspetta il premier al varco quando si tratterà di eleggere il nuovo capo dello Stato, forse nella prossima primavera. Se sarà questo Parlamento a caricarsi della delicata incombenza, le armi di Renzi potrebbero rivelarsi spuntate. I casi di Violante e Bruno sono lì a dimostrare come le attuali assemblee siano difficilmente gestibili e non c’è patto del Nazareno che tenga.

Se si voterà il successore di Napolitano con queste Camere, e non con le prossime, la minoranza Pd, quella che si mantiene prudente, è in grado di impedire il successo del candidato di Renzi, chiunque egli sia. Ed è qui la vera partita. A meno che il premier non riesca a rivolgersi prima al corpo elettorale, il che oggi non sembra probabile.

Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Il viaggio del Presidente del Consiglio Matteo Renzi negli Stati Uniti ha molteplici obiettivi: partecipare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, essere presente alle manifestazioni su ambiente e clima, visitare la Silicon Valley e discutere con il Presidente della Università di Stanford delle determinanti che hanno portato ad un vasto distretto di forte sviluppo tecnologico.
Su questo argomento, c’è da augurarsi che rientri in Italia con lo stimolo di dare nuova vita a quella “politica industriale” che da qualche tempo sembra quasi una parolaccia. L’Italia è un Paese a vocazione manifatturiera per necessità: privo di materie prime, può solo contare su produzione industriale e mercato mondiale. Dall’inizio della crisi nel 2008, abbiamo perso quasi il 25% del valore aggiunto industriale e in percentuale del Pil la quota della nostra protezione industriale è passata dal 22% a poco più del 15%.
Ai livelli quasi della vicina Francia che conta però su un vasto comparto agricolo altamente sovvenzionato dai contribuenti europei tramite la politica agricola comune. Attenzione: proprio in Francia sono stati prodotti due importanti documenti, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012 che, pur ponendo l’accento sulla competitività dell’industria francese, contenevano proposte per una strategia industriale europea. Il Rapport Beffa ha avuta una certa eco grazie a seminari e dibattiti organizzati dalla Fondazione Ideazione. Il Rapport Gallois è stato semplicemente ignorato nel nostro Paese. In breve l’ultimo documento organico di politica industriale italiano resta quello predisposto da Antonio Marzano nel 2004, quando era Ministro delle Attività Produttive. Restò, però, una bozza di documento a ragione di una malattia di Marzano e del suo trasferimento al CNEL.
Renzi ha senza dubbio tratto utili stimoli dalla Silicon Valley e dagli incontri all’Università di Stanford. Mi chiedo, però, quanto siano pertinenti ad un Paese come il nostro tra gli ultimi in Europa in termini di infrastruttura cablata e banda larga e dove meno del 15% della popolazione in età lavorativa ha un diploma di laurea (rispetto al 30% in Spagna, al 29% in Francia ed al 27% in Germania, nonché al 75% nella Silicon Valley). Forse avrebbe tratto idee più concrete, e più rilevanti alla situazione italiana, dallo studio pubblicato in queste settimane dall’Inter-American Development Banl, o meglio una raccolta di studi curata da Gustavo Crespi ed Eduardo Fernandez Arias (Retinking Production Development: Sound Policies and Institutions for Economic Transformation).
Solamente i gufi schizzinosi possono adombrarsi da riferimenti all’America Latina. Mostrano di essere profondamente ignoranti degli alti tassi di crescita di numerosi Paesi dell’America Centrale e Meridionale negli ultimi vent’anni e di non sapere che per gran parte del Continente è non più l’Europa ma la Corea del Sud. I saggi indicano come riforme istituzionali – tanto care a Matteo Renzi – possono, anzi debbono, essere coniugate a politiche industriali ancorate ad innovazioni fattibili anche se scarseggiano le infrastrutture ed il capitale umano.
Particolarmente utile la sezione sui business incubator – e sul ruolo dello Stato e delle autonomie locali a questo riguardo – anche per ricca di casi di studio di “avventure” che hanno avuto successo in contesti non troppo distinti dal nostro. E’ vero che alcuni capitoli sono difficili da digerire: scritti per economisti quantitativi con una forte formazione matematica, possono scoraggiare i politici dalla loro lettura. Li salti a pie’ pari. E si concentri invece su quelli che possono dare una politica industriale all’Italia.

Pagamenti a quota 31 miliardi

Pagamenti a quota 31 miliardi

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

L’obiettivo di pagare tutti i debiti della Pa entro il 21 settembre, il fatidico giorno di San Matteo, non è stato centrato. Lo confermano gli ultimi dati pubblicati ieri dal ministero dell’Economia, sebbene si sottolinei come l’ammontare accumulato a fine 2013 sia inferiore alle precedenti stime (50 miliardi anziché i 60 miliardi più volte citati) e nonostante si ricordi che le imprese possono cedere i loro crediti alle banche secondo le regole del decreto 66/2014.

I numeri, alla fine, dicono che su poco meno di 57 miliardi stanziati sono stati erogati 38,4 miliardi agli enti debitori e di questi solo 31,3 miliardi sono finiti nelle casse dei creditori (il 55% delle risorse effettivamente disponibili). In particolare, 17,9 miliardi sono stati pagati ad imprese e professionisti che vantavano crediti nei confronti di Regioni e Province autonome; 7,7 miliardi sono andati a fornitori di Province e Comuni e 5,7 miliardi a quelli dello Stato (ma in questo caso, per 5,2 miliardi , si parla di rimborsi fiscali e non di crediti commerciali).

Il Mef mette comunque in evidenza il forte incremento dell’erogazione (+27%) e dei pagamenti (+20%) rispetto alla precedente rilevazione del 21 luglio scorso e ridimensiona l’intero fenomeno. Limitandosi al debito “patologico”, dunque scaduto e non oggetto di contenzioso, la massa da aggredire si ridurrebbe a 50 miliardi e dunque «le risorse fin qui stanziate sembrano essere più che sufficienti». È vero, ammette il Mef, che non è stato già pagato l’intero importo stanziato ma le ragioni vanno ricercate a livello locale. Molti Comuni hanno rallentato la richiesta di risorse perché hanno smaltito la gran parte degli arretrati mentre le Regioni sono fermate dal patto di stabilità interno, hanno problemi di contabilizzazione nei bilanci o non riescono a predisporre piani di pagamento dettagliati. Tra settembre e novembre, comunque, dovrebbero essere erogati dal Tesoro agli enti debitori altri 9 miliardi.

Un’analisi completa dell’argomento pagamenti della Pa richiede però una distinzione tra spese correnti e spese in conto capitale. Mentre sulle prime il governo può procedere senza remore, nel secondo caso – relativo agli investimenti – restano grosse criticità per il rischio di sforare i vincoli dell’indebitamento netto (per il governo sarebbero incagliati solo 2-3 miliardi, per i costruttori dell’Ance le cifre sarebbero sensibilmente superiori). E non è l’unico aspetto meritevole di approfondimento. Dal mondo sanitario, altro grande universo dei creditori della Pa, giungono diverse obiezioni. Assobiomedica sottolinea che, su oltre 3 miliardi di scoperto, 1,4 miliardi «non possono essere restituiti perché i debiti delle Regioni commissariate sono esclusi dal sistema di certificazione del ministero dell’Economia».

Il punto di soddisfazione reciproca, tra governo e imprese, appare dunque ancora lontano. Continuano ad esempio le segnalazioni su ritardi di pagamento relativi ai nuovi contratti. Su questo punto però il governo rilancia, promettendo «la riduzione generalizzata a 30 giorni» grazie all’introduzione della fatturazione elettronica e alle nuove regole di contabilità per le pubbliche amministrazioni.

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

Alessandro Campi – Il Messaggero

Ora o mai più. La minoranza di sinistra del Pd, che era rimasta come tramortita dalla trionfale vittoria riportata da Renzi alle elezioni europee, dopo un periodo di smarrimento e confusione ha trovato nella difesa dell’articolo 18 e nell’opposizione al Jobs Act proposto dal governo la sua ultima ed estrema frontiera di lotta. Se vince, tornerà ad essere condizionante e potrà prendersi la rivincita su chi ne aveva auspicato l’estinzione. Se perde, sarà per sempre e in Italia, bene o male che sia, si imporrà una sinistra diversa da quella conosciuta per decenni. La battaglia che essa ha deciso di combattere presenta una valenza duplice: strategica e tattica. Lo scontro sul lavoro è culturale in senso nobile e politico-parlamentare nel suo significato più contingente. L’esito, fallimentare o vincente, sarà il frutto convergente di queste due linee d’azione.

Partiamo dal primo aspetto. All’inizio quella di Renzi è parsa una propaganda tutta giocata sul tema del ricambio generazionale fine a se stesso: dentro i giovani, fuori i politici di lungo corso. Ma presto si è capito che erano in ballo altre prospettive e tematiche. La rottura renziana rispetto alla sinistra che governava il Pd, di matrice post-comunista e post-democristiana, riguardava anche il linguaggio, l’estetica e la visione della società. Renzi è un rappresentante dell’era televiso-digitale, ha introiettato i valori dell’individualismo, vive la politica come scontro tra leadership, non sente il peso delle appartenenze ideologiche. Renzi è intellettualmente un semplificatore, ha una cultura di governo che inclina al pragmatismo, non considera la società come una realtà da disciplinare o da indirizzare secondo modelli pedagogici dall’alto, nutre un’istintiva insofferenza per tutto ciò che è apparato o burocrazia, coltiva il mito giovanilistico della velocità e dell’immediatezza. Tutto ciò lo ha messo in urto con la sinistra storica italiana, le sue strutture organizzative, i suoi schemi mentali e i suoi valori di riferimento: il partito come luogo di discussione e confronto tra anime, correnti e gruppi, ma anche come “casa comune” alla quale subordinare la propria personalità; l’ideologia di appartenenza come fattore identitario e strumento privilegiato di analisi della realtà; una tradizione culturale intrisa di pauperismo e avversione per la ricchezza; la subordinazione dell’individuo (e delle sue aspirazioni) alla dimensione collettiva del vivere associato; il moralismo portato al limite dell’intransigenza nel rapporto con gli avversari; una visione socialmente statica e stratificata della società; una relazione sentimentale-emotiva con la propria base elettorale di riferimento vissuta come strutturalmente stabile; la complessità dei ragionamenti e delle analisi sino a sconfinare nell’intellettualismo e nell’astrattezza.

Quella di Renzi, proprio per queste differenze, è stata spesso definita dai suoi critici interni una sinistra, per così dire, troppo di destra, aliena rispetto alla visione convenzionale che si ha di una politica orientata in senso progressista e riformistico. Ma a spazzare i dubbi sull’autenticità e, al tempo stesso, sulla novità della sua proposta ci hanno pensato prima i militanti dello stesso Pd, che lo hanno incoronato segretario attraverso le primarie, poi gli elettori, che gli hanno consegnato percentuali di consenso mai toccate prima da quel mondo e dai suoi rappresentanti. Ma sul nodo del lavoro – che rappresenta in effetti il dna storico-ideologico della sinistra in tutto il mondo, sin dalle origini – si è pensato di poter nuovamente riproporre l’idea che Renzi, con la sua ansia innovatrice, sia in realtà prigioniero di pregiudizi ideologici e di una visione dei rapporti sociali che lo imparenterebbero addirittura con la signora Thatcher, l’esponente del liberismo più nerboruto e aggressivo. Bloccare il Jobs Act, in Parlamento o addirittura ricorrendo ad un referendum tra gli iscritti al partito, è diventato a questo punto un modo – l’ultimo e definitivo – per dimostrare l’eccentricità di Renzi rispetto alla tradizione della sinistra su una tematica che per quest’ultima riveste un valore simbolico prima che politico. Facile vantarsi di essere riformisti quando si combattono gli sprechi della pubblica amministrazione. Ma il bluff ideologico viene a galla quando si tolgono ai lavoratori i loro diritti costituzionali.

Oltre quella identitaria e ideale, c’è poi la battaglia tattica e strumentale. Renzi pensava, dopo essersi impossessato del partito, di poter indirizzare anche il voto dei gruppi parlamentari: scelti quanto Bersani era segretario, ma tenuti per disciplina ad un atteggiamento di lealtà verso il nuovo leader. Si è scoperto che così non è. Per aver gruppi politicamente disciplinati e culturalmente allineati, Renzi dovrà aspettare le prossime elezioni. Nel frattempo deve accettare una guerriglia parlamentare che – alla luce di ciò che è successo ieri: quaranta senatori del Pd hanno firmato gli emendamenti che puntano a bloccare la riforma dell’articolo 18 – potrebbe costringerlo, se vuole tirare dritto sul suo progetto di riforma, ad accettare i voti in aula di Forza Italia. Nascerebbe a quel punto una nuova maggioranza de facto. Ciò autorizzerebbe i suoi avversari interni – che alle pulsioni antiberlusconiane non hanno mai rinunciato, essendosi politicamente formati col mito negativo del Cavaliere nero – a trarne le ovvie conseguenze: una crisi di governo che nei loro piani non dovrebbe però preludere ad elezioni anticipate (del resto esclude dallo stesso Capo dello Stato). L’obiettivo è quello di liberarsi di Renzi, da sostituire magari con l’ennesimo tecnico, non offrirgli l’occasione per un referendum sulla sua persona che, anche senza cambiare l’attuale legge elettorale, vincerebbe a mani basse.

Da un lato, sottraendogli in Parlamento i voti del suo partito, si vuole spingere Renzi tra le braccia di Berlusconi. Dall’altro – come sembra mostrare la vicenda delle votazioni a vuoto sui giudici costituzionali – si vuole fare saltare l’accordo politico tra i due, che la sinistra interna non ha mai digerito ritenendolo innaturale. Sembrano prospettive contrastanti, si tratta in realtà di due strade finalizzate allo stesso traguardo: porre fine al disegno egemonico di Renzi, impedire che un fenomeno politico-culturale che gode di largo credito nel Paese ma ancora in via di strutturazione possa radicarsi alla stregua di un progetto organico. Resta naturalmente da chiedersi quanto in questo disegno demolitore, che unisce spinte ideali a un manifesto cinismo, risponda ad un calcolo politico razionale, che gli elettori progressisti, una volta uscito Renzi di scena, potranno persino apprezzare, o più semplicemente ad una pulsione fratricida, suicida e nichilista, che è la vocazione più autentica della sinistra italiana.